11 nov 2015

ULVER: IL LUPO PERDE IL PELO E QUALCHE VOLTA ANCHE IL VIZIO…(parte terza)




I MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL

1° CLASSIFICATO (terza parte): “SHADOWS OF THE SUN”

Giungiamo dunque al termine della nostra indagine volta ad esplorare la dimensione non-metal all’interno dell’universo metal: un universo così grande ed accogliente da annettere in sé anche la negazione di se stesso. Ma giungiamo anche al termine della nostra mini-dissertazione sugli Ulver, che conquistano il primo posto della classifica. I norvegesi su questo terreno di gara si sono dimostrati i migliori di tutti, e più lontano di tutti si sono spinti con le loro sperimentazioni.

Se il folk ancestrale di “Kveldssanger” era stato le tesi di questo percorso di emancipazione dal metal (per loro il punto di partenza era stato il black metal), l’elettronica metropolitana di “Perdition City” ne è stata la perfetta antitesi. Secondo una rigorosa dialettica hegeliana, giungiamo dunque all’opera che va a costituire la sintesi dell’intero processo creativo.

Tappa numero tre: “Shadows of the Sun”, anno 2007.

Dopo l’uscita di “Perdition City” fu oramai chiaro a tutti che gli Ulver non avrebbero mai più avuto a che fare con il metal. Per quanto li seguissi con grande entusiasmo, ad un certo punto anche io iniziai a nutrire le prime perplessità, ad inquietarmi in merito alle loro sorti. I segnali del resto non erano incoraggianti.  

Nel 2001, per esempio, uscivano a distanza ravvicinata due EP “gemelli”, “Silence Teaches You How to Sing” e “Silencing the Singing” (in seguito rieditati insieme nell’operazione “Teachings in Silence”). Come già si evinceva dai titoli, i Lupi erano diretti con grande convinzione verso i lidi del minimalismo più estremo: la voce di Garm latitava e la musica programmaticamente si approssimava al silenzio. L’ermetismo della proposta da un lato, la difficile reperibilità dei prodotti dall’altro, esprimevano un elitarismo poi confermato fieramente dalla band stessa in antipatiche interviste, nelle quali veniva manifestata la volontà di rivolgersi ad una nicchia ultra-ristretta di pubblico: un pubblico che avrebbe dovuto inseguire la band (e non viceversa), anche a costo di grandi sacrifici, mentali, pratici ed economici.

Trascorse così un periodo più o meno lungo, in cui si alternavano EP (“A Quick Fix of Melancholy”) a colonne sonore (“Lyckantropen Themes”, “Svidd Neger”, “Uno – Musikk fra Filmen”), fin quando, all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, uscì nel 2005 un nuovo full-lenght: “Blood Inside”.

L’album di per sé non mi fece impazzire e tutt’oggi non mi convince appieno, ma almeno si fece apprezzare per il ritorno in pompa magna della voce di Kristoffer Rygg. Divenuti oramai un trio (oltre a Rygg e al fido Tore Ylwizaker, la formazione contemplava anche la presenza del polistrumentista Jorn H. Svaeren, entrato in organico nel 2003), gli Ulver avevano anche abbandonato gli estremismi minimalisti del recente passato, rendendosi responsabili di un sound corposo, stratificato, grondante effetti e suoni trattati. Nutrita è la compagine degli ospiti chiamati a dare il contributo: dalle percussioni di Carl Michael Eide (membro fondatore della band insieme a Garm) alle chitarre di Haavard (membro ufficiale fino a “Themes from…”) e Mike Keneally (già collaboratore di Frank Zappa: a dimostrazione di come oramai i norvegesi avessero conquistato una forte credibilità anche negli ambienti della “musica bene”). Eppure non tutto tornava: elettronica, dark-wave, pop, jazz, musica classica cozzavano e stridevano in questo esperimento un po’ pasticciato, ma ben accolto da molti fan, ringalluzziti dalla potenza dei suoni e da una ricchezza di contenuti che andava a contrastare/rinnegare definitivamente le recenti derive minimaliste.

Eccoci dunque a “Shadows of the Sun”, ennesimo cambio di rotta nella carriera degli Ulver: il paradigma è sempre quello elettronico, ma il nuovo album si dirige nella direzione opposta di “Blood Inside”, puntando nuovamente all’essenziale. Un essenziale che però non porta con sé l’artificiosità forzata degli intellettualismi del recente passato, ma che si libera serenamente del superfluo per scavare a fondo e dissotterrare nuove energie creative. Sospeso fra pop d’autore, ambient e musica da camera (della partita è anche un bel set di archi) “Shadows of the Sun” confonde David Sylvian e Depeche Mode, Christian Fennesz e Popol Vuh, Talk Talk e Sigur Ros, in un tutto organico che lo rende, come prodotto, unico ed irrimediabilmente “Ulver”.

Non a caso si parlava di evoluzione hegeliana all’inizio di questo scritto Nei suoni “Shadows of the Sun” è indubbiamente un punto di arrivo: mai l’elettronica dei norvegesi è stata così raffinata, levigata, curata in ogni singolo dettaglio. I toni, gli umori si fanno crepuscolari, i passaggi sfumati, le ritmiche quasi azzerate; i brani si susseguono in modo armonioso, come se facessero parte di un unico flusso dove gli scossoni dell’album precedente vengono definitivamente banditi. E la voce di Rygg, eterea come lo fu in “Bergtatt” e “Kvelssanger”, obliqua come lo era stata in “Themes from..”, “Perdition City” e “Blood Inside”, a metà strada fra il canto gregoriano e quello del muezzin, torna ad occupare spazi importanti, adagiandosi delicatamente sulle astratte liturgie di sintetizzatori, pianoforte ed archi.

“Shadows of the Sun” è un album profondo, tanto breve quanto intenso, come se esso si sviluppasse in verticale piuttosto che in orizzontale: ogni nota è ponderata e pregna di significati, il rintocco poetico del pianoforte, la greve voce meditativa, persino la svolazzante tromba-jazz che fa capolino qua e là, tutto procede senza fretta, come se si muovesse al di fuori del tempo stesso.

Un insieme di suoni e vocalità che assumono i contorni di un vero e proprio requiem, per l’umanità intera, per tutti noi (come recitato dalla dedica all’interno del booklet: “In memory of us all”). Il mood è dunque funereo, ma lo è in un senso spirituale, mistico, ancestrale, e in questo ci vedo un ricongiungimento alle origini del percorso artistico degli Ulver: essi tornano alle montagne, ai ghiacciai, si riappropriano del patrimonio paesaggistico della loro terra (le foto del booklet interno ritraggono i musicisti immersi nello specchio d’acqua di un gelido fiordo). Dal caos della città, essi rifuggono nuovamente per addentrarsi nell’oscura e magica intimità che aveva caratterizzato i loro primi lavori.

C’è molto di “Kveldssanger” in tutto questo (sebbene i richiami siano più nell’attitudine che nella forma), e forse vi sono anche tracce di black metal, paradossalmente resuscitato nelle chitarre distorte e riverberate dell’ospite Christian Fennesz: non solo collega e collaboratore, ma anche fonte di influenza e modello a cui tendere. Ed è significativo che proprio in questi frangenti, in cui le velleità intellettuali ed avanguardistiche raggiungono lo zenit elevandosi ad una collaborazione di tal pregio, si venga a sublimare e concentrare tutto il percorso degli Ulver, originato dalla ruvida elettricità del black metal. Un black metal che si va a “gemellare” con le manipolazioni elettroniche della chitarra del maestro viennese, simile tanto nella forma, quanto nella sostanza, alle rifrazioni dei riff in tremolo presenti in “Nattens Madrigal”.

Il cerchio dunque si chiude. Per questa ragione torna ad essere pertinente quanto avevamo scritto per “Bergtatt” (e successivamente esteso a “Kveldssanger”): “Gli Ulver, la Norvegia di quegli anni, ci raccontano anche un’altra storia: il fatto che la vera Arte, per motivi soprattutto sociologici, non si fa più nelle grandi città (Londra, Berlino, New York), ma laddove non c’è niente, dove l’uomo, l’artista può trovare se stesso e le verità dentro se stesso, non distratto dalla confusione, dal chiacchiericcio, dalla frenesia della società del mondo moderno.”