Pochi
giorni fa ho comprato “Death Cult Armageddon” dei Dimmu Borgir,
uno di quegli acquisti tardivi e fuori tempo massimo che ogni tanto si fanno
per diversi motivi: ispirazione, nostalgia, “completismo” o semplice
occasione/promozione.
A
muovermi è stata la più oscura delle ragioni sopra menzionate, quella che ho
definito “completismo”, che come termine manco esiste. Ma chi compra e non
scarica, il senso lo intuirà facilmente: chi negli anni ambisce a costruire un
impero di cd o dischi che abbia un intrinseco senso compiuto, spesso medita su
acquisti inutili che hanno solo un valore formale, ossia quello di dare
equilibrio a tutta la costruzione. Si parte dai capisaldi, che è impossibile
non possedere (anche se poi non si ascoltano mai), per arrivare a rifiniture
invisibili all’occhio nudo. Come dire: dalle pilastri alla scelta se scolpire
un capitello in stile dorico o corinzio. “Death Cult Armageddon”
costituisce uno di quei micro-elementi di equilibrio che la mia
collezione rivendicava da anni.
Perché
era un acquisto così indispensabile quell’album così pacchiano di una band così
pacchiana, a maggior ragione adesso che a) non ascolto più metal
sinfonico e b) i miei gusti tendono oggi più al minimale che al barocco?
In
passato sono stato un grande fan dei Cradle of Filth e fino a qualche
anno fa, se mi mettevi tastiere, organi, orchestre, voci femminili in un album
black metal, mi rendevi un uomo felice. Ci sono poi le fasi di transizione in
cui le abitudini del passato proseguono per inerzia, fino a quando ad un certo
punto uno dice basta. Quel basta fu detto un attimo prima di
“Death Cult Armageddon”, che per quanto mi riguarda sarebbe potuto rimanere
negli scaffali dei negozi per molti anni ancora, considerato che uscì nel 2003.
Fa ridere la vita a volte, no? Nel 2003 il 25 marzo compariva nei
negozi “Damnation and a Day” dei vampiri d'Albione ed io ero lì
ad ascoltarlo attentamente; il 9 settembre successivo, ossia qualche
mese dopo, usciva “Death Cult Armageddon”, che invece ignorai.
Dei
Dimmu Borgir, d’altra parte, non me n’è mai fregato un granché: non mi hanno
mai fatto impazzire, ho seguito senza entusiasmo la loro parabola artistica, in
genere preferendo la prima parte della loro produzione discografica. Fino a
quando nel 2001 veniva dato alle stampe “Puritanical Euphoric Misanthropia”,
che in effetti mi stregò assai, tanto che dovetti ammettere: “I Dimmu Borgir
copiano i Cradle of Filth, ma oggi sono meglio dei Cradle of Filth” (l’ultimo full-lenght
rilasciato dagli inglesi era stato infatti “Midian”, nel 2000, che li
vedeva oramai ripetere stancamente gli stessi stilemi di sempre).
In
realtà i Dimmu Borgir non copiano i Cradle of Filth, suonando essi molti
diversi: meno romantici, più brutali anche nella componente sinfonica. Non
riconosco a Silenoz come chitarrista uno stile riconoscibile, né una vena
melodica ed evocativa che spesso si riscontra nei gruppi della sua terra, ma il
tocco norvegese si sente, eccome. Idem la voce di Shagrath, che poco ha a
che fare con il tipico screaming grattugiato di tante produzioni “true
norwegian”: nonostante l’iper-produzione, le sovra-incisioni, le tonnellate
di orchestrazioni, i suoni pulitissimi, si capisce che i Nostri sono cresciuti
in luoghi in cui il black metal si respira nell’aria.
Il
fatto è che i Dimmu Borgir soffrono del complesso di “impurità”, nel senso che
si percepiscono poco “true norwegian” (appunto) e che quindi fanno di
tutto per compensare la scelta di suonare sinfonici e progressivi cercando di
voler apparire più “cattivi” possibile, fino a diventare grotteschi, se non
ridicoli (basti vedere quelle inguardabili foto photoshoppate con cui
amano arredare i coloratissimi booklet interni). Da un lato vogliono
piacere a tutti i costi, dall’altro si sentono in colpa e vogliono dimostrare
di essere ancora estremissimi nonostante tutto. E così si creano dei
controsensi che le medesime foto ben descrivono: pose e smorfie da super-cattivi
(da “Cattivissimo Me”, potremmo aggiungere oggi) su sfondi fantasy
dove i Nostri si presentano con vesti ben stirate e capelli altrettanto
pettinati. Possibile che non vi sia una doppia punta nella lunga chioma di Shagrath?
O che il chiodo di Silenoz non sia un po’ logorato nel bordo della manica?
Così
la musica. Le parti sinfoniche non possono essere sognanti, ma devono essere
necessariamente minacciose e malefiche (a tratti però rasentando umori da
“Apprendista Stregone” – ricordate l’episodio del film di animazione della Disney
“Fantasia” in cui era protagonista Topolino in veste di mago
pasticcione?). Le aperture melodiche devono essere per forza ammorbate da una
batteria tentacolare che ti fa capire che chi suona dietro al drum-kit è
uno che sa pestare. Le contorsioni vocali di Shagrath, invece, devono essere sempre
e comunque sopra le righe, che si tratti di screaming, di growl o
di versacci effettati. Il tutto condito da chitarre appesantite da distorsioni
iper-sature. Un fenomeno analogo a quello che, parlando dei Blind
Guardian, abbiamo definito “sinfonismo isterico”, che qui potremmo
mutare in “cattivismo isterico”: quella volontà (necessità
compulsiva?) di riempire ogni singolo spazio vuoto con qualcosa di malvagio, di
“incattivire” ogni intercapedine non sufficientemente cattiva.
Questo
dunque accadeva nel 2001, quando uscì “Puritanical Euphoric Misanthropia”
che, come si diceva, mi piacque assai: perché suonava ispirato, pieno di
soluzioni interessanti, una sorta di brutal progressive che, in molti
passaggi, mi evocava gli inarrivabili Arcturus, che in effetti erano un
po’ di anni che non si facevano sentire (“La Masquerade Infernale”
risaliva al 1997 e solo nell’anno successivo, nel 2002, sarebbe uscito l’ottimo
“The Sham Mirror”).
Esattamente quindici anni dopo mi ritrovo con questo
“Death Cult Armageddon” in mano. È comprensibile come per me questo
album sia come una macchina del tempo, un marchingegno che mi riporta impietosamente
indietro negli anni. Ne è passata di acqua sotto i ponti e tutto sommato poteva
essere un acquisto evitabile in questi tempi di crisi economica, però nel corso
di questi tre lustri il dischetto in questione non ha mai smesso di richiamarmi
come una seducente sirena. Nei negozi, nelle fiere, anche per un solo istante,
il mio pensiero andava sempre lì, alla lettera “D” (chissà se c’è…). E’ come se
per anni avessi convissuto inconsciamente con la sensazione di aver mozzato la
carriera dei Dimmu Borgir proprio sul più bello (pensieri che tolgono il
sonno…). All’epoca i Nostri erano in effetti al top della forma, ben
rodati su quel loro sound oramai così irreversibilmente sinfonico. Le
recensioni di “Death Cult Armageddon” erano infatti entusiastiche e rimandavano
continuamente al buon lavoro precedente: un legame che, con il mancato acquisto
del “gemello”, mi pareva di aver reciso con una mannaia.
Riprendere in mano quelle immagini patinate, rientrare in
contatto con quei suoni patinati è stato dunque uno shock. No, non sono
fatto più per queste robe: è come trovarmi innanzi ad un circo
meraviglioso e rimanere indifferenti. Più si affannano i nostri sei, e più mi
chiedo che bisogno ci sia di fare tutto quel baccano. “E state buoni!”, mi vien
da dire gesticolando in senso di rigetto, mentre in poltrona ascolto l’album.
Sebbene in superficie i due lavori siano identici, “Puritanical Euphoric
Misanthropia” aveva un approccio leggermente diverso, come se i ragazzi si
fossero di tanto in tanto fermati a pensare e si fossero messi veramente a
sviluppare delle idee, con il risultato che molti passaggi funzionavano per
davvero. In “Death Cult Armageddon”, che volendo è anche più curato nei
dettagli, tutto mi pare esageratamente infarcito per coprire un’ispirazione latitante,
salvo qualche genialata sparsa qua e là.
Eppure i Dimmu Borgir, come nessun altro nel metal in tempi
recenti, possiedono la rara qualità di sapere intrattenere. Il metallaro si può
sedere su una poltrona e fissare la parete per un’ora e passa, ma ascoltando i
Dimmu Borgir non si annoierà per un solo istante. Una qualità che è stata
riconosciuta da molti, anche da gente della vecchia scuola: non mi
ricordo chi in particolare, se Lombardo o addirittura K.K. Downing,
in un’intervista disse che “Death Cult Armageddon” era il disco dell’anno.
Mi chiedo quindi cos’è che funziona in questo ordine di
cose. Al di là dei gusti personali, vi è da riconoscere che quel contrasto
furibondo fra soluzioni melodiche (orchestre, cori, attitudine progressiva
ecc.) e sound corposo, massiccio (più thrash che black) è un mix che
al metallaro, anche quello più old style, piace. Come se questa musica rispettasse
un codice d’onore, utilizzasse una grammatica metal riconosciuta e pagasse un giusto
dazio al mondo del metal classico: un insieme di componenti che in un certo qual
modo conforta gli animi più irrequieti e bisognosi di cliché. Una “finta”
rivoluzione che, come quella inglese del 1688 (che ebbe come esito la
conservazione, sotto mentite spoglie, dell’istituto monarchico), è più
restauratrice che demolitrice. Forse un K.K. Downing apprezza perché dietro a
tutte le pagliacciate c’è quel linguaggio medesimo che riconosce come proprio. Innanzi
alle pompose orchestrazioni, chissà, un Lombardo si sente confortato dal drumming
micidiale di Nick Barker.
Due parole, infine, sull'ex batterista dei Cradle of Filth,
passato alla causa dei norvegesi a partire dal precedente “Puritanical Euphoric
Misanthropia” e che concluderà la sua avventura fra i fiordi proprio con questo
“Death Cult Armageddon” (un altro motivo per considerare un'entità indistinta i
due album). La prova dietro alle pelli dello zio Fester del black è
eccellente come sempre e non nego che è mia convinzione il fatto che il salto
di qualità i Nostri l'abbiano fatto proprio grazie alle sue forti braccia. Potente,
veloce, fantasioso, dinamico, sempre con lo spunto giusto da buttare nel
marasma: amici miei, se un giorno vorrete tirare su una band e suonare roba
estrema dove succede di tutto, allora chiamate Nick Barker, maestro indiscusso,
insieme ad Hellhammer (che fra l’altro verrà reclutato in seguito dai
Dimmu Borgir) di questo approccio “progressivo” applicato alla musica estrema.
Ma a questo punto, in tipico stile metalmirroriano,
interviene il fattore che non c’azzecca un cazzo a scompaginare il tutto.
Parliamo dunque dei Manowar….