Bachi da Pietra, blues dal sottosuolo di un’Italia indipendente alla ricerca di “altri suoni”: perché Metal Mirror ha deciso di occuparsene? Perché il loro ultimo lavoro, “Necroide”, esprime in maniera esemplificativa un processo di “metalizzazione” che di recente ha investito diverse frange del rock.
I
Bachi da Pietra hanno origine come esperienza collaterale alle carriere già
avviate di Giovanni Succi (già protagonista nel rock cantautoriale dei Madrigali
Magri) e Bruno Dorella (ex Wolfango e attivo in Ronin
ed OVO). L'uno alla chitarra ed alla voce, l'altro alla batteria, danno
vita a questo loro nuovo progetto nell’anno 2004: i Bachi da Pietra nascono
così all'insegna di suoni ruvidi ed analogici, e di un blues scarno ed
essenziale. La voce di Succi è greve e sussurrata, i suoni striscianti, il
tutto farebbe pensare all'ennesima incarnazione più o meno necessaria della
scena alternativa italiana.
L’idea
riscuoterà pareri positivi tanto da parte della critica quanto del pubblico,
cosicché con il trascorrere degli anni l'esperienza tenderà a consolidarsi,
assumendo i contorni di un’entità stabile nel panorama del rock alternativo
tricolore. Per quanto riguarda i primi quattro album il percorso del duo si
rivelerà abbastanza lineare (dalla formula minimale degli esordi si passerà
progressivamente a forme più elaborate e ricche di sfaccettature). Con “Quintale”,
loro quinto album rilasciato nel 2013, qualcosa cambierà: i suoni diverranno
di colpo più corposi, la voce di Succi da roca si farà cavernosa, il loro
peculiare blues ancora più sporco e pesante. L’irresistibile “Paolo il Tarlo”,
sabbathiana fino al midollo, è forse la migliore rappresentazione di
questi nuovi Bachi da Pietra in salsa stoner. Se nell’iper-blues
frastornante di “Haiti” sembrerà di udire un Tom Waits sepolcrale
ricoperto da un fiume melmoso di feedback e distorsioni, in “Coleotteri”
o nella parte centrale di “Sangue”, i Bachi oseranno addentrarsi, senza
tante seghe, in territori thrash-metal tout-court.
Quello
che però in “Quintale” era stata una velata minaccia, con “Necroide” diviene
truce realtà. Anzitutto il titolo, che richiama indirettamente la morte di Jeff
Hanneman (affetto da fascite necrotizzante per via del morso di un
ragno: un proclama, un programma). Ma non c’è bisogno di scavare troppo fra i
significati sottintesi. L'opener dell'album parla chiaro: “Black Metal il mio folk” è il suo titolo. E non si tratta solo di uno slogan
altisonante: il raschiante recitato di Succi diventa growl tonante e la
distorsione della chitarra (pesantissima) guarda direttamente alle cantine
norvegesi.
Salvo
i primi secondi di ruvido palm muting, la canzone si muove con un passo
lento e cadenzato, ma spietato nel suo incedere, che ci può ricordare, per il groove,
“Roots Bloody Roots” dei Sepultura. Ma i brasiliani sono solo
un’influenza fra le altre nel miscuglione operato dal duo: per Succi e
Dorella black metal non significa Darkthrone, Mayhem e Burzum (non
dobbiamo aspettarci queste sottigliezze). Essi semmai hanno di questa etichetta
una visione arcaica, originaria, proprio di chi si è formato negli anni ottanta
ed è stato testimone dello svilupparsi di quel Metal del Male (Venom,
Slayer, Celtic Frost, primi Sepultura appunto) che viene
continuamente evocato dal frastuono dissonante dei riff in tremolo.
“Black Metal il mio
folk, difendi il nome del rock’n’roll” è il ritornello che viene ripetuto
come un mantra (anche con la variante “combatti nel nome del rock’n’roll”)
e che, non senza ironia, è la dichiarazione di intenti della band: il recupero
di un bagaglio esperienziale e culturale che è stato il metal agli inizi degli
anni ottanta, uno sguardo nostalgico rivolto ad un passato irrecuperabile. “Erano
bei tempi semplici e li chiamavi cupi e catastrofici”: il concetto sembra
essere si stava meglio quando si stava peggio, ma non si tratta solo di
musica. Alla luce degli attentati terroristici dei giorni scorsi a Parigi, è
ancor più chiaro quale sia il messaggio dei Bachi:
“Stirpe viziata
da
uno scherzo del caso,
hai
tenuto settant’anni
questo
spettro lontano,
ma
anche il caso ha una sua ironia
e
una cupa catastrofe
ora
sai cosa sia.
Ora
hai l’inferno in faccia,
non
più lontana e straniera,
ora
hai l’apocalisse in piazza,
hai
avuto la tua guerra vera.
Ora
è la tua terra
quella
che si strazia,
ora
è la tua casa
quella
che si devasta,
ora
è la tua gente quella si falcia
ora
è la tua testa quella che si taglia.”
Seguirà
un’accelerazione (anche quella molto sepulturiana) che va ad
accompagnare il testo nella sua escalation di violenza, o di “brutalità,
aberrazione, morte”, se si vuole utilizzare le parole di Succi. Quindi non
solo goliardia, ma anche apocalittica visione del mondo (quella di un Occidente
“viziato” che, dopo settant’anni di pace, riscopre di colpo il terrore e le
barbarie della guerra): uno scenario che solo il metal poteva delineare efficacemente.
I Bachi non si limitano più a giocare con i distorsori e a rincrudire ed
enfatizzare del sano e semplice rock'n'roll: il brano di per sé è clamoroso e
può provocare più di un brivido lungo la schiena del metallaro più ortodosso.
C’è
infine un’altra valenza che vorrei conferire al titolo del brano: se la
maturità artistica, nel senso comune, passa necessariamente da un
ammorbidimento dei suoni (dal rock al cantautorato), se per sentirsi “profondi”
bisogna suonare folk (il folk impegnato di Bob Dylan, il folk
introspettivo di Sun Kil Moon, il folk freakettone degli Akron/Family),
allora, dicono i Bachi, vi sbattiamo in faccia il black-metal, il nostro folk: questo
è il luogo da cui veniamo e questo è il luogo in cui torniamo con la vecchiaia.
Una vecchiaia sincera che non cede più a vuoti intellettualismi. Troppe
evoluzioni di artisti, più o meno grandi, sono state deformate da questa falsa
coscienza, quest’idea che per essere grandi bisogna fare i grandi, gli
adulti a tutti i costi, peraltro nel modo in cui sono stati adulti coloro che
oggi sono vecchi. Meno male che le cose stanno cambiando e che gli artisti,
senza più vergogna, stanno sempre di più tornando ad essere loro stessi,
sporchi e cattivi se necessario. Del resto i tempi sembrano richiedere proprio
questo.
“Necroide”
non è però un album che consiglierei a cuor leggero ad un pubblico metal,
perché gli influssi alternative-rock rimangono forti. Ricordiamoci (come ci suggerisce
la copertina, raffigurante un volto “pitturato” a metà fra trucco tribale e face-painting)
che l’intento dei Nostri è gettare un ponte fra metallo nero e blues
nero del Mississippi. E sebbene in episodi come la title-track o “Feccia
Rozza” o “Danza Macabra” si sfiori la violenza di un death metal (sì
semplice ed elementare, ma rozzo ed efficace – à la Brujeria, potremmo
dire), ci sono tante altre cose che con il metal poco c’azzeccano, compresa la ballad
noir “Sepolta Viva” o il funky-rock della seconda traccia intitolata
niente meno che “Slayer and The Family Stone”. Ma ad interessarci non è
tanto il risultato finale, quanto gli intenti: questo piacere nel riempirsi la
bocca di immagini evocanti il vero metal (Slayer, citare i Venom, gli Iron
Maiden ecc.).
No,
l'heavy metal non è più una vergogna: sono finiti i salottini bene dove si
ascoltava solo jazz e/o il cantautorato militante di una Joan Baez. Da
tutti i fronti, negli ultimi anni, la musica pensante si sta facendo sempre
più pesante. Tornano prepotentemente di moda gli Swans, lo
shoegaze si tinge di black metal (e non solo viceversa), e se l'elettronica
guarda sempre più volentieri all'harsh-noise, alla techno più annichilente,
all'ambient più affossante, il rock sembra recarsi verso le distorsioni, le dissonanze
e la potenza del metal.
Un
esempio su tutti: la Chelsea Wolfe di “Abyss”. Si è molto parlato
dell’ultimo lavoro di questa nuova musa della musica indipendente, ieri (guarda
caso) oscura cantautrice, oggi Nostra Signora del Doom. Mi ci gioco le
palle che questa si piazza fra i primi dieci album di molte classifiche di fine
anno. E’ sempre cantautorato amici miei, roba leggera per gente come noi, ma
nemmeno così leggera come ci si potrebbe aspettare. Chitarroni distorti, riff
sabbathiani, campanacci a morto: non ci interessa se questa sia o meno roba
per fighetti in cerca di sensazioni forti (a me comunque piace), ci
interessa invece il dato di fatto secondo cui molti stilemi del metallo vengono
oggi accolti da artisti non propriamente dediti al metal e che questa scelta
sia serenamente digerita dal loro pubblico.
Metal
is cool: ma non come lo era negli anni novanta grazie al Black Album
e ai videoclip dei Guns N’Roses (all'epoca il metal divenne
solamente più popolare annettendo alla sua platea orde di fresconi, ascoltatori
superficiali e qualunquisti interessati solo ai risvolti più pop del nostro
genere preferito). No, oggi il metal, spogliato dai suoi cliché più
superficiali ed irritanti (moto, birre e pupe) e compreso nella sua
metodologia, nella sua autenticità artistica, rivalutato in questa sorta di evoluzione
al contrario che porta verso la brutalità e non viceversa, il metal, si
diceva, sta diventando oggetto di interesse anche per l’ascoltatore più raffinato,
che finalmente riesce a vedere il metal non più come rumore, musica per
bifolchi, ma anche e soprattutto come veicolo espressivo in grado di
trasmettere meglio di altri certe tipologie di messaggi.
Lay down your soul to the god rock
and roll!!