I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO
4° CLASSIFICATO: “BLACK LAKE NIỖSTǺNG” (AGALLOCH)
Con
gli In the Woods... abbiamo parlato di emozioni: emozioni
fors'anche trasfigurate nell'elemento paesaggistico offerto dalle affascinanti
lande norvegesi e dalla tradizione pagana del Nord Europa, ma pur sempre
intimamente legate all'interiorità dell'artista. In quell'occasione si parlava
di un cammino spirituale che tendeva a trascendere l'individuo nella sua
fusione con gli Elementi.
Quindici
anni dopo, dall'altra parte dell'oceano, simili sensazioni le abbiamo ritrovate
con gli Agalloch, protagonisti dell’odierna tappa nella nostra rassegna
dedicata ai migliori brani lunghi del metal estremo.
Fra
i più rappresentativi alfieri della nuova ondata di band appartenenti al filone
cosiddetto U.S. Black Metal, gli americani Agalloch (da Portland, Oregon,
per l'esattezza) si sono da sempre dedicati alla scrittura di brani
decisamente lunghi. Guardando essi agli insegnamenti dei vari Ulver,
Katatonia ed Opeth (che di brani lunghi se ne intendono) e non
disdegnando al tempo stesso le contaminazioni più azzardate (si pensi a quanto
essi abbiano guardato al folk apocalittico di Death in June e Sol
Invictus), la composizione di estesa durata si è prestata fin da subito ad
essere la dimensione ideale per l'espressione del loro alto potenziale
artistico. È così i Nostri aprivano il loro debutto "Pale Folklore"
con “She Painted Fire Across the Skyline”, suite di quasi venti
minuti (solo per comodità dell’ascoltatore divisa in tre tracce distinte). Ma
non sarà di questo brano che vi parleremo oggi.
Come
già visto nella nostra curiosa retrospettiva, nel 2010 gli
Agalloch compivano con "Marrow of the Spirit" un’inaspettata
virata verso i lidi aspri del black metal più essenziale, lidi peraltro mai
solcati neppure ai tempi degli esordi. A molti la svolta non piacque, tenendo
conto che si veniva dal capolavoro "Ashes Against the Grain",
opera massimalista che si ammantava di suoni grassi e finemente arrangiati: difficile
fare di meglio. Per questo i Nostri decisero, come solo i grandi sanno
intuire appena in tempo, che era il momento di battere altre strade. Ma a ben
vedere, dietro ai suoni grezzi e minimali del nuovo parto discografico,
sopravviveva la complessità di scrittura e la profonda ispirazione dei migliori
Agalloch.
"Marrow
of the Spirit" è anzitutto un album sofferente, perché sofferente era
stato il leader John Haughm, reduce allora da una grave malattia:
il brano "The Watcher's Monolith" (detto per inciso: altro bell'esemplare
di undici minuti!) va a raccontare proprio quell'esperienza salvifica che
il musicista aveva vissuto a Externsteine (località nel nord della Germania)
calandosi in un “sepolcro” di rocce (si torna al tema della fusione fra Natura
ed essere umano). Il brano si concludeva con una malinconica coda di
pianoforte, miraggio di purezza in una fitta selva di distorsioni, nonché
sentiero che conduceva alla grandiosa "Black Lake Níðstang", diciassette
minuti e trentaquattro secondi di incredibili emozioni.
Ma
che diavolo è il Níðstang? Esso (normalizzato in “Nidstang”) è un
bastone che, secondo la tradizione pagana tedesca, veniva utilizzato per
inviare maledizioni ai propri nemici. Il lago nero, invece, è dove
dimorano i morti, i quali impugnano il Nidstang per gettare il maleficio a chi
profana i luoghi sacri della Natura. Dove sono finite le nobili gru che
erano solite immergersi nelle acque increspate? Dove i cervi che dimoravano
nella foresta? Atroci afflizioni, dunque, indirizzate a chi osa turbare la
quiete del lago.
“Un profondo dolore ha
viaggiato attraverso i boschi
E
ha trovato una casa nella nostra umile tomba”
La
storia, scritta sulle acque, è raccontata prima da coloro che osservano
il mondo da sotto la superficie dell’acqua del lago, poi dal bastone
stesso, generando nella mente dell'ascoltatore visioni di estrema suggestione.
L'intelligenza creatrice, nonché la profonda ispirazione, ha permesso agli
Agalloch di gettare un ponte fra le terre americane e quell'universo pagano che
era stato sapientemente evocato dalle band scandinave tre lustri prima.
Si guardi alla grafica del cd, la cui superficie è solcata da un simbolo
celtico alle cui estremità spiccano profili di teste di cervo.
E
la musica? Sublime. Si era rimasti al pianoforte di "The Watcher's
Monolith". La nera elettricità della chitarra è scossa da colpi di tom che
viene battuto da mano nervosa, come se si volesse richiamare l’attenzione prima
della celebrazione di un rito. Accordi prolungati sono striati da poche ma
intense note prolungate di una chitarra solista, mentre le percussioni
rintoccano solenni e scandiscono il rituale. Segue una ruvida sequenza
ambientale dove Burzum sembra stringere la mano al Neil Young improvvisatore
della colonna sonora di “Dead Man”: arpeggi elettrici si dipanano in
modo libero ed ispirato, presto raggiunti da una chitarra acustica chiamata a
fraseggiare con grande maestria. E’ la complessità del sound caratteristico
degli Agalloch chi si ripropone nei suoi tre volti comunicanti: doom, black
e folk.
Il
brano procede claudicante, con quel fascino che era tipico delle band
scandinave: un sound incerto ma di cuore. Se nelle prime strofe Haughm
si prodigherà in quel sussurro che è a lui tanto caratteristico (è la voce
dei Morti), in quelle successive risulterà incisivo il suo lamento lacerante,
dove a parlare è direttamente Nidstang. Mai si è udito grido così dolente,
stridulo gemito proveniente da un altro mondo che non pare il nostro. Non è uno
screaming ma qualcosa di orrendamente espressivo che ha più
dell'animale, o del sovrannaturale, che di umano.
Dopo
aver toccato il suo zenit, il brano si spinge in una fase interlocutoria,
dove confluiscono prog, ambient, post rock. I sintetizzatori disegnano scenari
lisergici, si fa largo da lontano un giro di organo “trattato” dal sapore
vagamente kraut. Uno xilofono (strumento raro nel metal: che sia
piuttosto mutuato dall'universo neofolk?) danza surreale su quelle note, le
quali si contraggono e dilatano, lasciando presto la scena alle chitarre. Esse
inizieranno a duettare in fraseggi circolari che ricordano certi soundscape
frippiani che il leader dei King Crimson ebbe modo di sperimentare
negli album degli anni ottanta.
Lo screaming
giungerà nel finale, nella porzione che più propriamente possiamo definire metal,
dove epici riff si accoppiano con linee di chitarra di stampo classico.
Il brano, sotto l’incalzare della batteria (la quale perderà infine ogni
indugio e si getterà in un furioso blast-beat), assumerà le forme
definitive del black metal, dove l’ugola spiritata di Haughm farà la sua
parte.
"Black
Lake Níðstang" è un quadro espressionista dallo straordinario potere
evocativo, ma conserva tutto il pragmatismo che è tipico della
cultura anglosassone. Un'intensa introduzione, due strofe recitate in modo
diverso l'una dall'altra, un intermezzo sperimentale ed un finale bastonatore:
entro le maglie invisibili di questa struttura, i Nostri riversano
incandescente la loro energia creativa, lavorando decisamente bene sia sul
fronte della scrittura che su quello della interpretazione.
Si è
visto che, rispetto al metal classico, quello estremo sviluppa in modo più
libero il format del brano lungo, dato che esso (il metal
estremo) quasi mai si limita il classico schema strofa/ritornello, ed ancor più
raramente ama impiegare assolo virtuosi o cori anthemici. Gli
Agalloch, a metà strada fra emotività e raziocinio, centrano il
bersaglio, costruendo la loro composizione lungo i binari di un emozionante crescendo,
ma al tempo stesso bilanciando perfettamente le varie parti fra di loro.
Lungi
dallo scimmiottare le band scandinave, gli Agalloch decidono di percorrere i
medesimi sentieri, traendo però ispirazione, non tanto dalle cartoline della
Norvegia, bensì direttamente dagli umori ancestrali dalla loro
terra, che di spettacoli mozzafiato ne offre. Montagne imponenti, foreste di
conifere, laghi immensi sono questi gli scenari in cui i Nostri si muovono
nella loro ricerca spirituale, sicuramente inquietati dai disastri ambientali,
dalla violenza che la Natura subisce sistematicamente dall’Uomo. Esprimendo costoro
una sensibilità che pensavamo possibile solo nella vecchia Europa.
Si è
visto: la staffetta dell’Estremo nel terzo millennio ripasserà nelle
mani dei musicisti americani, che, dopo la rivoluzione thrash e quelle death
di venti, quindici anni prima, sapranno riprendere la guida del movimento,
fondando la propria poetica sulle meraviglie della Natura e su un’interiorità
affranta che solo dal black metal e dal post-metal poteva essere
adeguatamente descritta.