It has always been in the back of my mind / Dreaming
about going to the corners of time / I always wanted to fly / in STRANGE
MACHINES…
Sono bastate le prime note, e poi
questi tre versi iniziali di “Strange machines” (l’opener del capolavoro dei The Gathering,
“Mandylion” del 1995), per farmi innamorare all’istante di Anneke van
Giersbergen. Ma proprio innamorato, eh, mica così-per-dire!?!
Tanto che la prima volta che la
vidi in concerto, con la band olandese di supporto ai My Dying Bride, mi indignai
non poco per i soliti cafoni che, non appena lei salì sul palco, cominciarono a
urlare sconcerie volgari che in questa sede vi risparmio…
A cura di Morningrise
Comunque, da quel capolavoro in avanti i The Gathering furono sempre oggetto della mia attenzione
metallara, band privilegiata dei miei ascolti di gioventù, al centro del mio
cuore sonoro.
La dipartita di Anneke dai TG mi
demoralizzò non poco, anche perché con lei la band non aveva sbagliato ancora un colpo, compresi
gli ultimi “Souvenirs” e “Home”, sempre rinnovandosi e ricercando strade sonore
originali. La seguii fino a “Air” (2007), primo album degli Agua de Annike. Disco onesto, carino,
ma in fondo trascurabile. E poi come batterista in quel progetto c’era Rob
Snijders, suo marito nonché padre del suo bambino…gelosia montante! (ma poi che
faccia da sfigato ha Snijders??!!)
Comunque, sto divagando: la
premessa doveva semplicemente spiegare la mia enorme sorpresa nel sentire per
la prima volta la voce soave, inimitabile, superiore-a-tutte-le-altre di Anneke
in un album dei The Devin Townsend Project ("Addicted" del 2009) di quel folle, brutto&cattivo di…Devin Townsend! Altro artista
che stimo al massimo e che considero capace, per quanto fatto nel remoto e nel
recente passato, di “dire” sempre qualcosa di nuovo e, soprattutto,
interessante per la nostra musica preferita.
Entrare nella discografia di
Devin post-Strapping Young Lad non è cosa semplice. La dissoluzione della sua band d’origine
avvenuta nel 2007 mi pare abbia lasciato un Devin diverso. Più solare, più
positivo. E davvero molto ispirato, tanto che le composizioni create sono state
decine e decine; talmente tante che è riuscito a convogliarle tutte nell’arco
di pochi anni in parecchi album, rilasciati con monicker diversi: Devin Townsend Project, Devin Townsend Band, Devin Townsend e basta, Casualties of Cools e non so quant’altro ancora.
Ma quello che ci interessa
approfondire in questo post è il risultato dell’interazione di questi due
artisti, Annie e Devin, apparentemente così lontani tra di loro, quasi come il diavolo e
l’acquasanta. E allora vi avvisiamo subito: il risultato del sodalizio è
validissimo!
La formula di "Addicted" è tanto elementare
quanto difficile da realizzare: una serie di riff portanti semplici ma
granitici guidano quasi tutti i brani presenti (fa eccezione la
dolce ballad “Ih-Ah!” ). Ma ciò che li differenzia, e che rappresentano il
punto vincente del prodotto, sono gli arrangiamenti. Devin saccheggia il suo
retroterra esperenziale, flirtando pesantemente con l’elettronica, i
sintetizzatori e i suoni digitali. Ogni pezzo così assume un contorno definito,
si distingue dagli altri, risplendendo di luce propria, dotati di un dinamismo
evidente, frutto anche del grande lavoro dietro alle pelli del drummer canadese
Ryan Van Poederooyen.
Ma attenzione: l’elettronica di
“Addicted” non è quella dei SYL. E’ una scorza fredda che racchiude un cuore
caldo. E questo calore è dato da un lato dal diverso approccio con cui Devin
presenta la sua musica (un approccio, come detto, meno negativo, più divertito
e, per chi ascolta, più divertente); e in secondo luogo dalla presenza di
Annie, la soave. Che, a volte come seconda voce e spesso come lead singer, dona
ai brani una dimensione più eterea, sognante (“Supercrush!”, “Numbered!”), pur
non disdegnando anche interpretazioni cazzute e graffianti (“Bend it like
Bender!”, “Resolve!”).
Tra momenti che ricordano le
migliori divagazioni elettroniche dei The Gathering (“Hyperdrive!”), e altre
(vedi “The way home!” o la conclusiva “Awake!”) che rimandano, pur non toccando
quelle inarrivabili vette, al capolavoro assoluto dell’istrionico canadese,
cioè “Terria” (per chi scrive uno
dei venti dischi decisivi del metallo degli anni zero) il disco scorre veloce e
piacevole, senza intoppi. Divertente e a tratti addirittura danzereccio, come
nella trascinante “Universe in a ball!”.
Del resto, che vogliamo? Devin
non è più il 23enne di “Heavy as a really heavy thing”. Ora è sposato ed è
diventato padre.
Guardatelo nel DVD del live “The
Retinal Circus” (2h e 10’ di pura goduria: 25 brani che riassumono gli ultimi
dieci anni della carriera del canadese) com’è più “serio”, con un completo
giacca-pantaloni, senza più quei radi capelli lunghi che, essendo
parecchio stempiato, gli stavano davvero male…insomma, adesso abbiamo un
musicista ultraquarantenne con tanta esperienza alle spalle e il sound non può
sempre essere quello terrificante di “City” o “Alien”.
Però poi se lo osservi bene noti sempre di tanto in tanto quella luce da psicopatico negli occhi, forse un po’ più mitigata, meno
costante, ma che di tanto in tanto appare…a conferma che alla fin fine è sempre
il nostro HeavyDevy!
Piccola nota: tutti i dieci
titoli dei brani che compongono il disco hanno un punto esclamativo (non mi era
scappato il dito fino a questo momento nello scrivere i titoli col punto
esclamativo…); l’avevate mai vista una cosa del genere? Io no…e sembra quasi un
segnale di gioia, di estrema vitalità; cosa che trasuda da ogni nota, anche da
quelle più strettamente metalliche (come nella title track, nonchè opener song,
uno delle cose meglio riuscite del disco).
La strana coppia tornerà assieme
tre anni più tardi, per dare alla luce “Epicloud”, segno che i due si sono
trovati bene assieme, volendo rinnovare la collaborazione.
E se si sono trovati bene loro, figuratevi noi fans...già dipendenti e desiderosi che il sodalizio tra questi due grandi artisti continui a lungo!