5 mag 2016

UN PENSIERO SUI DIMMU BORGIR...ED UNO SUI MANOWAR... (parte seconda)



Il cultore del Metallo, come chiunque ascolti musica con grande passione e cognizione di causa, vive in un’area pluridimensionale che vede intrecciarsi continuamente piani temporali differenti. Il metallaro, dunque, può nel medesimo periodo ascoltare album appena usciti e classici intramontabili, mescolando continuamente i filoni e i sottogeneri, cosa che rende il metal un universo conturbante.

Spesso chi scrive deve necessariamente mettere ordine, classificare ed isolare gli elementi, per rendere più comprensibile questo mondo variegato ed in continuo mutamento. A noi di Metal Mirror piace invece confondere le carte e rigettarci a peso morto in questa inafferrabile complessità. Già in passato, mettendo accanto entità inconciliabili come Gorgoroth e Rick Wakeman, abbiamo cercato di carpire quelle “segrete corrispondenze”, spesso ramificate nel cervello stesso dell’ascoltatore (con la sua sensibilità, la sua esperienza, i suoi umori del momento) che allacciano mondi lontani, lontanissimi, che nessuno oserebbe accostare. Questa volta abbiamo deciso di non spingerci oltre le “Colonne di Ercole” e di rimanere confinati nel Reame del Metallo. Andiamo a vedere dunque cosa ci azzeccano i Dimmu Borgir con i…Manowar!

Niente, non c’azzeccano niente.  L’idea di questo articolo nasce solo dal fatto che, come dicevo nel post precedente, qualche giorno fa ho comprato “Death Cult Armageddon”, in merito al quale ho già espresso le mie impressioni. Non sono rimasto ovviamente isolato in una campana di vetro ad ascoltare soltanto i Dimmu Borgir, intrattenendomi anche con altro. Fra questi ascolti, è capitato anche un vecchio dischetto dei Manowar, “Hail to England” per l’esattezza. Il contatto di questi due lavori diversissimi (per stile, attitudine, caratteristiche, genere, contenuti, qualità, quantità, produzione, valore storico ecc.) ha fatto scoccare una scintilla che mi ha portato a delle riflessioni.

L’unico punto di contatto fra le due band (salvo ovviamente far parte della grande famiglia del metal) è una certa pacchianeria di fondo che vede entrambe le compagini vestirsi/atteggiarsi da pagliacci e proporre comunque una musica concepita e realizzata non proprio all’insegna della sobrietà. Ma anche in questo punto, i due scelgono vie diverse: i norvegesi, figli di un’epoca più avveniristica, si truccano come degli imbecilli e si ritoccano con Photoshop, apparendo grotteschi, artefatti, generando il paradosso già evidenziato di pretendere di apparire cattivissimi, ma sortendo un effetto comico. Gli americani invece, sia che essi siano armati di perizoma e spada, o semplicemente rivestiti della classica tenuta metallara (ossia stivali, pantaloni e gilet in pelle), se certo non fuggono dall’onta del ridicolo, almeno sembrano più autentici, se non altro perché i bicipiti sono veri. Ma è logico, si parla di anni ottanta, e non di anni zero, per questo ogni confronto suona sterile ed azzardato.

Tolti comunque questi aspetti, trovare assonanze nei due modi di operare è veramente un’impresa. Soprattutto se si va a confrontare la fase della maturità dei Dimmu Borgir (quella più infarcita di alambicchi) e i primi Manowar, autori di un epic-metal ancora scarno e decisamente rock-oriented. E’ di quei Manowar che parleremo, quelli di “Hail to England”, registrato in sei giorni e rilasciato nel 1984: terzo album, terzo tassello di un quartetto di album epocali rozzi e mal registrati, che rese grandi DeMaio e soci già prima della svolta “melodica” che imprimeranno opere come “Fighting the World” e “Kings of Metal”.

Pure la durata rema contro ogni possibile confronto: se gli album dei Dimmu da noi analizzati (“Puritanical Euphoric Misanthropia” e “Death Cult Armageddon”) si spingono abbondantemente oltre l’ora di musica (peraltro densa di contenuti), il terzo album dei Re del Metallo si ferma poco dopo la mezzora, palesando una sciatteria tipica del quartetto che risulta ancora più palese se si pensa che in quegli anni il metal ambiva a spingersi oltre i limiti dell’hard-rock più schietto (in quell’anno uscivano “Ride the Lightning” dei Metallica, che riscrivevano il thrash metal rendendolo materia complessa e raffinata, e “Powerslave” degli Iron Maiden, i quali concludevano il platter con una composizione di oltre tredici minuti, la mitica “Rime of the Ancient Mariner”). Sette brani buttati alla cazzo, suoni da ferramenta, il solito basso metallico di Joey DeMaio a condurre le danze, con i tempi elementari di Scott Columbus e le “rozzerie” ritmiche e solistiche del sempre ispirato Ross The Boss. Ed ovviamente la voce evocativa di Eric Adams, che ci mette tutti i suoi polmoni nel creare quel pathos e quell’atmosfera che successivamente verranno raggiunti grazie a ben altri mezzi (addirittura orchestre, se si guarda alla scialba produzione recente).

In quella piccola bottega (di artigiani che non hanno studiato e che lavorano senza tante pretese e con una certa superficialità), c’è forse di più di quanto riesce ad esprimere la sofisticata “multinational company” norvegese, con tutto il suo dispiegamento di mezzi, fra musicisti, orchestre, cori ed effetti speciali. E lo dice uno che i Manowar non gli sono mai piaciuti in modo particolare. Eppure quando ascolto “Hail to England” ho l’impressione che in “quel poco” ogni cosa sia al posto giusto. I limiti, i difetti, mi sembrano pregi, laddove sbuffo in continuazione innanzi al dispendio di energie ed alle contorsioni affannate e senza posa compiute dai Dimmu Borgir nella loro mirabolante proposta.

Ma attenzione, non siamo di fronte al solito discorso “mega produzioni” VS “cuore e semplicità”, perché, come espresso nel post precedente, i Dimmu Borgir, almeno nell’incarnazione dei due album sopra indicati, risultano credibili e si fanno apprezzare, se non direttamente dal sottoscritto (che oggi non è più in vena di sinfonismi), almeno da una grande fetta di pubblico che li ha seguiti con interesse (e non solo all’interno della cerchia ristretta del black metal). Non avrei mai avuto voglia di fare una recensione su “Hail to England”, ma, ascoltandolo insieme a “Death Cult Armageddon”, mi scaturiscono di getto, dalla gola, elogi sperticati (ed inaspettati) nei confronti dei Kings of Metal. Lasciamo perdere classici come “Blood of My Enemies” e “Kill with Power”, che certo non hanno bisogno di presentazioni: è tutto il platter semmai a rilucere di uno stato di grazia compositiva avvalorato dalla consueta irriverenza che fa sì che tutto sia scoppiettante, immediato, irresistibile. Persino l’orgia di basso di “Black Arrows” mi suona riuscita nella sua caotica inconcludenza, impreziosita dalla baldanzosa voce effettata di Adams che introduce il pezzo, con annesso urlaccio sgraziato/stonato.

“Buona la prima” sembra essere la ratio che ha mosso i Nostri in questi sei giorni di registrazioni. L’episodio più composito lo troviamo nella conclusiva “Bridge of Death” che merita certamente una menzione d’onore.  Nei suoi quasi dieci minuti ci presenta dei Manowar diversi rispetto alle sei tracce che l’hanno preceduta: intanto una bella partenza da evocativa ballad, dove Adams da solo riesce a creare un’atmosfera da Inferi, in cui ci immaginiamo il mesto metallaro che si accinge ad attraversare il fatidico ponte che lo condurrà all’Aldilà, dove ad aspettarlo troviamo nientemeno che….Satana in persona! I Manowar non sono una band satanica ed anche il loro satanismo naif (essi parlano di Lucifero come potrebbero parlare di Conan il Barbaro, Merlino o Capitan Uncino) esce convincente dalle casse del nostro stereo. Primo per le capacità interpretative dell’ispirato singer, secondo per l’efficacia che pervade l’intero album, dove ogni singolo colpo, si diceva, va a segno. Anche nell’esplosione e nel successivo svolgersi del racconto sotto forma di un epic-metal cadenzato, il pathos rimane intatto, per poi acuirsi nuovamente con l’intervento di Satana stesso (bello il vocione effettato, vecchia trovata da quattro soldi, ma sempre efficace) e il tragico finale, caratterizzato dal canto funereo ed al contempo fiero del sempre ottimo Adams.

A che conclusioni possiamo dunque giungere? La nostra intenzione era di sottolineare come, con modalità diverse (anzi opposte!), le due entità risultino a modo loro “true”. Sul fronte Manowar, ovviamente, non c’è bisogno di spiegazioni: “defender” per eccellenza, i Nostri da sempre fanno dell’autenticità e della fede incondizionata nel metallo più incontaminato la loro bandiera. Nella prima metà degli anni ottanta, ciò si traduceva in brani semplici ma efficaci, di facile presa e privi di quegli orpelli che in seguito entreranno a far parte anche della loro musica.  Non è punk quello, ma heavy metal nella sua forma più essenziale: ritmiche rocciose ed acuti baldanzosi, chitarra, basso, voce e batteria.

Per i Dimmu Borgir, invece, la questione si fa più complessa: sebbene essi verranno schifati dai cultori del black metal, di certo verranno apprezzati da altre frange del popolo metal, ricevendo inaspettate attestazioni di stima persino da parte di esponenti del metal classico. C’è senz’altro da aggiungere che all’interno dell’universo metallico il blackster è una bestiaccia da considerare a parte (personaggi strani, i blackster, che fanno propria la filosofia del black metal abbracciando valori come nichilismo e misantropia che invece il resto del metal spesso rifiuta ed avversa accogliendo semmai quelli della fratellanza e dell’approccio costruttivo nell’affrontare le avversità della vita ed eventualmente “combattere i nemici”). Il black metal, inoltre, nella sua forma più pura (quella di Mayhem, Darkthrone e Burzum, tanto per intenderci) non è molto compreso dal metallaro medio (quei suoni confusi, quella musica inascoltabile e deprimente che mette di cattivo umore e porta alla sordità). I Dimmu Borgir, proprio perché distanti da quel mondo (da cui vengono, peraltro) sono apprezzati da chi ama invece nel metal la potenza, la melodia, le strutture complesse, una produzione che valorizzi i singoli contributi: tutte cose che i norvegesi sanno offrire. E ad alti livelli.  

Il paradosso è che, venendo da un genere concettualmente e stilisticamente estremo come il black metal, i sensi di colpa che si portando dietro per aver nel tempo eccessivamente ammorbidito i suoni, ha costretto Shagrath e Silenoz a brutalizzare la loro proposta in ogni frangente.  Appesantendo ogni singolo ingrediente, come farebbe un cuoco messicano che si ritrova a cucinare nella mensa di uno ospizio e che butta pepe, peperoncino e tequila nel purè o nel brodino vegetale! In questo sforzo di voler compensare melodia e sinfonismi con batteria micidiale, riff violentissimi ed una vocalità a dir poco sopra le righe, essi riescono a raggiungere un compromesso, una via di messo che li rende “true” quasi quanto i Manowar.

Non proprio quanto i Manowar, perché in questo costoro sono imbattibili, ma, volendo fare una metafora “cromatica”, se i Manowar sono verdi, alla fine i Dimmu Borgir si tingono del medesimo verde miscelando insieme giallo e blu. Risultando paradossalmente portatori di una musica accettabile, anzi coinvolgente, per il metallaro medio, sempre pronto ad additare come traditore chiunque si allontani, anche di poco, dal seminato del Metallo. Grazie ai loro sforzi sovrumani, e pure rischiando di cadere nell’incomprensione, secondo noi i Dimmu Borgir sono l’espressione più classica che il metal “evoluto” possa assumere.

Stranezze della vita (e del metal). 


(vedi post precedente)