20 mag 2016

MOTORPSYCHO, NON APRITE QUELLA SCATOLA...


I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI '90)

1993: "DEMON BOX"

Mi ero ripromesso di non parlarne. Di non inserirli in questa Rassegna. Perché è troppo, troppo difficile dire qualcosa di organico su di loro. Della loro musica se ne potrebbe parlare per decine di post. O all’opposto non dire nulla.
Me l'ero ripromesso perché sono pienamente consapevole dell’enorme influsso che i Motorpsycho hanno avuto sulla mia anima musicale. Ne sono stato da subito irrimediabilmente stregato, ammaliato. E quindi sono troppo "di parte" per scriverne obiettivamente.

E così me lo ero riproposto categoricamente: “Per il 1993 NON scriverò sui Motorpsycho. Sarà l’anno dell’Italia! Lo dedicherò alla celebrazione del thrash italiano!" Lo spazio sarà riservato agli Extrema che in quell’anno davano alle stampe il più che buono “Tension at the seams”; o magari agli In.Si.Dia. (è sempre del 1993 l’ottimo “Istinto e Rabbia”).

E invece alla fine, eccomi qua. A parlare dei Motorpsycho. Di questo folle trio norvegese. Folle e controcorrente. Essere di Trondheim, suonare a inizio anni novanta e non essere una black metal band è già qualcosa di originale. Ma se poi andiamo sui contenuti musicali, beh…allora perdiamo completamente le coordinate e qualsiasi punto di riferimento!

A cura di Morningrise

Già, perché…che cavolo suonano i Motorpsycho??!! Boh, non ne ho idea. 
Suonano metal i Motorpsycho? Non lo so! 
Suonano quantomeno una specie di metal i Motorpsycho?? Ecchecazzo, non lo so!!! Davvero! Aiutatemi…

Non esistono etichette, non esistono definizioni minimamente idonee a definirli. Siamo in una dimensione musicale particolare, a tratti leggiadra, sognante, dolce, bucolica…e capace però nel breve volgere di un attimo di trasformarsi in una lacerante, brutale, demoniaca…perché sotto l’apparenza tutto sommato innocua, i Motorpsycho fanno sempre sottointendere una malignità e un’essenza insidiosa da far paura. Non da meno dei loro conterranei blacksters coevi!

Ma guardate che diamine di copertina per questo loro terza release! Una cover orribile, ok! Però soffermatevi sull’espressione di quella sdentata nonnina, o su quella del viso dell’uomo alla sua sinistra…e ditemi se non vi corre un brivido lungo la schiena! Una copertina inquietante, ambigua. Come la loro musica, appunto…

Proviamo ad addentrarci nei meandri del disco, facendoci guidare dall’unica stella polare che ci può rischiare quest’oscuro cammino: eclettismo. O “contaminazione”, la nostra parola-guida che già avevamo identificato nell’Anteprima.

Per giustificare la scelta basterebbe dire che nei Motorpsycho tutti suonano tutto: il mastermind Bent Saether suona ogni tipo di strumento, così come “Snah”, alias Hans M. Ryan, un chitarrista, sì, ma che aiuta il sound complessivo della band dandosi da fare anche con mandolino, flauto, sitar e violino! E, tanto per non essere da meno, anche il batterista Hakon Gebhardt è un polistrumentista capace di cimentarsi con percussioni, sei corde e svariate diavolerie synth…

Forse i primi quattro pezzi di "Demon Box" sono un esempio valido per dare un'idea di tutto l’andamento del platter: 1- “Waiting for the one”, l’opener, sembra di trovarsi nella casa di campagna di un amico; un banjo e un violino, intorno a un falò d’estate, accompagnano una chitarra acustica e un cantato approssimativo, ma il calore che sa creare è un qualcosa di difficilmente esprimibile…
2- l’intro di “Nothing to Say” è da pelle d’oca, con la sua elettricità satura, distorta, piena, corposa, stonata, riverberata; è il pezzo che i Nirvana avrebbero dovuto incidere dopo “Nevermind”, con la splendida voce adolescenziale di Bent Saether che assomiglia a quella di Dave Pirner, singer dei mitici Soul Asylum.
3- “Feedtime” invece è quasi nu-metal, con urla belluine post-hardcore che ci salutano prima che gli strumenti entrino in gioco in un’orgia sonora che tramortisce…probabilmente il pezzo più duro del lotto. Notevolissima anch’essa. 
4- e infine “Sunchild” a metà tra hard core e grunge, tira fuori quel sound sporco, grezzo, da garage, dove Saether si diletta anche in uno stonato assolo.

E il resto? Ballate acustiche (“Tuesday morning”, “Come on in”, “Junior”), rimandi shoegaze (la sensazionale “Plan #1”), litanie oscure (“All is loneliness”), squarci punk/metal (“Babylon”, “Sheer profundity”) e minimali esperimenti pinkfloydiani (“Step inside again”).

Come spiegare poi i diciassette (17!!) minuti della title-track? Molto difficile, essendo un mix di tutti gli elementi succitati. La prima parte consta di suoni pastosi, con feedback pazzeschi, prima che un’elettricità oscura deflagri cavalcante in un mid-tempo quasi sludge e nel quale Gebhardt pesta come un ossesso il suo strumento e la voce di Bent pare quella di un Cobain in acido…
Quando il pezzo sembra essere finito, dopo circa sei minuti e mezzo, ci ritroviamo invece in un incubo noise vero e proprio. Un pulsante basso in sottofondo a ripetere le stesse quattro note ad libitum, mentre al di sopra rumori industriali, fischi, riverberi , ci scarica un livello di parossistica inquietudine davvero insostenibile…5 minuti che sembrano non avere mai fine (che avrei visto bene inseriti nel capolavoro dei Sunn O))) "Flight of the Behemoth", ma con quasi dieci anni di anticipo!), una sorta di inferno cacofonico capace di trasmettere un’inquietudine massima …poi i rintocchi lugubri di una campana a farci presagire il cambiamento, che in effetti arriva repentino con squarci elettrici supportati da una batteria tribale in stato di grazia. Si torna nel finale al motivo iniziale, portando a compimento un viaggio circolare dal quale si esce esausti…
Una circolarità ribadita più avanti con la conclusiva “The one who went away” che non è altro che l’iniziale “Waiting for the one” rifatta in versione plugged.

Stoner, metal, grunge, hardcore, punk, shoegaze, psychedelic rock, ecc.: un maelstrom di suoni e sperimentazioni senza paraocchi o barriere di qualsivoglia genere! Ogni pezzo andrebbe analizzato per quanto riesce a “dire” e a “suscitare”. Nulla è banale in questi 72’, nulla è fuori posto. Anche se ciò lo si capisce dopo svariati ascolti, perché alla prima invece sembra essere TUTTO fuori posto! Niente sembra avere senso o logica, perché pare di saltare “di palo in frasca” a ogni passaggio di traccia.
E invece i Nostri riescono a domare questo fumante calderone delle più svariate sonorità, non scadendo mai nella dispersione, e colmando gli interstizi con passione e soprattutto potenza, sia strumentale che visionaria. Una potenza satura, distorta, riverberata, sporca.

Quanto cuore, quanta emozione che sanno regalare i Motorpsycho! Non saranno dei mostri di tecnica, qualcuno potrà tacciarli di fare una musica “povera”, di essere “grezzi” & sporchi”, ma quest’atteggiamento indie, fai-da-te, amatoriale, è solo uno specchietto per le allodole perché sotto c’è tanta, tanta professionalità, tanta ispirazione e attenzione ai dettagli. Un disco capace di stupire ad ogni ascolto, di rivelare piano piano mille e mille sfaccettature diverse.  

I Motorpsycho sapranno confermarsi con altri dischi sensazionali negli anni successivi ma rimarranno un gruppo cult underground, di nicchia, nonostante DB ebbe un notevole successo in patria, tanto da spalancare le porte del mercato europeo a questi ragazzi 24enni (tutti i membri dell’epoca sono coetanei, classe ’69).
Di "nicchia" quindi, ma con uno zoccolo duro di fan fedeli e devoti. E come avrete capito io sono uno di questi!

Potrei chiosare con il più canonico “buy or die” ma con un'avvertenza allegata: state attenti ad aprire quella scatola…c’è una musica "diabolica" ad aspettarvi! E il rischio di “uscirci di testa” è dietro l’angolo…