26 feb 2016

RIOT, ITALIANS DO IT BETTER!


I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI ’80)

1988: THUNDERSTEEL

Se non avessero tentato la via del Rock, credo che avrebbero trovato una sicura scritturazione per un film di Francis Ford Coppola. O di Martin Scorsese. Una sorta di Gang of New York ante-litteram.

Reale, Speranza, Bitelli, Ventura…No, non sono i nomi di una scalcagnata squadra di baseball qualsiasi in una Brooklyn degli anni sessanta, ma quelli di un gruppo di ragazzi, figli di immigrati italiani nella Grande Mela, che, a fine anni settanta, non ancora ventenni, a suon di demo e tanto girovagare per case discografiche, riuscirono a entrare nel music business e, disco dopo disco, concerto dopo concerto, ad emergere. 
Erano i componenti originari dei Riot.

A cura di Morningrise

Ho deciso di chiudere con loro il tratteggio del c.d. “U.S. Power Metal”. Nei precedenti capitoli della nostra Rassegna ne abbiamo conosciuto gli aspetti più dark con i Metal Church; poi quelli più “classici” e melodici con i Vicious Rumors, per passare ai toni epici ed evocativi dei Manilla Road; infine abbiamo raggiunto l’apice con le sfaccettature più tecniche ed avanguardistiche dei Sanctuary. Con i Riot andiamo a conoscere l’ultima sfumatura del Power americano, quella più tirata, più propriamente speed.

In realtà i Riot non hanno una spiccata caratteristica che li faccia emergere in maniera peculiare. Sono piuttosto semplici, lineari, per quanto mai banali. E tutto sommato non particolarmente innovativi. Insomma, una band…normale!
Ma li ho voluti scegliere, oltre che per le continue e innumerevoli sfighe che li hanno accompagnati nel corso della loro carriera (e che dettaglieremo più avanti), perché, in questa loro semplicità e linearità esemplificano al meglio cosa si possa intendere per puro e sano heavy metal! Insomma: i Riot spaccano!! E di brutto! Non sempre, non in tutti i loro dischi. Ma i brani che compongono il qui presente “Thundersteel” hanno un “tiro” fenomenale. 46 minuti senza cedimenti, uno speed/power roccioso, melodico e coinvolgente. Senza filler, senza cali di tensione. E suonato in maniera dannatamente professionale.

La qualità di “Thundersteel” è ancora più sorprendente se pensiamo al fatto che esso fu il primo disco  pubblicato dopo che la band, quattro anni prima, si era sciolta dopo lo scarso riscontro commerciale di “Born in America”.
Reale, unico membro della formazione originale rimasto nel 1988, dopo diverso peregrinare e dopo aver dato vita ad altri progetti secondari, si convinse a dare un’altra opportunità alla sua creatura della prima ora.  Assoldato il mostruoso batterista Bobby Jarzombek e il cantante Tony Moore (nome molto più cool dell’originale che era Anthony Morabito…sempre per restare in tema di nomi a-la-film-di-Scorsese!), riuscì a tirare fuori dal cilindro questo piccolo gioiellino.

L’opener, che è anche la title track, mette subito in chiaro molto di quello che ci dovremo attendere per il resto del disco: speed metal a manetta, batteria lanciata a mille (ma sempre varia, lontana anni luce dal drumming “a pale di elicottero” che conosceremo nelle produzioni power del terzo millenio), riff trascinanti e una voce, ad opera del Sig. Morabito, acuta fino allo spasimo, dotata di un’ampiezza notevolissima. Gli assoli sono di matrice classica e di ottima fattura, sorretti da una sezione ritmica che non lascia spazi vuoti, ottimo compendio ai funambolismi di Reale.

Uno schema che si ripeterà nel corso del disco, già a partire dalla successiva, straripante “Fight or Fall” (brano che ha la particolarità di essere stato composto interamente dal bassista Don Van Stavern, che Mark si era portato dietro dal precedente progetto, Narita, avviato nel periodo di stasi dei Riot).
Meravigliosa poi “Sign of the Crimson Storm”, un mid tempo dai toni epici che dimostra la grande versatilità del combo che fa pienamente centro anche su ritmi più pacati. Una versatilità che troverà il suo massimo fulgore sia nella pseudo-ballad “Bloodstreet” (una perla, dove ancora una volta Reale dimostra di saper commuovere con assoli e fraseggi melodici di indubbia qualità) che, soprattutto, nella conclusiva “Buried Alive” che nei suoi quasi 9 minuti di durata, tra saliscendi ritmici ed emozionali, cupi rintocchi di campana, soffusi assoli, strofe potenti e cadenzate e un Moore sotto-le-righe più versatile che mai, può essere davvero presa come mirabile riassunto della qualità di scrittura dei Riot.

Ma è davvero riduttivo andare a descrivere canzone per canzone un disco che, nella sua totalità, non ha un attimo di cedimento, in cui la potenza della sezione ritmica (Jarzombek davvero un valore aggiunto enorme rispetto ai precedenti drummers dei Riot) si coniuga perfettamente con le trame chitarristiche di Reale, capace di fondere, amalgamandoli perfettamente, gusto melodico e impatto metallico (l’accoppiata “Flight of the Warrior” e “On Wings of Eagles” esemplificano appieno quanto appena esposto).

Un disco che, grazie alla qualità straordinaria dei pezzi che lo compongono e a una produzione corposa e, per l’epoca, cristallina (opera di Steve Loeb, fido produttore dei Riot dal debut “Rock City” del 1977) rimane tutt’ora un classico immortale di una band stra-sottovalutata. Ma che, chissà come, è stata altrettanto saccheggiata da moltissime altre metal band degli anni successivi…a dimostrazione che quando c’è la sostanza, qualcosa rimane sempre nella Storia della Musica!

Come accennato sopra, purtroppo, i Riot non si fecero mancare nulla nel corso della loro carriera. I cambi di line-up ne minarono profondamente la stabilità. Dopo l’ottimo “Fire Down Under” (1981) la band non troverà pace. Da quel momento Speranza lasciò, dilaniato da drammi religiosi interiori (sic!), Bitelli lo aveva già fatto qualche anno prima e Ventura addirittura se ne andò nel bel mezzo di un tour; e anche il nuovo cantante, Rhett Forrester, decise di provare la strada solista. Insomma, un calvario.

La line-up di “Thundersteel” fu quella relativamente più stabile nella tormentata vita dei Riot, tanto che durò per ben….due (2) album in studio consecutivamente! Già nell’ottimo “Nightbreaker” si potè trovare un nuovo cantante: Moore abbandonò e venne sostituito dall’ennesimo componente italo-americano, Mike DiMeo.
Tra questi continui avvicendamenti, album discreti e altri mediocri, si arriverà fino alla definitiva botta di sfiga, questa volta irreversibile: la morte di Reale nel 2012, unico membro sempre presente nella band e unico collante per la permanenza in vita dei Riot (nel frattempo, detto per inciso, erano morti , ma già "fuori" dai Riot, pure Forrester e Speranza!), che però, come detto grazie ai loro ottimi album degli anni ottanta, riusciranno comunque a ritagliarsi il loro posto nella Storia del Metallo.

Ma adesso è ora di tornare in Inghilterra…manca un solo capitolo al termine della decade ottantiana. Il 1989. E lo tratteremo, appunto, tornando là dove avevamo cominciato nel 1980.

La N.W.O.B.H.M. si era esaurita e la Terra d’Albione era entrata in una crisi metallica non da poco. Dalla quale la tireranno fuori i figliocci dei Black Sabbath. Ma ciò che esprimeva il panorama metal albionico in quel momento non era solo Anathema, Paradise Lost e My Dying Bride. C’erano musicisti notevoli che esulavano dal doom estremo di quel magico trio. E sarà su uno di loro, un talentuoso guitar hero, che la nostra attenzione si soffermerà…