19 mag 2016

RECENSIONE: WOODS OF DESOLATION, "AS THE STARS"




In una ipotetica classifica dei dieci migliori album di post-black metal (che forse un giorno stileremo) non metteremmo di certo questo “As the Stars” dei Woods of Desolation. Certo che siamo proprio stronzi: dopo aver “fatto fuori” Aluk Todolo, Locrian, Liturgy, perché cestinare anche costoro?

Perché ci fanno venire una rabbia furibonda, i Woods of Desolation, considerata la grande occasione mancata che ha rappresentato “As the Stars”, ad oggi loro ultimo album dato alle stampe.

Partiamo da una domanda scolastica: qual è il segreto per confezionare un buon album black metal? Saper suonare? Seeeee!!! Una produzione nitida e potente? Ma per piacere!!! Essere innovativi? Non necessariamente. Ve lo dico io cosa serve per fare del buon black metal: essere chitarristi ispirati e saper azzeccare il riff giusto. Vi giuro, basta quello, per il resto ci può andare bene tutto: un cane a cantare, una drum-machine caricata a mille, un amplificatore in una cantina o in una foresta è sufficiente; il bassista, può rimanersene anche a casa. Per questo in tanti casi abbiamo delle one-man band e i grandi luminari del black metal sono alla fine personaggi che non sanno suonare una mazza, ma che magari compensano questa mancanza con una grande ispirazione.

Ebbene i Woods of Desolation ce l’hanno un chitarrista ispirato, uno che azzecca dieci riff su dieci, ma poi non hanno altro, questo è il loro problema! Il misterioso D. sarebbe il chitarrista, nonché leader e deus ex machina della band australiana. Band australiana?? Fermi tutti: lo so che al sol pensiero di accostare le parole “black” e “metal” ad “Australia” sarete immediatamente colpiti da dissenteria acuta, ma qui della terra dei canguri fortunatamente non perviene il minimo sentore, suonando il tutto molto very very “norwegian”! Sì, il modello di riferimento è quello del black ruvido della Norvegia più forestale (come del resto suggerito dalla pregevole copertina vangoghiana) ed in effetti gli Ulver di “Nattens Madrigal” potrebbero essere un utile riferimento. Però attenzione, perché non siamo più nel 1997, bensì nel 2014, nel pieno dell’ondata blackgaze, nuovo filone aperto qualche anno prima dai pionieri Alcest, che ebbero la geniale intuizione di mescolare Ulver, Burzum, Katatonia alle sonorità shoegaze.

Non è più quindi una novità ritrovarsi in un disco black metal quella caotica dolcezza che era appannaggio di band quali My Bloody Valentine e Slowdive, non strabuzziamo quindi gli occhi, ma, diciamolo con franchezza, il blackgaze, se suonato come si deve, è una formula che non può fallire: una, due, tre linee di chitarra, arpeggi, suoni pastosi, onde sonore che si propagano dalla chitarra e si modellano attorno ad un sound avvolgente e scorrevole che ricongiunge la tragica poetica del black metal all’interiorità affranta dei menestrelli dello shoegaze. Con quei panorami post-rock che accomunano i due ambiti.

Ed “As the Stars” non fa eccezione: trentaquattro minuti (forse un po’ pochini, in effetti) che non stancano un momento, un unico flusso sonoro di melodie ed intrecci chitarristici da favola. Chi ha il groppo in gola e sente che sta per “rompersi” in un pianto liberatorio, si avvicini od allontani da quest’opera a seconda di quale sia il suo intento (esplodere o comprimersi), perché rimanere indifferenti sarà impossibile!

Allora dove sta l’inghippo? Com’è che gli Woods of Desolation non si suonano con il flauto alle scuole medie? Perché non sono cantati in coro negli stadi? Perché il loro cd non è contenuto nelle famigerate buste arancioni che l’INPS manda ai cittadini per verificare a quanto ammontano i contributi ed indicare quando uno potrà andare in pensione? Dieci riff su dieci: ma non si era detto che, se la chitarra è ispirata, il black metal è pronto e servito? E invece no, cari miei, la chitarra non basta e il buon D. riesce a cadere laddove il terreno era meno scivoloso, poveraccio lui. Magari fosse stato da solo: gli si sarebbe potuto perdonare di non essere né un buon batterista né un buon cantante (il basso, si sa, nel black metal è come un wurstel in una galleria!). Ed invece D. decide di portare avanti la sua missione artistica in compagnia, in cattiva compagnia per l’esattezza, contornandosi di gente che era meglio se rimaneva ad apporre timbri nell’ufficio del catasto o nell’agenzia delle entrate, o in qualsiasi altra occupazione in cui un geometra ed un ragioniere possano fare il loro buon dovere: fra misure e calcoli dovevano stare Luke Mills, Vlad e Old (tali sono i nomi e i soprannomi di questi musicisti), altro che in uno studio di registrazione!

Fra i tre, Mills, il bassista, è quello che fa meno danni perché proprio non si sente: o si è dimenticato di attaccare lo spinotto del suo strumento all’amplificatore, oppure ha timbrato il cartellino ed è andato a farsi i capelli. Vlad, alla batteria, ha invece scritto in fronte “Pubblica Amministrazione”: fa il suo, questo c’è da dirlo, ma è anche vero che nel post-black metal è comprovata l’importanza che ha il buon batterista nel dare l’indispensabile valore aggiunto, governando le forze maestose delle chitarre, incalzandole e conferendo ai brani, spesso lunghi ed impetuosi, accenti sempre nuovi. Non aiuta sicuramente la breve durata dei brani, né il fatto che il mixaggio esalta le chitarre rispetto a tutto il resto, tant’è che la batteria si fa avanti con fatica fra i muri di distorsioni che D. mette in campo. La nota dolente è però Old, che dietro al microfono si rende responsabile di una prova minuscola, disperso, disorientato, letteralmente sepolto dalla forza dirompente del wall of sound allestito dalle sole chitarre. Ma band come i Defheaven (si vada alla voce “Sunbather”) hanno ampiamente dimostrato come si possa essere convincenti anche in un contesto di suoni confusi e rarefatti e di voce in lontananza...

C'è però da dire un'altra cosa: ok la voce, ok la batteria in sottofondo, ma non c'è solo questo. I brani sono mediamente brevi e non sembrano portare a nulla, forse peccando di rigore e struttura (una struttura che in effetti non emerge, laddove non c'è una solida base ritmica a dettare la direzione o un vocalist carismatico a sottolineare o rendere intellegibili i passaggi chiave). Ma è indubbiamente una pecca di D. quella di non dare una fisionomia peculiare ai singoli brani, che non sanno alzare la testa oltre quel hic et nunc chitarristico di cui si compongono. Più in generale, laddove non si ha il formato canzone, diviene decisivo un impianto formale che getti un recinto alla pura ispirazione, foss’anche una ripetizione di un tema al momento giusto. Un insieme di riff riusciti, con una batteria che scolasticamente valorizza stacchi e ripartenze: questa è l’essenza di “As the Stars”, a cui manca evidentemente quel quid che fa la differenza fra un buon album ed uno epocale.

Ci vuole di più: ci vuole ispirazione, ma anche testa; è indispensabile l’individualità quanto la squadra. Ai Woods of Desolation, pur avendo doti rare come una profonda ispirazione ed una grande individualità (quella di D.), mancano testa e squadra: due elementi che, pur in un genere istintivo ed individualista qual è il black metal, divengono oggi più importanti che mai. Soprattutto laddove il black metal si fonde con generi collegiali come il post-rock e lo shoegaze.

Rimandati a settembre.