4 apr 2016

RESURREZIONI (terza puntata): SE IL DEATH METAL RISORGE DALLA CRIPTA...




Swans, Burzum: due modi diversi di rinascere, due esempi di come sia possibile, dopo tanti anni, tornare alla ribalta e portare sul mercato discografico prodotti che siano in grado di competere con un passato glorioso.

Tuttavia le tanto sbandierate reunion divengono il più delle volte occasioni per raschiare il fondo del barile e permettere a vecchi ed imbolsiti musicisti, probabilmente pieni di debiti, di sbarcare il lunario facendo leva sulla fama guadagnata ai bei tempi d'oro. Se è vero che di solito il frutto di queste operazioni è un prodotto che è l’ombra di quello che fu, è anche vero che esse si possono rivelare ghiotte occasioni per accalcarsi sotto al palco e rivendicare la riproposizione dei grandi classici da parte di band che pensavamo oramai irrimediabilmente defunte. Ci si può dunque accontentare. Ma anche no…


In questa veloce carrellata (che ovviamente non ha pretese di esaustività), vogliamo partire proprio dalla merda. Una merda per noi difficilmente comprensibile, perché se possiamo anche immaginare il volume di denaro mosso dalle band più popolari e le pressioni fatte dalle case discografiche (potrebbe essere, per esempio, il caso dei R.E.M., se mai un giorno decidessero di rimettersi insieme), certo è più di difficile per noi capire cosa spinga a tornare sulle scene disgraziati che certo non si possono definire galline dalle uova d'oro per l'industria discografica. Sarà pura passione? E allora perché dei prodotti così scadenti?

Quando nel 2008 appresi la notizia che i Pestilence sarebbero tornati in studio, personalmente parlando godetti come un tacchino. “Consuming Impulse”, “Testimony of the Ancients” e soprattutto “Spheres” erano stati album che avevo letteralmente consumato nella mia ottenebrante gioventù. Poi, raggiunto lo zenit artistico, nel 1993 gli olandesi sparirono nel nulla: le ultime notizie davano i Nostri intenti a suonare jazz per hobby. Me ne feci dunque una ragione: se questa era la loro volontà, che andassero con Dio, visto che parlare di death metal era oramai proibitivo. Amen.

Resurrection Macabre” (un titolo a dir poco auto-celebrativo), uscito nel 2009, apriva inaspettatamente una seconda vita artistica per la band. Patrick Mameli, al netto dei compagni storici Patrick Uterwijk (chitarrista superlativo) e Marco Foddis (batterista imprevedibile e geniale paroliere), si ripresentò facendosi carico di tutta la baracca, ripescando dalla merda il bassista Tony Choy (ex Atheist, militante come session in “Testimony of the Ancients”) e l'inutile batterista Peter Wildoer (direttamente dai Darkane). Il risultato? Una merda pazzesca: ridotte, quasi azzerate le influenze jazz, i brani indietreggiavano nella direzione di un canonico death metal che manco quando erano quattordicenni i Pestilence suonavano. Il ritorno di Uterwijk all'ovile nei successivi “Doctrine” (2011) e “Obsideo” (2013), nonostante i titoli accattivanti, non gioverà all'operazione, la quale, oltre che deleteria per la reputazione della band, risulterà persino insensata: perché un manipolo di pionieri che seppe arrivare dove pochi altri riuscirono, volge improvvisamente lo sguardo verso un sound grezzo e sempliciotto nemmeno fosse l'ultima delle banducole death metal che da sempre popolano il genere?

Perché lo fai Mameli? Perché non sei adesso a fare il corriere alla TNT e il sabato sera a suonare jazz con la sigaretta in bocca (ammesso che tu abbia mai fumato) in un club esclusivo da qualche parte in Olanda?  E chissà come se la ride oggi il buon Marco Foddis in canotta mentre assesta gli ultimi colpi di cazzuola (visto che starà sicuramente facendo il muratore) innanzi agli scontati blast-beat di Wildoer che appiattiscono in modo criminale gli scialbi pezzi dei Pestilence post-reunion...

Voltiamo dunque pagina. Se si dice Pestilence, si pensa Cynic, anch’essi rifioriti in una inaspettata recente reunion. Se perlomeno i redivivi olandesi si sono dovuti confrontare (fallendo) con una carriera, l’impresa degli americani è stata ben più ardua, visto che si sono dovuti confrontare con un solo album: un capolavoro assoluto, unico nel suo genere, inimitabile ed inimitato, tanto da assumere nel corso degli anni lo status di opera mitica. Quando la tua discografia si compone solamente di un lavoro come “Focus” (correva l’anno 1993) e decidi di tornare quindici anni dopo, non ci sono molte alternative: o sforni un capolavoro o sforni un capolavoro. Non è stato il caso di Paul Masvidal e Sean Reinert, che con “Traced in Air” (anno 2008) decisero di deludere un po’ tutti fra pubblico e critica. Il fatto è che certa gente, evidentemente, non ha la consapevolezza di quello che ha rappresentato per i propri fan.

Rispolverare un marchio storico come i Cynic era dunque un suicidio annunciato. Per l’amordiddio, non è che “Traced in Air” sia una cagata insensata come gli album dei Pestilence, solo che non convince proprio per niente. E poi certe scelte rimangono discutibili. Per esempio la durata: anche “Focus” durava poco, ma cazzo, non puoi tornare dopo quindici anni e ripresentarti con trentaquattro minuti risicati! Punto secondo: se la scelta è stata (comprensibilmente) di proseguire su sonorità jazz e fusion, perché mantenere sprazzi di vocalità death? Peraltro interpretate in maniera anonima da Tymon Kruidenier? Ma soprattutto: chi cazzo è Tymon Kruidenier? Carissimi Paul e Sean, suonate jazz, fusion, funky, reggae, suonate il cazzo che vi pare, stupitemi, provocatemi, fatemi incazzare, ma per piacere non mi consegnate un disco ibrido in cui alleggerite il sound tanto da spingerci a chiederci “perché vi stiamo ascoltando?” e poi ci buttate sopra, a caso, qualche cantata death qua e là, così, tanto per fare.

Non è rispettoso, non lo è per noi e non lo è per voi. Per noi perché non vi aspettavamo neppure, noi che avremmo continuato a ricordarvi volentieri pensando a “Focus”, facendoci le seghe mentali cercando di immaginarci chissà quale sarebbe stata la carriera dei grandi Cynic se non si fossero sciolti; ma visto che siete tornati e ci fate venire l'acquolina in bocca, allora fatece gode’, no? Ma non è rispettoso nemmeno per voi, che avete una certa età e che fareste meglio a passeggiare nei parchi e portare a spasso i vostri cani o i vostri i figli, anzi no!, perché Masvidal e Reinert sono omosessuali, come da loro recentemente dichiarato. Ma a prescindere dall'orientamento sessuale (che poco ci interessa), i nostri eroi avevano sicuramente tanti altri modi per esprimere la loro gioia di vivere, non necessariamente propinandoci ‘sta sorta di zuccherosa musica new age con testi degni dello Zecchino D'Oro.   

Buone le intenzioni, dunque, ma bocciati anche i Cynic: il nostro giudizio è che potevano anche evitare. Ma procediamo oltre. Stavo per dire “meno male che gli Atheist non si sono rimessi insieme” ed invece, controllando per scrupolo su wikipedia, cosa scopro? Che anche gli Atheist si sono riformati e che nel 2010 è uscito il loro ultimo album, “Jupiter”, il quarto sulla lunga distanza, ben diciassette anni dopo il mitico “Elements”. In verità non è una vera scoperta, perché a pensarci bene, scavando nei recessi reconditi della mia memoria, mi sovviene adesso che forse forse qualche anno fa accadde qualcosa del genere, tipo il ritorno non richiesto e poco eclatante degli Atheist. Vi dirò: già il fatto che non lo ricordi è di per sé sintomatico.

Ed in effetti “Jupiter”, lungi dall’essere un’opera memorabile, non è altro che l’onesto prodotto di una band di onesti musicisti. Già degli Atheist non ce ne fregava più un cazzo (a me, personalmente, non hanno mai fatto impazzire: il tipico gruppo bello in teoria, ma che poi non hai mai voglia di ascoltare); poi Kelly Shaefer alla voce (che sembrava Paolino Paperino con le emorroidi che si sforzava di cagare) non si poteva sentire una volta, figuriamoci nel 2010! Più mettiamoci il fatto che i Nostri si mettono a fare un passo indietro piuttosto che uno in avanti, e la partita è finita: operazione totalmente inutile per chiunque non veda altro Dio che gli Atheist (scusate l’ossimoro). “Jupiter” ha degli spunti interessanti, ma sostanzialmente non aggiunge niente alla carriera degli americani, guardando più ad un “Unquestionable Presence” che ad “Elements”, l’apice sperimentale della band: non che “Unquestionable…” ci dispiaccia (anzi!), ma francamente da dei maestri dell’avanguardia metallica ci aspettiamo di più che un dimesso revival. Questi gruppi non hanno forse capito che ci hanno abituato male: se nell’arco di un paio di anni compievano evoluzioni mirabolanti e vertiginose, nell’arco di tre lustri lo stacco artistico deve essere ai nostri occhi come minimo proporzionale. Che cazzo dovevano fare dunque gli Atheist dopo diciassette anni di silenzio? Come minimo registrare una partita a ping-pong di trentasette minuti! Credetemi: l’avremmo apprezzato di più!

Voltiamo dunque pagina ed andiamo invece a vedere un altra entità pensante del death metal: una band di cui forse non abbiamo sentito la mancanza, ma che con il suo ritorno ci ha fatto capire quale fosse la sua effettiva caratura artistica. Parlo (ehm…) dei Gorguts. Per molti questo suono gutturale potrà forse evocare non altro che un processo di digestione non andato a buon fine, ma i canadesi sono stati una stupenda realtà del death metal: un’esperienza che purtroppo ebbe fine nell’anno 2001, dopo cinque ottimi album che videro in “Obscura” (1998) il masterpiece assoluto e in “From Wisdom to Hate” (2001) l’epitaffio finale. Fra la gioia e l’indifferenza i Gorguts sono tornati di recente a girare nei nostri padiglioni auricolari con l’eccellente “Colored Sands” del 2013, album superlativo che guarda a testa alta il passato discografico della band.

Il trionfo dei Gorguts, rispetto ai loro colleghi, sta forse nel genere suonato, un genere che probabilmente meglio si presta a resistere al fattore tempo: un death indubbiamente sperimentale e dal taglio progressivo, ma di impronta rigorosamente classica. La tipica evoluzione, la loro, che si è rivelata un processo lento e costante che potenzialmente può andare avanti all’infinito senza mai deludere (un po’ come quelle aziende che crescono dell’1% all’anno, che rischiano poco e non falliscono mai!). Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare: gran parte del merito della buona uscita dell’operazione va all’ispirazione per niente incrinata del leader Luc Lemay, sorta di Chuck Schuldiner canadese, cervello pensante in corpo di cinghiale (vederlo dal vivo, barba da camionista ed occhialini da intellettuale è uno spettacolo che non può non portare all’esaltazione mistica), virtuoso chitarrista, tanta panna in bocca e dissonanze a go go! Ma chi l’ammazza il Lemay?

Eccoci dunque che all’evento clou in ambito death metal degli ultimi anni: il ritorno dei Carcass. Purtroppo nemmeno in questo caso possiamo dire serenamente: “Ne valeva la pena!”. Scioltisi nel 1996 dopo quell’album strano che era stato “Swansong”, il quale aveva condotto gli inglesi verso i lidi dell’hard-rock (vabbè, lasciamo perdere), i Carcass potevano tranquillamente andarsene in pensione affermando: “Il nostro l’abbiamo fatto!”. Dal sound brutale e putrefatto di album pioneristici come “Reek of Putrefation” e “Symphonies of Seekness”, fino ai tecnicismi ed al gusto melodico sfoggiati in “Heartwork”, passando dalla complessità chirurgica e patologica di “Necroticism”, l’escalation artistica dei britannici è stato fantasmagorica, nonché di fondamentale insegnamento per vaste frange del metallo morto.

Perché dunque tornare e scalfire la leggenda? Motivi inspiegabili spingono i quarantaquattrenni Bill Steer e Jeff Walker a rientrare in studio e riprendere un discorso lasciato in sospeso per diciassette anni. Nel 2013 esce così “Surgical Steel”, dopo un tour trionfale che aveva suscitato entusiasmi e grandi aspettative. Per questo loro atteso ritorno, però, i Carcass preferiscono guardare più a “Necroticism” che a Heartwork, palesando una tendenza che nel metal è oramai regola: una band cresce cresce cresce, poi si scioglie e, quando si riforma (complice la vecchiaia), sembra voler correggere il tiro e fare un passetto indietro, nel senso che non riprende il cammino da dove l'aveva lasciato per proseguire oltre (ossia: non riparte da quella forma che esprimeva la maturazione ultima prima dello scioglimento), bensì torna a quella che era stata una fase intermedia (nel nostro caso “Necroticism”). Teoricamente si tratta di un problema, ma nei fatti non lo è.

Il problema, Bill e Jeff, non siete voi, ma siamo noi. Noi metallari, intendo, che siamo dei sentimentali del cazzo, che perdoniamo e condanniamo, non guardando mai dentro noi stessi. Il fatto è che avete confezionato un album inappuntabile, tecnico e sufficientemente ispirato. Cos'è che non ci va bene? Il fatto che non è un capolavoro, ma solo un lavoro semplicemente ordinario: il classico album da 7/10, il buonetto con stima per la buona volontà.

La stessa identica cosa che è accaduta agli svedesi At The Gates, colpevoli di essere tornati dopo quasi venti anni di inattività (nel 2014 per l’esattezza) con un album semplicemente ordinario come “At War with Reality”: troppo poco al confronto di una carriera virtuosa articolata in quattro album fenomenali usciti fra il 1992 e il 1995, ultimo dei quali il supremo capolavoro “Slaughter of the Soul”, manifesto del Gothenburg Sound tutto.

Colpa nostra, amici miei, perché questa è brava gente. Certo, ci si deve un attimino confrontare con il fattore tempo, ma vi sfido io a farvi oggi la corsetta che vi facevate vent’anni fa per tenervi in forma. Questa è brava gente, imbolsita, ma brava gente. Del resto, non sono mica tutti dei figli di puttana come i Venom...

…Ops, ci è sfuggita un'anticipazione riguardante la prossima puntata...