I 10 MIGLIORI
ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI ’80)
1988: THUNDERSTEEL
Se non avessero tentato la via
del Rock, credo che avrebbero trovato una sicura scritturazione per un film di
Francis Ford Coppola. O di Martin Scorsese. Una sorta di Gang of New York
ante-litteram.
Reale, Speranza, Bitelli, Ventura…No, non sono i nomi di una
scalcagnata squadra di baseball qualsiasi in una Brooklyn degli anni sessanta,
ma quelli di un gruppo di ragazzi, figli di immigrati italiani nella Grande
Mela, che, a fine anni settanta, non ancora ventenni, a suon di demo e tanto
girovagare per case discografiche, riuscirono a entrare nel music business e,
disco dopo disco, concerto dopo concerto, ad emergere.
Erano i componenti
originari dei Riot.
Ho deciso di chiudere con loro il
tratteggio del c.d. “U.S. Power Metal”. Nei precedenti capitoli della nostra Rassegna ne abbiamo conosciuto gli aspetti più dark con i Metal Church; poi
quelli più “classici” e melodici con i Vicious Rumors, per passare ai toni
epici ed evocativi dei Manilla Road; infine abbiamo raggiunto l’apice con le
sfaccettature più tecniche ed avanguardistiche dei Sanctuary. Con i Riot
andiamo a conoscere l’ultima sfumatura del Power americano, quella più tirata,
più propriamente speed.
In realtà i Riot non hanno una
spiccata caratteristica che li faccia emergere in maniera peculiare. Sono piuttosto
semplici, lineari, per quanto mai banali. E tutto sommato non particolarmente
innovativi. Insomma, una band…normale!
Ma li ho voluti scegliere, oltre
che per le continue e innumerevoli sfighe che li hanno accompagnati nel corso
della loro carriera (e che dettaglieremo più avanti), perché, in questa loro
semplicità e linearità esemplificano al meglio cosa si possa intendere per puro
e sano heavy metal! Insomma: i Riot spaccano!! E di brutto! Non sempre, non in tutti i
loro dischi. Ma i brani che compongono il qui presente “Thundersteel” hanno un
“tiro” fenomenale. 46 minuti senza cedimenti, uno speed/power roccioso,
melodico e coinvolgente. Senza filler, senza cali di tensione. E suonato in
maniera dannatamente professionale.
La qualità di “Thundersteel” è
ancora più sorprendente se pensiamo al fatto che esso fu il primo disco pubblicato dopo
che la band, quattro anni prima, si era sciolta dopo lo scarso riscontro
commerciale di “Born in America”.
Reale, unico membro della
formazione originale rimasto nel 1988, dopo diverso peregrinare e dopo aver
dato vita ad altri progetti secondari, si convinse a dare un’altra opportunità alla
sua creatura della prima ora. Assoldato
il mostruoso batterista Bobby Jarzombek
e il cantante Tony Moore (nome molto
più cool dell’originale che era Anthony Morabito…sempre per restare in tema di
nomi a-la-film-di-Scorsese!), riuscì a tirare fuori dal cilindro questo piccolo
gioiellino.
L’opener, che è anche la title
track, mette subito in chiaro molto di quello che ci dovremo attendere per il
resto del disco: speed metal a manetta, batteria lanciata a mille (ma sempre
varia, lontana anni luce dal drumming “a pale di elicottero” che conosceremo
nelle produzioni power del terzo millenio), riff trascinanti e una voce, ad
opera del Sig. Morabito, acuta fino allo spasimo, dotata di un’ampiezza
notevolissima. Gli assoli sono di matrice classica e di ottima fattura,
sorretti da una sezione ritmica che non lascia spazi vuoti, ottimo compendio ai funambolismi di Reale.
Uno schema che si ripeterà nel
corso del disco, già a partire dalla successiva, straripante “Fight or Fall”
(brano che ha la particolarità di essere stato composto interamente dal
bassista Don Van Stavern, che Mark
si era portato dietro dal precedente progetto, Narita, avviato nel periodo di
stasi dei Riot).
Meravigliosa poi “Sign of the
Crimson Storm”, un mid tempo dai toni epici che dimostra la grande versatilità
del combo che fa pienamente centro anche su ritmi più pacati. Una versatilità
che troverà il suo massimo fulgore sia nella pseudo-ballad “Bloodstreet” (una perla, dove ancora una volta Reale dimostra di saper commuovere con assoli
e fraseggi melodici di indubbia qualità) che, soprattutto, nella conclusiva
“Buried Alive” che nei suoi quasi 9 minuti di durata, tra saliscendi ritmici ed
emozionali, cupi rintocchi di campana, soffusi assoli, strofe potenti e
cadenzate e un Moore sotto-le-righe più versatile che mai, può essere davvero
presa come mirabile riassunto della qualità di scrittura dei Riot.
Ma è davvero riduttivo andare a
descrivere canzone per canzone un disco che, nella sua totalità, non ha un
attimo di cedimento, in cui la potenza della sezione ritmica (Jarzombek davvero
un valore aggiunto enorme rispetto ai precedenti drummers dei Riot) si coniuga
perfettamente con le trame chitarristiche di Reale, capace di fondere,
amalgamandoli perfettamente, gusto melodico e impatto metallico (l’accoppiata “Flight
of the Warrior” e “On Wings of Eagles” esemplificano appieno quanto appena
esposto).
Un disco che, grazie alla qualità
straordinaria dei pezzi che lo compongono e a una produzione corposa e, per
l’epoca, cristallina (opera di Steve
Loeb, fido produttore dei Riot dal debut “Rock City” del 1977) rimane
tutt’ora un classico immortale di una band stra-sottovalutata. Ma che, chissà
come, è stata altrettanto saccheggiata da moltissime altre metal band degli
anni successivi…a dimostrazione che quando c’è la sostanza, qualcosa rimane
sempre nella Storia della Musica!
Come accennato sopra, purtroppo,
i Riot non si fecero mancare nulla nel corso della loro carriera. I cambi di
line-up ne minarono profondamente la stabilità. Dopo l’ottimo “Fire Down Under” (1981) la band non troverà pace. Da quel momento Speranza lasciò, dilaniato da drammi religiosi interiori
(sic!), Bitelli lo aveva già fatto qualche anno prima e Ventura addirittura se
ne andò nel bel mezzo di un tour; e anche il nuovo cantante, Rhett Forrester,
decise di provare la strada solista. Insomma, un calvario.
La line-up di “Thundersteel” fu
quella relativamente più stabile nella tormentata vita dei Riot, tanto che
durò per ben….due (2) album in studio consecutivamente! Già nell’ottimo
“Nightbreaker” si potè trovare un nuovo cantante: Moore abbandonò e venne
sostituito dall’ennesimo componente italo-americano, Mike DiMeo.
Tra questi continui
avvicendamenti, album discreti e altri mediocri, si arriverà fino alla
definitiva botta di sfiga, questa volta irreversibile: la morte di Reale nel
2012, unico membro sempre presente nella band e unico collante per la permanenza in vita dei Riot (nel frattempo, detto per inciso, erano morti , ma già "fuori" dai Riot, pure Forrester e Speranza!), che però, come detto grazie ai loro ottimi album degli anni ottanta, riusciranno comunque a ritagliarsi il loro posto nella Storia del Metallo.
Ma adesso è ora di tornare in
Inghilterra…manca un solo capitolo al termine della decade ottantiana. Il 1989.
E lo tratteremo, appunto, tornando là dove avevamo cominciato nel 1980.