3 feb 2016

AGALLOCH: “BLACK LAKE NIỖSTǺNG”




I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO

4° CLASSIFICATO: “BLACK LAKE NIỖSTǺNG” (AGALLOCH)

Con gli In the Woods... abbiamo parlato di emozioni: emozioni fors'anche trasfigurate nell'elemento paesaggistico offerto dalle affascinanti lande norvegesi e dalla tradizione pagana del Nord Europa, ma pur sempre intimamente legate all'interiorità dell'artista. In quell'occasione si parlava di un cammino spirituale che tendeva a trascendere l'individuo nella sua fusione con gli Elementi.

Quindici anni dopo, dall'altra parte dell'oceano, simili sensazioni le abbiamo ritrovate con gli Agalloch, protagonisti dell’odierna tappa nella nostra rassegna dedicata ai migliori brani lunghi del metal estremo.


Fra i più rappresentativi alfieri della nuova ondata di band appartenenti al filone cosiddetto U.S. Black Metal, gli americani Agalloch (da Portland, Oregon, per l'esattezza) si sono da sempre dedicati alla scrittura di brani decisamente lunghi. Guardando essi agli insegnamenti dei vari Ulver, Katatonia ed Opeth (che di brani lunghi se ne intendono) e non disdegnando al tempo stesso le contaminazioni più azzardate (si pensi a quanto essi abbiano guardato al folk apocalittico di Death in June e Sol Invictus), la composizione di estesa durata si è prestata fin da subito ad essere la dimensione ideale per l'espressione del loro alto potenziale artistico. È così i Nostri aprivano il loro debutto "Pale Folklore" con “She Painted Fire Across the Skyline”, suite di quasi venti minuti (solo per comodità dell’ascoltatore divisa in tre tracce distinte). Ma non sarà di questo brano che vi parleremo oggi.

Come già visto nella nostra curiosa retrospettiva, nel 2010 gli Agalloch compivano con "Marrow of the Spirit" un’inaspettata virata verso i lidi aspri del black metal più essenziale, lidi peraltro mai solcati neppure ai tempi degli esordi. A molti la svolta non piacque, tenendo conto che si veniva dal capolavoro "Ashes Against the Grain", opera massimalista che si ammantava di suoni grassi e finemente arrangiati: difficile fare di meglio. Per questo i Nostri decisero, come solo i grandi sanno intuire appena in tempo, che era il momento di battere altre strade. Ma a ben vedere, dietro ai suoni grezzi e minimali del nuovo parto discografico, sopravviveva la complessità di scrittura e la profonda ispirazione dei migliori Agalloch.

"Marrow of the Spirit" è anzitutto un album sofferente, perché sofferente era stato il leader John Haughm, reduce allora da una grave malattia: il brano "The Watcher's Monolith" (detto per inciso: altro bell'esemplare di undici minuti!) va a raccontare proprio quell'esperienza salvifica che il musicista aveva vissuto a Externsteine (località nel nord della Germania) calandosi in un “sepolcro” di rocce (si torna al tema della fusione fra Natura ed essere umano). Il brano si concludeva con una malinconica coda di pianoforte, miraggio di purezza in una fitta selva di distorsioni, nonché sentiero che conduceva alla grandiosa "Black Lake Níðstang", diciassette minuti e trentaquattro secondi di incredibili emozioni.

Ma che diavolo è il Níðstang? Esso (normalizzato in “Nidstang”) è un bastone che, secondo la tradizione pagana tedesca, veniva utilizzato per inviare maledizioni ai propri nemici. Il lago nero, invece, è dove dimorano i morti, i quali impugnano il Nidstang per gettare il maleficio a chi profana i luoghi sacri della Natura. Dove sono finite le nobili gru che erano solite immergersi nelle acque increspate? Dove i cervi che dimoravano nella foresta? Atroci afflizioni, dunque, indirizzate a chi osa turbare la quiete del lago.

Un profondo dolore ha viaggiato attraverso i boschi
E ha trovato una casa nella nostra umile tomba”

La storia, scritta sulle acque, è raccontata prima da coloro che osservano il mondo da sotto la superficie dell’acqua del lago, poi dal bastone stesso, generando nella mente dell'ascoltatore visioni di estrema suggestione. L'intelligenza creatrice, nonché la profonda ispirazione, ha permesso agli Agalloch di gettare un ponte fra le terre americane e quell'universo pagano che era stato sapientemente evocato dalle band scandinave tre lustri prima. Si guardi alla grafica del cd, la cui superficie è solcata da un simbolo celtico alle cui estremità spiccano profili di teste di cervo.

E la musica? Sublime. Si era rimasti al pianoforte di "The Watcher's Monolith". La nera elettricità della chitarra è scossa da colpi di tom che viene battuto da mano nervosa, come se si volesse richiamare l’attenzione prima della celebrazione di un rito. Accordi prolungati sono striati da poche ma intense note prolungate di una chitarra solista, mentre le percussioni rintoccano solenni e scandiscono il rituale. Segue una ruvida sequenza ambientale dove Burzum sembra stringere la mano al Neil Young improvvisatore della colonna sonora di “Dead Man”: arpeggi elettrici si dipanano in modo libero ed ispirato, presto raggiunti da una chitarra acustica chiamata a fraseggiare con grande maestria. E’ la complessità del sound caratteristico degli Agalloch chi si ripropone nei suoi tre volti comunicanti: doom, black e folk.

Il brano procede claudicante, con quel fascino che era tipico delle band scandinave: un sound incerto ma di cuore. Se nelle prime strofe Haughm si prodigherà in quel sussurro che è a lui tanto caratteristico (è la voce dei Morti), in quelle successive risulterà incisivo il suo lamento lacerante, dove a parlare è direttamente Nidstang. Mai si è udito grido così dolente, stridulo gemito proveniente da un altro mondo che non pare il nostro. Non è uno screaming ma qualcosa di orrendamente espressivo che ha più dell'animale, o del sovrannaturale, che di umano.

Dopo aver toccato il suo zenit, il brano si spinge in una fase interlocutoria, dove confluiscono prog, ambient, post rock. I sintetizzatori disegnano scenari lisergici, si fa largo da lontano un giro di organo “trattato” dal sapore vagamente kraut. Uno xilofono (strumento raro nel metal: che sia piuttosto mutuato dall'universo neofolk?) danza surreale su quelle note, le quali si contraggono e dilatano, lasciando presto la scena alle chitarre. Esse inizieranno a duettare in fraseggi circolari che ricordano certi soundscape frippiani che il leader dei King Crimson ebbe modo di sperimentare negli album degli anni ottanta.

Lo screaming giungerà nel finale, nella porzione che più propriamente possiamo definire metal, dove epici riff si accoppiano con linee di chitarra di stampo classico. Il brano, sotto l’incalzare della batteria (la quale perderà infine ogni indugio e si getterà in un furioso blast-beat), assumerà le forme definitive del black metal, dove l’ugola spiritata di Haughm farà la sua parte.

"Black Lake Níðstang" è un quadro espressionista dallo straordinario potere evocativo, ma conserva tutto il pragmatismo che è tipico della cultura anglosassone. Un'intensa introduzione, due strofe recitate in modo diverso l'una dall'altra, un intermezzo sperimentale ed un finale bastonatore: entro le maglie invisibili di questa struttura, i Nostri riversano incandescente la loro energia creativa, lavorando decisamente bene sia sul fronte della scrittura che su quello della interpretazione.

Si è visto che, rispetto al metal classico, quello estremo sviluppa in modo più libero il format del brano lungo, dato che esso (il metal estremo) quasi mai si limita il classico schema strofa/ritornello, ed ancor più raramente ama impiegare assolo virtuosi o cori anthemici. Gli Agalloch, a metà strada fra emotività e raziocinio, centrano il bersaglio, costruendo la loro composizione lungo i binari di un emozionante crescendo, ma al tempo stesso bilanciando perfettamente le varie parti fra di loro. 

Lungi dallo scimmiottare le band scandinave, gli Agalloch decidono di percorrere i medesimi sentieri, traendo però ispirazione, non tanto dalle cartoline della Norvegia, bensì direttamente dagli umori ancestrali dalla loro terra, che di spettacoli mozzafiato ne offre. Montagne imponenti, foreste di conifere, laghi immensi sono questi gli scenari in cui i Nostri si muovono nella loro ricerca spirituale, sicuramente inquietati dai disastri ambientali, dalla violenza che la Natura subisce sistematicamente dall’Uomo. Esprimendo costoro una sensibilità che pensavamo possibile solo nella vecchia Europa.

Si è visto: la staffetta dell’Estremo nel terzo millennio ripasserà nelle mani dei musicisti americani, che, dopo la rivoluzione thrash e quelle death di venti, quindici anni prima, sapranno riprendere la guida del movimento, fondando la propria poetica sulle meraviglie della Natura e su un’interiorità affranta che solo dal black metal e dal post-metal poteva essere adeguatamente descritta.