Il debutto discografico degli
Slash's Snakepit si intitolava "It's Five O' Clock Somewhere":
un titolo che mi è sempre rimasto impresso per l'aneddoto che vi stava dietro,
accaduto allo stesso Slash in aeroporto durante un tour dei Guns
'n Roses. Era ancora mattina e il Nostro ebbe la bella idea di recarsi al
bar dell'aeroporto con l'intento di comprarsi una bottiglia di whisky. Quando
il barista gli fece notare che non venivano serviti alcolici prima delle cinque
del pomeriggio, il chitarrista replicò: ma da qualche altra parte saranno le
cinque...
In modo analogo io rispondo a
voi, o cari lettori che mi domanderete stupefatti il perché ci ritroviamo a
parlare in pieno agosto di "Battles in the North" degli Immortal:
da qualche parte del mondo sarà pur freddo, no?
In realtà, a scapito delle
tematiche "invernali" trattate nei testi dell'album (titoli come
"Throned by Blackstorm", "Cursed Realms of the
Winterdemons", "At the Stormy Gates of Mist" parlano
chiaro), secondo me "Battles in the North" è un album decisamente
estivo: vuoi per la rinfrescante copertina con Abbath e Demonaz
in canotta borchiata accucciati sulla neve (che fa molto "effetto
granita" - avete mai provato, in spiaggia sotto l'ombrellone, a
passarvi la confezione in digipack del cd sulla fronte per rinfrescarvi?);
vuoi per un paio di motivi di ordine biografico che mi legano al suddetto
album.
Esso, se non ricordo male,
uscì a cavallo fra maggio e giugno, e fu da me acquistato a scuola oramai
finita, proprio il giorno prima di partire per il campeggio estivo (non ebbi
praticamente il tempo di ascoltare l’album e ricordo che ultimai l'ascolto
proprio mentre finivo di preparare lo zaino). Il primo ascolto non mi fece una
grande impressione; i seguenti, dopo le vacanze, non andarono meglio, tant'è
che dopo un po' lo giudicai un acquisto inutile e lo detti via. Tornò in mio
possesso qualche anno dopo, a seguito della rivalutazione che feci poi
di quel lavoro. A quei tempi, per ammortizzare le spese e rifarsi di un
acquisto sbagliato, si usava ancora scambiare i cd fra amici e, destino volle,
il luogo pattuito per lo scambio della merce fu proprio in spiaggia ad
agosto, al mare. Ancora ricordo il riquadro bianco del cd con i due
temibili buffoni in copertina che passava da uno zaino all'altro fra creme
solari ed infradito. Direi che a questo punto i crismi per parlarne ci sono
tutti.
Partiamo proprio dal discorso
della rivalutazione, perché a me, come a molti altri, "Battles in the
North", oggi considerato indiscutibilmente uno degli album più importanti
del black metal, non sembrò un granché al momento della sua uscita:
ricordo bene la rivista Flash che all'epoca appioppò una insufficienza
secca all'album. La recensione, più o meno, si chiudeva così: sarà quel che
sarà, ma alla fine dell'ascolto si fa ricordare solamente la seconda metà di
"Blashyrkh (Mighty Ravendark)". Chiosa che andava a
ribadire un giudizio estremamente negativo, dato dall'eccessiva monotonia
che accomunava le dieci tracce ed un songwriting in generale poco
ispirato e per niente coraggioso. Ma come dare torto al recensore?
Correva l'anno 1995,
il black metal norvegese viveva il suo periodo di massimo splendore e l'anno
precedente erano uscite opere epocali quali "In the Nightside Eclipse"
degli Emperor e "Frost" degli Enslaved: lavori
che evidenziavano una straordinaria maturazione/evoluzione del genere, sia in
termini di complessità di scrittura, sia sul piano dell'esecuzione. Dagli
Immortal, che erano stati fra i primi mover del “movimento”, con
all'attivo album seminali come "Diabolical Foolmoon Mysticism"
e "Pure Holocaust", e per giunta in un contesto in cui il
black metal si stava ampliando in direzione progressiva, ci si aspettava
decisamente di più di un album striminzito di trentacinque minuti
composto da brani spartissimi che era difficile distinguere l'uno dall'altro.
Il tutto ammantato da una produzione sbilanciata che evidenziava
ritmiche e voce a scapito di basso e chitarra: un insieme di suoni compatto ma
indistinguibile.
Compatto, indistinguibile: lo stile di registrazione lo-fi
(altresì detto "alla cazzo di cane) a cui il black metal ci aveva abituato
era sostanzialmente diverso. L'anno prima era uscito "Transilvanian
Hunger" e, superate le perplessità iniziali, le chitarre zanzarose
e la batteria che frullava in lontananza c'iniziavano a stare pure simpatiche.
"Battles in the North", invece, suonava in modo diverso: all'inizio
(portentosa la title-track) ti ammaliava per via della potenza
della batteria, ripresa nitidamente dal mixer e percossa da un Abbath in
stato di grazia: micidiale alla doppia cassa, infaticabile dietro a tom
e piatti, spregiudicato nel cambiare tempo al momento giusto senza mai perdere
di vista la velocità (il più delle volte, supersonica).
Eppure proseguendo con i
brani, prima il secondo, poi il terzo, e così via, ci si rendeva conto che
tutto il meglio stava nella title-track, che non accadeva nulla di
rilevante e che gli unici momenti degni di nota continuavano ad essere o un passaggio
ritmico possente o un cambio di tempo riuscito. E le melodie?
L'atmosfera? Il riffing ispirato e frastornante che aveva caratterizzato
"Pure Holocaust"?
La chitarra di Demonaz esce
dal mixer come un flusso piatto e costante, un vorticare indistinto che
funge più da riempitivo che altro. Che l'effetto "tormenta di neve"
sia stato voluto? Probabile, considerato il titolo dell'album, ma resta il
fatto che dieci pezzi più o meno uguali (a parte la bathoriana
"Blashyrkh”, che chiude magistralmente il platter a suon di epici
tempi medi e fregiandosi persino di un intermezzo atmosferico con arpeggi e
tastiere) è un bottino troppo magro, quando nel frattempo gli Emperor edificavano
sinfonie e gli Enslaved si addentravano sapientemente nel folclore nordico
(tanto per rimanere agli esempi fatti prima). Dulcis in fundo: la voce da “Paolino
Paperino” di Abbath appariva meno credibile che in passato, emergendo dal
marasma nitida ed acuta (all'epoca fu definito, sempre da Flash, come un Steve
Sylvester posseduto", a dimostrazione di come il suo screaming
fosse divenuto qualcosa di grottesco).
Solo molti anni dopo
"Battles in the North" sarebbe stato rivalutato: un "ricorso
in appello" che si sarebbe compiuto ad "acque ferme"
dopo l'ubriacatura black degli anni novanta. Di lì a poco, infatti, il
"movimento" avrebbe esaurito gran parte delle sue energie, e le più
importanti band di quel glorioso periodo si sarebbero presto o arenate, o
dissolte, o avrebbero imboccato vie al di fuori del black metal. Gli Immortal
non costituirono certo un'eccezione in questo scenario di decadenza: due anni
dopo, nel 1997, avrebbero rilasciato uno scialbo "Blizzard Beasts"
(ad ogni modo valutato all'epoca come un segnale di ripresa rispetto a
"Battles in the North") e si sarebbero sciolti per poi rinascere a
nuova vita con il solo Abbath, (visto che Demonaz dovette fermarsi per una
tendinite, rimanendo comunque vicino alla band in qualità di autore dei testi).
I processi di
rivalutazione di opere snobbate al momento della loro uscita sono spesso un
atto di giustizia postuma che porta a riconoscere il valore di prodotti che non
erano stati capiti, o perché troppo avanti, o per semplice sfortuna. Ma queste
rivalutazioni possono essere anche dovute ad elementi di falsità, magari
dettate da esigenze psicologiche dell'ascoltatore: l'irresistibile fascino
dell'artista di culto che piace a pochi e che, ascoltandolo, ci fa sentire dei
veri intenditori. Oppure ad agenti estranei e fortuiti, come per esempio
quando una band diviene attuale anni dopo il periodo in cui operava grazie a
dei trend che si vengono ad avviare successivamente. Basti pensare a
come la gente ha iniziato a rispolverare i vecchi poliziotteschi
nostrani o il cinema di Hong Kong dopo che Tarantino ha fatto loro una pubblicità
gratuita citandoli nei suoi film.
E poi c'è un fatto da
evidenziare: un'opera privata del suo contesto originario può avere vita
più facile se non deve fare i conti con scomodi confronti. Ripeto: quando
"Battles in the North" uscì non poteva oggettivamente rivaleggiare
con le pubblicazioni del periodo. Ed oggi non è che in esso troviamo semi che abbiamo
poi visto germogliare in nuovi filoni. Ed allora perché "Battles in the
North" è oggi considerato un caposaldo del black metal? Provo a dare
una risposta.
Sebbene gli anni novanta
fossero già anagraficamente sconvolti dal ciclone grunge (dopo il quale niente
sarebbe stato più come prima), in essi sopravvissero delle dinamiche che
avevano caratterizzato i gloriosi ottanta. I generi classici erano in
crisi, ma nuovi generi stavano nascendo, fra cui il black metal. E questo
faceva credere che tutto sarebbe andato avanti come sempre, in una sempiterna
evoluzione del metallo, come se non fosse successo nulla. Invece le cose
andarono diversamente. Il metal si impantanò per davvero e le dinamiche
classiche furono scardinate: contaminazione, generi e sotto generi in continua
gestazione, un metal che cercava di superarsi tramite una complessità
isterica. Ma alla fine, quella stessa complessità che era stata
inizialmente salutata come un momento di salutare evoluzione, iniziò a
stuccare, e tanti, fra cui molti giovani, iniziarono a guardare a formule
più semplici ed intellegibili, come se in quella semplicità vi fosse celato
l'antico segreto del metal: quella ricetta che sembrava essere
smarrita dalle nuove leve che si scapicollavano con sforzi sovrumani senza
lasciare il segno.
Gli Immortal, con il loro
black diretto venato di baldanzosa epicità, furono dunque riconsiderati in
questa ricerca di messaggi chiari ed incisivi. Oltre al fatto
incontestabile che avevano dalla loro parte la storicità (ossia il fatto
di essere stati fra quelli che contavano quando si faceva la Storia), la
fortuna giocò a loro favore: le atmosfere epiche e calate in scenari fantasy
della loro musica sarebbero state molto gradite dai giovani metallari del nuovo
millennio. Il rifarsi alle lezioni del grande Bathory e quel mondo
immaginario ricreato nei testi furono sicuramente le ragioni principali del
successo postumo degli Immortal.
Ad alimentare la leggenda,
inoltre, intervennero quelle pose a teste di cazzo che nella copertina
di "Battles in the North" trovano l'apoteosi. Vi è persino un video amatoriale
di "Blashyrkh" che cattura i due in canotta borchiata a suonare sui
picchi innevati: immagini che hanno scalato gli indici di gradimento nella classifica
dei videoclip black metal più ridicoli. Questo ultimo aspetto va
ad evidenziare proprio come la rivalutazione degli Immortal sia stata
alimentata dai più giovani, poiché se c'è una cosa che i giovanissimi, quelli
della “internet generation”, amano più di ogni altra, è proprio sbellicarsi
dalle risate davanti a gente e situazioni trash, spesso però non sapendo
distinguere fra quello volontario e quello involontario. Gli Immortal ricadono
ovviamente nella seconda categoria, perché per noi che nel 1995 c'eravamo, il
trucco, il parrucco, le lingue di fuori e le pose degli Immortal non
erano roba ridicola da sbeffeggiare. Certo, un po' caricaturali, ma alla fine
gente seria che credeva in quello che faceva. E noi li ascoltavamo ancora più
seriamente, badando più che altro alla musica.
Per quanto mi riguarda,
"Battles in the North", sotto l'influenza di questa rivalutazione
collettiva, iniziò a chiamarmi, come i corvacci del Reame di
Blashyrkh. Lo imparai ad apprezzare, passo dopo passo, prima ricercando i
dettagli che mi avrebbero permesso di distinguere un brano dall'altro, poi
accontentandomi di subire l’album nella sua interezza: di subirlo come flusso,
annichilito dalla sua violenza furibonda. Consapevole ormai che il black metal
era oramai finito e che il meglio doveva essere ricercato nel patrimonio di
perle discografiche uscite in quel quinquennio prodigioso che andava dal 92 al
96. Ed oggi il ritornello della title-track è la cosa che più di ogni
altra amo cantare sotto alla doccia…
Bedoooools....bbbedooools in de noooo!!!!!