17 giu 2016

CEREMONIAL OATH, BENVENUTI A...GOTEBORG!


I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI '90)

1995: "CARPET"

Era il 5 ottobre del 1999. Rainbow Club, Milano. Tour degli In Flames di supporto a “Colony”, pubblicato a maggio di quell'anno. Quel giorno ero tra il pubblico.

All’epoca ero talmente esaltato dal melo-death, e conseguentemente innamorato degli In Flames, che, ricordo, aspettai Jesper Stromblad dopo il concerto per farmi fare un autografo. Una volta davanti a colui che era uno dei miei "idoli assoluti" del vasto Mondo del Metallo, la persona che aveva composto tutto-da-solo-non-so-se-mi-spiegoMoonshield”, cioè la Canzone-con-la-C-maiuscola-di-tutta-la-storia-del melo-death; dicevo, una volta davanti a lui fui colto da un deviato e totalmente irrazionale raptus della Ragione dicendogli: “Jesper, sei il più grande chitarrista del mondo!” (frase già di per sè totalmente idiota scaturita dal cuore in quel momento staccato dal cervello). Al che lui mi guardò strabuzzando gli occhi, ringraziandomi (ma, era del tutto evidente, che pensasse: “Ragazzo, ma che cazzo stai dicendo?? Ti sei bevuto il cervello??!).

A cura di Morningrise

Parto da questo aneddoto personale solo per far capire che questo 6° capitolo della nostra Rassegna sulle cult band degli anni 90 (si comincia quindi la fase discendente della stessa) tratterà quello che per il sottoscritto è davvero un campo minato, un argomento spinoso.
Il rischio è per me infatti quello di sbrodolare, di fare panegirici entusiastici verso quello che è stato per anni il mio genere metallico prediletto: il melo-death svedese. Soprattutto negli anni universitari non ho fatto altro, o quasi, che ascoltare il c.d. Gothenburg sound. Questo incestuoso connubio tra death e metal classico di derivazione New Wave mi ha sempre suscitato un’emozione mista ad esaltazione senza uguali nel vasto panorama dei sottogeneri metal.

Ero triste e malinconico? Mi affidavo alle struggenti note dei Dark Tranquillity. Mi sentivo euforico? C’erano gli In Flames a supportare, ampliandolo, questo stato d'animo. Ero, all'opposto, incazzato? Mi aggrappavo alla furia degli At the Gates. Umori epicamente bellicosi si impadronivano del mio spirito? Subito infilavo nel lettore gli Amon Amarth. Ero invece riflessivo? Arrivavano allora gli Edge of Sanity. Necessitavo di pogo selvaggio? Gardenian e Soilwork era quello che faceva per me…Insomma, per ogni occasione e per ogni stato d’animo nel mio cuore c’erano i gruppi svedesi melo-death.

Quindi, come parlarne con obiettività? (eppur bisogna parlarne…). Tutti i gruppi succitati hanno avuto un ottimo/buon successo, sono quasi tutte band longeve, con un consistente seguito di pubblico e una valenza affermata e riconosciuta da colleghi e addetti ai lavori.

Ed ecco allora che nel momento del bisogno (cioè di scrivere queste righe...) mi vengono in aiuto loro, i Ceremonial Oath. Li ho conosciuti, e amati, per ultimi. E invece sono stati tra i primi. 
Ok, ok…”Heartwork” dei Carcass, “Slaughter of the Soul” (1995) degli At the Gates…ovunque si legge dell’importanza seminale di questi due dischi per tutta la corrente. Non voglio negare e/o sminuire, ci mancherebbe. Però…

Però i Ceremonial Oath erano in pista dal 1992 e già nel 1993, stesso anno della pubblicazione proprio del grande album dei Carcass succitato, componevano tutto il materiale che sarebbe andato a finire poi, seppur solo nell’aprile del 1995, proprio su “Carpet”. Oddio, non si tratta di materiale particolarmente voluminoso. Tutt’altro: qua ci ritroviamo davanti ad una scheggia di appena 24 minuti e rotti!! Ventiquattro!! Che arrivano a 31 con i quasi sette della cover, peraltro riuscitissima, di “Hallowed be thy Name” degli Iron…un minutaggio che manco “Reign in Blood”…

Ma come sappiamo tutti (e come RIB idealtipicamente dimostra...) quantità  e qualità sono due cose diverse e “Carpet” è lì a ribadirlo. Si, perché in questa mezz’oretta di musica i Nostri condensano un grande concentrato di idee e di sfoggio tecnico.

Del resto di chi stiamo parlando?? Chi erano i Ceremonial Oath?? Erano tutti musicisti che, dalla dissoluzione della band (avvenuta proprio dopo “Carpet”), andarono a formare tutti quei gruppi che avrebbero dato lustro alla scena svedese anni novanta. I due Anders, Friden e Iwers, (quest’ultimo fratello maggiore di Peter, attuale bassista degli In Flames) avrebbero raggiunto Stromblad  (che a sua volta aveva suonato il basso nel debut del 1992 dei C.O., l'acerbo e più propriamente death “The Book Of Truth”) ; Markus Nordberg si sarebbe unito ai Cemetary di Mathias Lodmalm; e Oscar Dronjak, chitarra e voce sul debut TBOT, sarebbe stato il mastermind dei celebri HammerFall…insomma, una scena vera e propria, con collaborazioni e passaggi dei musicisti da un gruppo all’altro (su “Carpet” troviamo tra i guest alla voce anche Tomas Lindberg degli At the Gates).

Dicevamo sopra dei contenuti di "Carpet" e della qualità degli stessi. E allora parto con una domanda: possono bastare appena 70 secondi per innamorarsi di un album, di un gruppo, di un intero genere? Si, possono bastare se sono i primi 70 secondi dell’opener “The Day I Buried” (ma che bel titolo!). Mid-tempo portato avanti da un semplice riff su cui si interseca un tipico fraseggio melo-death, prima dello stacco di batteria e la corsa a rotta di collo del pezzo …ancora tempo rallentato, scambi di note tra le due asce, prima che gli assoli di stampo maideniano entrino in scena: signore e signori, ecco a voi il melo-death svedese! Su tutto si erge maestosa una voce, quella di Anders Friden, meravigliosa, con il suo growl riconoscibile tra mille: demoniaco, spaventoso, evocativo. Forse il meglio che poteva presentare la scena in quel momento. Un Friden che sarà stato magari anche meno tecnico e vario di quello di oggi (del resto aveva appena 20 anni al momento della registrazione dei brani di “Carpet”) ma che almeno, ci risparmiava di berciare come un tacchino, come invece sta facendo 15 anni a questa parte, con tutta la tecnica e l'esperienza poi acquisita...

Ma i sei minuti e passa di “The Day I Buried” sono l’eccezione rispetto al restante materiale del disco, con brani che si assesteranno sempre al di sotto dei 4’. Poco male comunque, la qualità dei pezzi rimarrà sempre elevatissima visto che i Nostri, come dimostra già la successiva “Dreamland”, riescono in poco tempo ad amalgamare moltissimi stilemi: da sfuriate in doppia cassa e riff in tremolo lanciati alla velocità della luce, a tempi cadenzati in cui si inseriscono le partiture più epiche tipiche del genere (vedasi la splendida “Immortalized”); da pezzi in levare (come da lezione dei maestri At The Gates) ai tipici intrecci di melodici assoli e rincorse tra le due chitarra di preastiana memoria.

“Carpet” quindi presenta in nuce quella tipologia di scrittura che ritroveremo maggiormente matura e bilanciata nelle prime, devastanti opere, degli In Flames. Evidentemente per Stromblad l’esperienza maturata nei C.O. fu importantissima per riuscire poi a riversare così mirabilmente quegli stilemi nei capolavori “Subterranean” (1994) e “The Jester Race” (1995), compreso quel tocco folk presente, sempre in maniera discreta, nel primigenio melo-death di quegli anni (e in “Carpet” rappresentato dalla coda struggente di “One of us / Nightshade”).

Ma i C.O. sono perfetti anche per esemplificare il punto di rottura concettuale dello swedish death con il death americano e inglese che l’aveva preceduto. E cioè quella poetica attenzione per tematiche esistenziali, per i sogni e le aspirazioni personali riversate nelle lyrics; riflessioni che rivelavano un’introspezione profonda, non di facciata ma sentitamente vera, fonte primaria di espressione artistica al pari del veicolo musicale. E in tal senso consiglio vivamente di leggere i testi dei brani, davvero splendidi. Testi che probabilmente solo ragazzi di vent’anni, in un tipico “cambio di stagione” della vita, potevano concepire in tal forma, abbinandoli a una musica così affascinante e potente.

Insomma, come si sarà capito non credo di essere la persona più indicata, e soprattutto obiettiva, per dire se il melo-death sia stata la contaminazione più esaltante che è stata partorita negli anni novanta in ambito metal, ma di certo è stata quella in cui le due componenti di violenza e melodia si sono amalgamate meglio, dando vita ad un tutt’uno coerente ed emotivamente coinvolgente.

E “Carpet” è precisamente l’idoneo biglietto da visita del sottogenere.

O, sarebbe meglio dire, il perfetto “tappeto” di Benvenuto dello Swedish Death Metal, "albergo a cinque stelle" di Gothenburg…