9 ago 2016

"IL DIAVOLO E L'ACQUASANTA", UN MIX CHE CREA..."DIPENDENZA"!


It has always been in the back of my mind / Dreaming about going to the corners of time / I always wanted to fly / in STRANGE MACHINES

Sono bastate le prime note, e poi questi tre versi iniziali di “Strange machines” (l’opener del capolavoro dei The Gathering, “Mandylion” del 1995), per farmi innamorare all’istante di Anneke van Giersbergen. Ma proprio innamorato, eh, mica così-per-dire!?!

Tanto che la prima volta che la vidi in concerto, con la band olandese di supporto ai My Dying Bride, mi indignai non poco per i soliti cafoni che, non appena lei salì sul palco, cominciarono a urlare sconcerie volgari che in questa sede vi risparmio…

A cura di Morningrise

Comunque, da quel capolavoro in avanti i The Gathering furono sempre oggetto della mia attenzione metallara, band privilegiata dei miei ascolti di gioventù, al centro del mio cuore sonoro.

La dipartita di Anneke dai TG mi demoralizzò non poco, anche perché con lei la band non aveva sbagliato ancora un colpo, compresi gli ultimi “Souvenirs” e “Home”, sempre rinnovandosi e ricercando strade sonore originali. La seguii fino a “Air” (2007), primo album degli Agua de Annike. Disco onesto, carino, ma in fondo trascurabile. E poi come batterista in quel progetto c’era Rob Snijders, suo marito nonché padre del suo bambino…gelosia montante! (ma poi che faccia da sfigato ha Snijders??!!)

Comunque, sto divagando: la premessa doveva semplicemente spiegare la mia enorme sorpresa nel sentire per la prima volta la voce soave, inimitabile, superiore-a-tutte-le-altre di Anneke in un album dei The Devin Townsend Project ("Addicted" del 2009) di quel folle, brutto&cattivo di…Devin Townsend! Altro artista che stimo al massimo e che considero capace, per quanto fatto nel remoto e nel recente passato, di “dire” sempre qualcosa di nuovo e, soprattutto, interessante per la nostra musica preferita.

Entrare nella discografia di Devin post-Strapping Young Lad non è cosa semplice. La dissoluzione della sua band d’origine avvenuta nel 2007 mi pare abbia lasciato un Devin diverso. Più solare, più positivo. E davvero molto ispirato, tanto che le composizioni create sono state decine e decine; talmente tante che è riuscito a convogliarle tutte nell’arco di pochi anni in parecchi album, rilasciati con  monicker diversi: Devin Townsend Project, Devin Townsend Band, Devin Townsend e basta, Casualties of Cools e non so quant’altro ancora.

Ma quello che ci interessa approfondire in questo post è il risultato dell’interazione di questi due artisti, Annie e Devin, apparentemente così lontani tra di loro, quasi come il diavolo e l’acquasanta. E allora vi avvisiamo subito: il risultato del sodalizio è validissimo!

La formula di "Addicted" è tanto elementare quanto difficile da realizzare: una serie di riff portanti semplici ma granitici guidano quasi tutti i brani presenti (fa eccezione la dolce ballad “Ih-Ah!” ). Ma ciò che li differenzia, e che rappresentano il punto vincente del prodotto, sono gli arrangiamenti. Devin saccheggia il suo retroterra esperenziale, flirtando pesantemente con l’elettronica, i sintetizzatori e i suoni digitali. Ogni pezzo così assume un contorno definito, si distingue dagli altri, risplendendo di luce propria, dotati di un dinamismo evidente, frutto anche del grande lavoro dietro alle pelli del drummer canadese Ryan Van Poederooyen.

Ma attenzione: l’elettronica di “Addicted” non è quella dei SYL. E’ una scorza fredda che racchiude un cuore caldo. E questo calore è dato da un lato dal diverso approccio con cui Devin presenta la sua musica (un approccio, come detto, meno negativo, più divertito e, per chi ascolta, più divertente); e in secondo luogo dalla presenza di Annie, la soave. Che, a volte come seconda voce e spesso come lead singer, dona ai brani una dimensione più eterea, sognante (“Supercrush!”, “Numbered!”), pur non disdegnando anche interpretazioni cazzute e graffianti (“Bend it like Bender!”, “Resolve!”).

Tra momenti che ricordano le migliori divagazioni elettroniche dei The Gathering (“Hyperdrive!”), e altre (vedi “The way home!” o la conclusiva “Awake!”) che rimandano, pur non toccando quelle inarrivabili vette, al capolavoro assoluto dell’istrionico canadese, cioè “Terria” (per chi scrive uno dei venti dischi decisivi del metallo degli anni zero) il disco scorre veloce e piacevole, senza intoppi. Divertente e a tratti addirittura danzereccio, come nella trascinante “Universe in a ball!”.

Del resto, che vogliamo? Devin non è più il 23enne di “Heavy as a really heavy thing”. Ora è sposato ed è diventato padre.
Guardatelo nel DVD del live “The Retinal Circus” (2h e 10’ di pura goduria: 25 brani che riassumono gli ultimi dieci anni della carriera del canadese) com’è più “serio”, con un completo giacca-pantaloni, senza più quei radi capelli lunghi che, essendo parecchio stempiato, gli stavano davvero male…insomma, adesso abbiamo un musicista ultraquarantenne con tanta esperienza alle spalle e il sound non può sempre essere quello terrificante di “City” o “Alien”.
Però poi se lo osservi bene noti sempre di tanto in tanto quella luce da psicopatico negli occhi, forse un po’ più mitigata, meno costante, ma che di tanto in tanto appare…a conferma che alla fin fine è sempre il nostro HeavyDevy!

Piccola nota: tutti i dieci titoli dei brani che compongono il disco hanno un punto esclamativo (non mi era scappato il dito fino a questo momento nello scrivere i titoli col punto esclamativo…); l’avevate mai vista una cosa del genere? Io no…e sembra quasi un segnale di gioia, di estrema vitalità; cosa che trasuda da ogni nota, anche da quelle più strettamente metalliche (come nella title track, nonchè opener song, uno delle cose meglio riuscite del disco).

La strana coppia tornerà assieme tre anni più tardi, per dare alla luce “Epicloud”, segno che i due si sono trovati bene assieme, volendo rinnovare la collaborazione.

E se si sono trovati bene loro, figuratevi noi fans...già dipendenti e desiderosi che il sodalizio tra questi due grandi artisti continui a lungo!