Quello che doveva essere un post
prettamente pasquale (il tema della resurrezione nasceva proprio
come spunto per celebrare quelle festività, sebbene passare la Santa Pasqua
assieme agli Swans non sia stato proprio il massimo dell’ortodossia
cristiana!) è divenuta un saga di sette puntate dedicate alle reunion
o alle rinascite artistiche che si sono verificate negli ultimi anni nel
metal. Se abbiamo avuto modo di onorare gli apprezzabili ritorni di Swans
(appunto), Burzum e Celtic Frost (tanto per citare quelli che abbiamo
gradito di più), abbiamo anche dovuto constatare che la maggior parte di queste
operazioni si sono rivelate, se non disastrose, poco significative. Heavy metal classico, glam, thrash, death: nessuno è scampato
al fenomeno dell’Eterno Ritorno.
Concludiamo tuttavia questo
ciclo di trattazioni (che ovviamente non ha pretese di esaustività) con una
nota positiva: il ritorno degli Anathema con l’ottimo “We’re Here
Because We’re Here”, rilasciato dopo sette interminabili anni di silenzio
discografico.
Abbiamo già abbondantemente parlato
della creatura dei fratelli Cavanagh sul nostro blog, toccando un
po’ tutte le fasi artistiche attraversate dalla band inglese, dal doom/death
degli esordi al rock sofisticato dei nostri giorni: analizzando il brano
“We, The Gods”, parlando degli Antimatter (il progetto avviato
dall’ex bassista Duncan Patterson) e ponendo l’eccellente “Weather Systems” al secondo posto della nostra classifica dei migliori album
non-metal fatti da band o artisti metal.
Dal punto di vista della
chiarezza d’intenti, quella attuale è la fase più splendente dell’epopea
artistica degli Anathema. Guardandolo a posteriori, il percorso di maturazione
della band si è rivelato strettamente legato alle dinamiche interne nella band,
la quale, nonostante gli svariati cambi di line-up, è riuscita con
costanza ad assicurare una produzione discografica più che buona.
Gli Anathema nascevano con
tre teste pensanti: il cantante Darren White (poeta romantico dalla voce
da orco), il chitarrista Daniel Cavanagh (estroso come pochi in ambito
gothic-doom) e il bassista Duncan Patterson (anima sperimentale sospesa
fra Pink Floyd e Celtic Frost). Con l’uscita di White, le energie
creative iniziarono a polarizzarsi intorno alle figure carismatiche di Cavanagh
e Patterson. Se la spinta volta ad emanciparsi dagli stilemi del metal estremo fu
principalmente dovuta a Patterson, egli trovò sicuramente in Cavanagh un valido
alleato. Nello striscione del traguardo c’era scritto “Pink Floyd”
e in questa corsa il bassista rappresentava indubbiamente l’anima watersiana,
mentre il chitarrista quella gilmouriana. Logico che due forze così
complementari, ma anche opposte (l’una tendente al minimalismo, l’altra alla
sontuosa messa in scena), dovessero, dopo aver dato grandi frutti, finire per
manifestare la loro inconciliabilità.
Uscito Patterson (come si
diceva, egli fondò gli Antimatter), tutto il peso creativo gravò di
colpo sulle spalle del buon Daniel (sebbene piano piano stesse emergendo il
potenziale del fratello Vincent, che nel frattempo era subentrato a
White in qualità di vocalist). La band in un primo momento sembrò subire
il contraccolpo e “Judgement” appariva ancora influenzato dal fantasma
dell’ex bassista, come se i Nostri non fossero in grado fino in fondo di
liberarsi dall’ego ingombrante di colui che una volta era stato il maggiore
autore all’interno della band. “A Nice Day to Exit” già rappresentava un
bel passo avanti, distaccandosi definitivamente dall’universo dark/pinkfloydiano
tanto caro a Patterson, per spostarsi verso un rock sentimentale e moderno in
stile Radiohead. A sentire Daniel, però, la gestione della band non era per
niente facile, sentendosi sul groppone non solo le responsabilità della
direzione artistica, ma anche di tutto il resto (organizzazione, promozione
ecc.), tant’è che una sera, ubriaco fradicio, esasperato e mezzo depresso, decise
di ufficializzare sulla pagina web il suo abbandono. Ciò avveniva nel
2002, anno in cui il Nostro si unì agli Antimatter, già orfani di
Patterson (ma va?) e sotto la guida del solo Mick Moss.
Apprendendo la notizia, mi
chiesi cosa si sarebbero inventati i superstiti Anathema privati della loro
guida. La mia risposta fu: nulla. Ed infatti nulla fecero, ma ebbero anche poco
tempo per ingegnarsi, visto che il chitarrista rientrò quasi subito e la band
dette alla luce “A Natural Disaster”, completamente scritto da Daniel. In
esso troviamo forse i momenti più “alti” di quella fase con brani come “Closer”,
“Are You There?”, “Flying”, e la splendida title-track,
brano intenso che portava i Nostri addirittura dalle parti del trip-hop portisheadiano,
eleggendo come protagonista l’ugola fatata della cantante Lee Douglas (sorella
del batterista John). “A Natural Disaster”, tuttavia, non sempre
appariva perfettamente focalizzato, rivelandosi discontinuo e a tratti
sbilanciato (perché, per esempio, concludere il tutto con una strumentale di
dieci minuti come “Violence”, la quale sfoggiava al suo interno blast-beat
e partiture black metal che peraltro gli Anathema non hanno mai annoverato fra
le proprie influenze?). Era la solitudine artistica di Daniel Canavagh,
lasciato a se stesso, libero di sbagliare, senza un valido argine quale era
stato in passato un autore rigoroso come Patterson.
Era il 2003.
A
seguito la band cadde in un limbo di immobilità per molti anni. Non giunse mai
la notizia di un loro scioglimento, ma i segnali non erano incoraggianti.
L’abbandono, seppur temporaneo, di Daniel aveva costituito un precedente inquietante
e non dava sicurezze sulla tenuta della band, che incorse in grandi difficoltà
nella ricerca di una casa discografica che la supportasse in modo adeguato.
Abituati ad una uscita discografica ogni due anni (in certi casi, anche meno),
quel silenzio prolungato era per i fan motivo di grande preoccupazione. Quando
nel 2008 uscì in sordina “Hindsight” (trascurabile operazione che raccoglieva
rivisitazioni acustiche di vecchi brani) di certo non esultammo: era come
cercare di soddisfare con una nocciolina una fame arretrata di una settimana.
Tutti dunque temevano il peggio, ci fu chi si rassegnò, chi persino se li
dimenticò, quando all’improvviso, nel 2010, fu annunciata l’uscita del
nuovo album di inediti: “We’re Here Because We’re Here”.
Un album importantissimo, non
solo perché è venuto dopo sette anni dal rilascio dell’ultima testimonianza
discografica vera e propria, ma anche e soprattutto perché fotografa gli
Anathema in quella che è probabilmente la loro incarnazione più forte e
determinata di sempre. Per i fan della prima ora saranno cazzi amari, non tanto
perché il sound muterà ancora una volta, bensì perché i fratelli
arriveranno a rinnegare il passato tale sarà la convinzione di essere
finalmente sulla retta via, dopo anni di irrequietudini. Noi ci siamo perché
ci siamo non è solo una forte attestazione di esistenza, di fermezza di
intenti, ma è anche un’imposizione del presente visto come dimensione assoluta
che toglie importanza a tutto il resto: il passato non ci appartiene più, il
futuro non ci interessa, siamo qui e basta. Probabilmente la capacità di
provare emozioni e di saperle trasmettere in modo così vivido, sincero ed
immediato, è dovuta proprio a questa focalizzazione estrema su un hic et
nunc esistenziale ed artistico.
E così i vecchi classici
della band inizieranno a scomparire dalle scalette dei concerti per lasciare
spazio a pezzi scaturiti dalla sinergia di musicisti affiatati che sono
soprattutto persone che si vogliono bene: non più contrasti, non più
compromessi, non più personaggi carismatici a rompere i coglioni. La nuova incarnazione
degli Anathema vedrà al suo centro l’incrocio di sangue dei due assi di
fratelli: da un lato i Cavanagh, dall’altro i Douglas. Daniel
e Vincent continuano a fare la parte del leone: il primo finalmente nelle
condizioni di spaziare in totale libertà (senza ostacoli da un lato, con una
band affiata alle spalle dall’altro); il secondo, cresciuto nel frattempo sia
come cantante che come autore ed arrangiatore, si eleverà a front-man indiscusso
della band. Più defilato, il terzo fratello Cavanagh, quel Jamie, gemello
di Vincent, che si occuperà con diligenza, ma senza scalpore, del basso. Dietro
di essi si consolidano il batterista John Douglas, forse scarso
tecnicamente ma grande motivatore e collante psicologico della band (a dire
dello stesso Daniel) e sua sorella Lee, nata come corista e nel tempo
affermatasi sempre di più nel ruolo di co-protagonista dietro al microfono.
Essendo il sound dei
nuovi Anathema infarcito di pianoforte, tastiere e sprazzi di elettronica, il
tastierista Les Smith si conferma indispensabile, anche se poi sarà
determinante la mano, dietro alle quinte, del guru Steven Wilson. Come
sappiamo egli non è solo un produttore accorto, ma anche un musicista
sopraffino e saggio consigliere, cosa che gli permetterà di intervenire in tema
di arrangiamenti e di scelte stilistiche vere e proprie. Cosa che apprezziamo,
se il risultato dei suoi consigli era stato ieri un album come “Blackwater
Park” degli Opeth ed oggi un “We’re Here Because We’re Here”:
mai prima l’arte degli Anathema avevano potuto godere di una veste così
elegante e raffinata, mai la loro visione artistica era emersa così a fuoco,
perfettamente bilanciata nelle sue componenti ed armoniosa nei suoi sviluppi.
Una visione artistica
luminosa, come la bellissima copertina: atmosfere sognanti, venate a tratti
di positività (a momenti si rasenta il rock-pop melodico dei Coldplay),
anche se poi il mood rimane inevitabilmente malinconico e struggente. Gli
Anathema targati 2010 sono dunque zuccherosi, sanno di meringa anche se lecchi loro
i piedi e ti fanno venire il diabete solo a guardarli. Ma sono intensi,
emotivi, emozionanti come solo loro sanno essere. Dal doom al gothic al rock
progressivo, gli Anathema rimangono coerenti a loro stessi: vogliono
trasmettere emozioni e vi riescono. Ma contrariamente a ieri, oggi lo fanno in
modo fluido ed armonioso: la voce di Vincent è oramai uno strumento incredibilmente
affilato; Daniel, dal canto suo, continua ad essere il motore pulsante della
band, dividendosi fra languori chitarristici da brividi e intese parti di
pianoforte. Lee acquisisce nuovi spazi, gli altri operano nel migliore dei
modi, senza protagonismi, senza frenare la verve creativa dei due
fratelli, oramai liberati da ogni giogo e limitazione.
Da un punto di stilistico i
Nostri si assestano sul formato della ballata evocativa, spesso arricchita da suggestioni
pinkfloydiane ed orchestrazioni finemente arrangiate, e senza disdegnare
momenti più incalzanti che danno quel retrogusto pop/rock al tutto. Ovviamente
con una ricercatezza che da sempre caratterizza la proposta dei Nostri. Gli
Anathema vengono oggi definiti con l’etichetta neo-prog, ma non suonano prog
né tanto meno post-rock. Sanno però annettere elementi provenienti da
entrambi gli universi: espandendo i loro brani con costruzioni poste al centro
o in coda che arricchiscono i brani e li fanno uscire dai binari della strofa e
del ritornello (è qui che la mano di Wilson diviene maggiormente evidente,
visto che echeggia sovente lo spirito dei suoi Porcupine Tree) ed allestendo
crescendo emotivi che a volte culminano in denotazioni liberatore, altre in
climax irrisolti (il dream pop dei Sigur Ros può essere un utile
riferimento per comprendere). “Thin Air”, “Angels Walk Among Us”
(l’ennesima dedica amorevole alla madre venuta a mancare), “A Simple Mistake”,
“Universal” sono destinate a divenire i classici della nuova era della
band e presenza fissa nelle scalette dei brani da riproporre dal vivo.
Quali dunque i fattori che
hanno determinato il successo del ritorno degli Anathema? Una squadra compatta, una
visione artistica forte e condivisa, una produzione che ha saputo contenere gli
eccessi e valorizzare i pregi delle ferventi energie creative messe in campo. Ben
tornati Anathema!
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