I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI '90)
1995: "CARPET"
Era il 5 ottobre del 1999. Rainbow Club, Milano. Tour degli In Flames di supporto a “Colony”, pubblicato a maggio di quell'anno. Quel giorno ero tra il pubblico.
All’epoca ero talmente esaltato dal melo-death, e conseguentemente innamorato degli In
Flames, che, ricordo, aspettai Jesper
Stromblad dopo il concerto per farmi fare un autografo. Una volta davanti a
colui che era uno dei miei "idoli assoluti" del vasto Mondo del Metallo, la persona che aveva
composto tutto-da-solo-non-so-se-mi-spiego “Moonshield”, cioè la
Canzone-con-la-C-maiuscola-di-tutta-la-storia-del melo-death; dicevo, una volta
davanti a lui fui colto da un deviato e totalmente irrazionale raptus della Ragione dicendogli: “Jesper,
sei il più grande chitarrista del mondo!” (frase già di per sè totalmente idiota scaturita dal cuore in quel momento staccato dal cervello). Al che lui mi guardò strabuzzando gli occhi, ringraziandomi
(ma, era del tutto evidente, che pensasse: “Ragazzo, ma che cazzo stai
dicendo?? Ti sei bevuto il cervello??!).
Parto da questo aneddoto
personale solo per far capire che questo 6° capitolo della nostra Rassegna sulle cult band degli anni 90 (si comincia quindi la fase discendente della stessa)
tratterà quello che per il sottoscritto è davvero un campo minato, un argomento
spinoso.
Il rischio è per me infatti
quello di sbrodolare, di fare panegirici entusiastici verso quello che è stato
per anni il mio genere metallico prediletto: il melo-death svedese. Soprattutto
negli anni universitari non ho fatto altro, o quasi, che
ascoltare il c.d. Gothenburg sound. Questo incestuoso connubio tra death e
metal classico di derivazione New Wave mi ha sempre suscitato un’emozione mista
ad esaltazione senza uguali nel vasto panorama dei sottogeneri metal.
Ero triste e malinconico? Mi
affidavo alle struggenti note dei Dark Tranquillity. Mi sentivo euforico?
C’erano gli In Flames a supportare, ampliandolo, questo stato d'animo. Ero, all'opposto, incazzato? Mi aggrappavo alla furia degli At the Gates. Umori
epicamente bellicosi si impadronivano del mio spirito? Subito infilavo nel lettore gli Amon Amarth. Ero invece riflessivo? Arrivavano allora gli Edge of Sanity. Necessitavo di pogo
selvaggio? Gardenian e Soilwork era quello che faceva per me…Insomma, per ogni occasione e per
ogni stato d’animo nel mio cuore c’erano i gruppi svedesi melo-death.
Quindi, come parlarne con
obiettività? (eppur bisogna parlarne…). Tutti i gruppi succitati hanno avuto un
ottimo/buon successo, sono quasi tutte band longeve, con un consistente seguito
di pubblico e una valenza affermata e riconosciuta da colleghi e addetti ai
lavori.
Ed ecco allora che nel momento
del bisogno (cioè di scrivere queste righe...) mi vengono in aiuto loro, i Ceremonial
Oath. Li ho conosciuti, e amati, per ultimi. E invece sono stati tra i
primi.
Ok, ok…”Heartwork” dei Carcass, “Slaughter of the Soul” (1995) degli At the
Gates…ovunque si legge dell’importanza seminale di questi due dischi per tutta
la corrente. Non voglio negare e/o sminuire, ci mancherebbe. Però…
Però i Ceremonial Oath erano in pista dal
1992 e già nel 1993, stesso anno della pubblicazione proprio del grande album dei
Carcass succitato, componevano tutto il materiale che sarebbe andato a finire poi, seppur
solo nell’aprile del 1995, proprio su “Carpet”. Oddio, non si tratta di
materiale particolarmente voluminoso. Tutt’altro: qua ci ritroviamo davanti ad
una scheggia di appena 24 minuti e rotti!! Ventiquattro!! Che arrivano a 31 con i quasi
sette della cover, peraltro riuscitissima, di “Hallowed be thy Name” degli
Iron…un minutaggio che manco “Reign in Blood”…
Ma come sappiamo tutti (e come RIB idealtipicamente dimostra...) quantità e
qualità sono due cose diverse e “Carpet” è lì a ribadirlo. Si, perché in
questa mezz’oretta di musica i Nostri condensano un grande concentrato di idee
e di sfoggio tecnico.
Del resto di chi stiamo
parlando?? Chi erano i Ceremonial Oath?? Erano tutti musicisti che, dalla dissoluzione della
band (avvenuta proprio dopo “Carpet”), andarono a formare tutti quei gruppi che
avrebbero dato lustro alla scena svedese anni novanta. I due Anders, Friden e Iwers, (quest’ultimo fratello maggiore di Peter, attuale bassista
degli In Flames) avrebbero raggiunto Stromblad (che a sua volta aveva suonato il
basso nel debut del 1992 dei C.O., l'acerbo e più propriamente death “The Book Of Truth”) ; Markus Nordberg si sarebbe unito ai
Cemetary di Mathias Lodmalm; e Oscar Dronjak, chitarra e voce sul debut TBOT, sarebbe
stato il mastermind dei celebri HammerFall…insomma, una scena vera e propria,
con collaborazioni e passaggi dei musicisti da un gruppo all’altro (su “Carpet”
troviamo tra i guest alla voce anche Tomas
Lindberg degli At the Gates).
Dicevamo sopra dei contenuti di "Carpet" e della qualità degli stessi. E allora parto con una domanda: possono
bastare appena 70 secondi per innamorarsi di un album, di un gruppo, di un
intero genere? Si, possono bastare se sono i primi 70 secondi dell’opener “The
Day I Buried” (ma che bel titolo!). Mid-tempo portato avanti da un semplice
riff su cui si interseca un tipico fraseggio melo-death, prima dello stacco di
batteria e la corsa a rotta di collo del pezzo …ancora tempo rallentato, scambi
di note tra le due asce, prima che gli assoli di stampo maideniano entrino in
scena: signore e signori, ecco a voi il melo-death svedese! Su tutto si erge
maestosa una voce, quella di Anders Friden, meravigliosa, con il suo growl riconoscibile
tra mille: demoniaco, spaventoso, evocativo. Forse il meglio che poteva presentare
la scena in quel momento. Un Friden che sarà stato magari anche meno tecnico e
vario di quello di oggi (del resto aveva appena 20 anni al momento della
registrazione dei brani di “Carpet”) ma che almeno, ci risparmiava di berciare
come un tacchino, come invece sta facendo 15 anni a questa parte, con tutta la tecnica e l'esperienza poi acquisita...
Ma i sei minuti e passa di “The
Day I Buried” sono l’eccezione rispetto al restante materiale del disco, con
brani che si assesteranno sempre al di sotto dei 4’. Poco male comunque, la
qualità dei pezzi rimarrà sempre elevatissima visto che i Nostri, come dimostra
già la successiva “Dreamland”, riescono in poco tempo ad amalgamare moltissimi stilemi:
da sfuriate in doppia cassa e riff in tremolo lanciati alla velocità della luce,
a tempi cadenzati in cui si inseriscono le partiture più epiche tipiche del
genere (vedasi la splendida “Immortalized”); da pezzi in levare (come da lezione
dei maestri At The Gates) ai tipici intrecci di melodici assoli e rincorse tra
le due chitarra di preastiana memoria.
“Carpet” quindi presenta in nuce
quella tipologia di scrittura che ritroveremo maggiormente matura e bilanciata nelle
prime, devastanti opere, degli In Flames. Evidentemente per Stromblad
l’esperienza maturata nei C.O. fu importantissima per riuscire poi a riversare
così mirabilmente quegli stilemi nei capolavori “Subterranean” (1994) e “The
Jester Race” (1995), compreso quel tocco
folk presente, sempre in maniera discreta, nel primigenio melo-death di quegli anni (e in
“Carpet” rappresentato dalla coda struggente di “One of us / Nightshade”).
Ma i C.O. sono perfetti anche per
esemplificare il punto di rottura concettuale dello swedish death con il death
americano e inglese che l’aveva preceduto. E cioè quella poetica attenzione per tematiche esistenziali, per i sogni e le
aspirazioni personali riversate nelle lyrics; riflessioni
che rivelavano un’introspezione profonda,
non di facciata ma sentitamente vera, fonte primaria di espressione artistica
al pari del veicolo musicale. E in tal senso consiglio vivamente di leggere i testi dei
brani, davvero splendidi. Testi che probabilmente solo ragazzi di vent’anni, in
un tipico “cambio di stagione” della vita, potevano concepire in tal forma,
abbinandoli a una musica così affascinante e potente.
Insomma, come si sarà capito non credo di essere la
persona più indicata, e soprattutto obiettiva, per dire se il melo-death sia
stata la contaminazione più esaltante che è stata partorita negli anni novanta
in ambito metal, ma di certo è stata quella in cui le due componenti di
violenza e melodia si sono amalgamate meglio, dando vita ad un tutt’uno
coerente ed emotivamente coinvolgente.
E “Carpet” è precisamente l’idoneo
biglietto da visita del sottogenere.
O, sarebbe meglio dire, il
perfetto “tappeto” di Benvenuto dello Swedish Death Metal, "albergo a cinque
stelle" di Gothenburg…