11 mag 2016

"DREAM THEATER" - QUELLI CHE...CI RICASCANO!


E così ci sono ricascato! Mi ero ripromesso di chiudere con loro dopo la delusione cocente di “A Dramatic Turn Of Events”! Non la prima che il Teatro dei Sogni mi riservava ormai da parecchi anni. E invece no, eccomi qui, con “Dream Theater” tra le mani. 
Il che sarebbe anche normale, visto che non sono uno dei loro numerosi, acerrimi detrattori, bensì un loro estimatore indefesso! 

Oggi però mi chiedo: lo sono ancora o, ormai, lo ero?

A cura di Morningrise

Insomma, li ho adorati dal 1989, a partire da “When Dream and Day Unite”; consumati dalla prima nota di “A Fortune in Lies” in avanti! Con loro mi sono commosso, esaltato, stupito…periodicamente non posso fare a meno di andarmi a vedere qualche video delle loro esibizioni su YouTube, perché lo stupore che si prova a vederli suonare è davvero tanta roba…ti chiedi sempre come facciano, come riescano a fare quello che fanno, senza sbagliare una nota! Marziani! Però...

Però è dieci anni che mi hanno stufato! Troppi dischi deludenti, troppi passi falsi. Se come si suol dire "tre indizi fanno una prova", allora, dopo tre dischi flop tra il 2007 e il 2011 (“Systematic Chaos”, “Black Clouds & Silver Linings” e il succitato ADTOE), le speranze di veder rinverdire i fasti degli anni novanta nel 2013 con "Dream Theater" erano per il sottoscritto assolutamente tramontate. Loro, che, di flop, ne avevano fatto solo uno in oltre quindici anni di carriera (mi riferisco ovviamente al disastroso “Falling Into Infinity”). Peraltro un passo falso più "eterodiretto" che, diciamo così, endogeno. Dovuto con tutta probabilità a tutte le stupide accuse di freddezza piovutegli addosso dopo “Awake” (ma quant’è bello “Awake”??!). E così provarono a fare un disco “caldo”, toppando paurosamente. Ma dimostrando, appena due anni più tardi, di saper imparare dagli errori e di tornare più forti di prima. E se FII ha dovuto esistere perché poi Petrucci&co. componessero un gigante come “Metropolis Part II - Scenes From A Memory” allora dico: ben venga anche "Falling Into Infinity"!
 
Va da sé che è parecchio scomodo parlare dei D.T. Troppe cose in 25 anni sono state dette e scritte sulla band newyorkese e gli infuocati umori che suscitano i loro parti discografici assomigliano più a un derby calcistico tra opposte tifoserie che a obiettivi e sereni pareri su un’opera musicale tra appassionati del genere. Ed è per questo che avrei volentieri evitato di scrivere questo post. 
Anche se, “abbandonarli” tre anni fa, all’uscita del qui presente album eponimo non mi faceva sentire a mio agio. Perché in cuor mio sentivo di volergli ancora molto bene; che l’interesse per tutto ciò che sforna la mente di Petrucci è come una fiammella che arde sotto le ceneri di un falò ormai apparentemente spento.

E così: una recensione qua, un suggerimento di un amico là, “guarda che l’ultimo album è davvero bello”, “guarda che è di gran lunga il migliore che hanno fatto da tempo..”, ecc, ecc..insomma, alla fin fine mi sono un po’ sentito “tirare per la giacchetta”, ho ceduto e sono andato a parare su “Dream Theater”. Fuorviato devo dire anche dalla scelta del self-title. Una scelta strana, presa al dodicesimo disco in studio! “Mica sarà un caso??! - mi sono detto - sarà un nuovo inizio, una nuova via, tenteranno nuove strade espressive, un approccio diverso, ora che si sono liberati anche dell’invadente personalità di Portnoy".

Ecco, niente di tutto ciò, almeno per chi scrive. E mi duole dirlo, sinceramente.

Se già sulla copertina c’è da stendere un velo pietoso, è proprio sul contenuto musicale che mi pare che, nuovamente, per il quarto full-lenght consecutivo, le cosa paiano non tornare! Linee melodiche di una banalità sconfortante, orecchiabili certamente (“The Enemy Inside”, “The Looking Glass"), ma che sanno di già sentito lontano mille miglia, sia da parte loro che sicuramente chissà da quante altre band hard/prog rock. Su quelle linee si articolano poi le consuete divagazioni strumentali, per il quarto disco di fila sciape, poco ispirate, sbrodolose. Non mi sembra utile in un contesto così neppure di criticare LaBrie. Non che la sua prestazione alzi le sorti del disco, tutt’altro. L’ho trovato poco coinvolgente sia nelle parti più morbide e soffuse, che assolutamente spompo e scarico nelle sezioni più dure e graffianti. Ma il problema, non sta lì, ma proprio nei temi portanti dei brani.

Qualche esempio? “Enigma Machine” è una delle peggiori strumentali mai realizzate dai Nostri, lontana anni luce dalle instrumental che li hanno resi celebri nei dischi passati (da “The Ytse Jam” a “Erotomania”).  Così come quello che si suppone avrebbe dovuto essere il brano più importante e rappresentativo del platter, cioè i 22 minuti della suite “Illuminating Theory”, che è una lontana parente delle lunghe suite che li hanno resi celebri (“A Change of Season”in primis) negli anni ’90, ma decisamente inferiore anche a quelle della non brillante produzione del terzo millennio. Si, perchè nell’ambito di questo medium espressivo così rischioso e complesso, qualche sprazzo di classe la band era riuscita a tirarlo fuori anche in tempi recenti (si vedano i quarti d’ora di “The Count of Tuscany”, “The Best of Times” o “The Ministry of Lost Souls”, senza scomodare la sensazionale “Octavarium”, per chi scrive ultimo brano davvero di una bellezza fuori categoria partorito dai D.T.).

Insomma, l’unica differenza che trovo in questo disco rispetto al terzetto precedente, è solo e soltanto il minutaggio medio dei pezzi che, escluso l’intro strumentale e la citata suite finale, si attesta sui “soli” 6 minuti, il che rende sicuramente più fruibili e velocemente assimilabili i brani. Ma, di fatto, è un piccolo cambiamento di forma e non di sostanza. Altro che “rottura”, altro che "cambiamento"!

Mi chiedo in conclusione se il problema sono io, se sono diventato assuefatto, con la puzza sotto al naso; anzi con il naso che non riconosce più nessun odore, neppure quelli di raffinati profumi francesi. Però non credo sia così, visto che ancora avverto un sommovimento del mio animo musicale quando, al terzo minuto di “Along for the Ride”, Rudess tira fuori un assolo di synth da far tremare i polsi! (unico momento davvero entusiasmante dei 70 minuti dell'album)

A questo punto non mi resta che aspettare e leggere il giudizio del nostro Lost In Moments (del quale mi fido ciecamente) su "The Astonishing"
E vedere se, ancora una volta (magari tra due, tre, quattro anni) ci "ricascherò" e mi ritroverò ad ascoltare in cuffia i 130 minuti di questo nuovo pachiderma...oppure se la delusione di "Dream Theater" questa volta sarà decisiva per rompere definitivamente la mia "relazione" con il clan Petrucci...