14 set 2016

I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND ANNI '90 - CONCLUSIONI (Parte I)



Progressive-death, Technical-thrash, Stoner, Sludge, Melo-death, Folk, Avant-garde, Symphonic-Goth, Neo-thrash…nelle dieci puntante della nostra Rassegna sui migliori dieci album delle cult band anni ’90 abbiamo cercato di rappresentare tutti quei sottogeneri che sono nati e si sono sviluppati in quella magica (almeno per chi scrive) decade. All’insegna di una parola d’ordine che ci facesse da guida nella difficile cernita: contaminazione.

A cura di Morningrise

Il metallo anni novanta, da molti criticato in realtà proprio per questa tendenza a miscelare e fondere i generi classici (heavy e thrash su tutti) con le più disparate influenze, non si è però limitato a quanto abbiamo descritto. Siamo perfettamente consapevoli di aver tralasciato diversi aspetti del variegato universo metal di quella decade. Innanzitutto non toccando importanti sottogeneri e, conseguentemente, altri capolavori di altre cult band. 
E in secondo luogo non parlando di tre nuovi movimenti nati proprio “a cavallo di due decadi”: il Death, il Prog Metal e il Black.

Date queste premesse utilizzerei quindi le consuete conclusioni delle nostre classifiche/rassegne, per ovviare alla cosa; dando cioè risalto ad altri dieci album che avrebbero meritato di stare dentro il nostro elenco “principale”. Del resto le scelte sono dolorose e farle comporta sempre indesiderati “tagli”. Cercheremo quindi di essere il più onnicomprensivi possibile.

Ma non vi preoccupate, non staremo a tediarvi con altre dieci lunghe puntate: ci limiteremo a brevissimi bozzetti, sintetiche schede sulla scorta di quanto fatto dal nostro Mementomori in occasioni del c.d. "governo ombra" dei dieci migliori album del "Nuovo Metal".

Ecco quindi i nostri 10 secondi migliori album delle cult band anni novanta!

1990 - TROUBLE: “S/T”

Partiamo col rendere omaggio a uno dei generi classici più nobili del metallo: il doom. Mi ero chiesto: ha senso parlare di “contaminazione” e “anni novanta” e poi trattare una band doom? Se inizialmente la risposta era stata negativa, ripensando alla discografia dei Trouble ho deciso che anche il doom andasse “rappresentato” nel nostro elenco. E lo facciamo inserendo l’omonimo album della band statunitense. Al contrario dei colleghi Candlemass e Saint Vitus, i Trouble non riuscirono mai ad ottenere un successo congruo alle loro qualità. Questo loro omonimo quarto platter, prodotto addirittura da Rick Rubin, è un concentrato di sano doom sabbathiano, di matrice seventies certamente, ma con chiari riferimenti all’attualità del metallo (allo Stoner in particolare di cui furono indiscussi padrini). Un disco che si caratterizza sia per l’ugola dell’istrionico singer Eric Wagner (capace di modulare la voce su diversi registri e dare un’impronta immediatamente riconoscibile al tutto) che per un songwriting di altissima qualità. 
Stupidamente definiti agli inizi della loro carriera una band “white metal”, i Trouble sono la dimostrazione di come si possa suonare ancora negli anni novanta doom cazzuto, lontano dal plagiare i riferimenti storici del genere, e al passo coi tempi. Basterebbe la sensazionale opener “At the end of my daze” per mettere in chiaro la cosa. 
Classicità…moderna!

1991 - MELVINS: “BULLHEAD”

Li avevamo già fugacemente trattati, in maniera alquanto scherzosa. Ma ora facciamo sul serio, con uno dei dischi più influenti degli anni novanta. Eravamo in piena esplosione grunge e alcune dichiarazioni di Kurt Cobain gettarono le luci della ribalta sull’allora ventisettenne Roger Osborne, alias King Buzzo, e ai suoi Melvins. Nella loro sterminata discografia, scegliamo “Bullhead” perché da allora nulla fu come prima per la band di Aberdeen (guardacaso proprio la città natale di Cobain). Rispetto al passato, caratterizzato da composizioni velocissime, i tempi si allungano e le atmosfere diventano pesanti come macigni. Certo, rimangono ancora schegge impazzite di due/tre minuti (“Anaconda”, “It’s shoved”) ma l’opener “Boris”, che diventerà un cavallo di battaglia anche in sede live, dimostrerà con i suoi 8 minuti e passa come la band stesse crescendo esponenzialmente, credendo nei propri mezzi, compositivi e tecnici, mettendo a segno uno degli album più “pesanti” del decennio.

1992 - MALEVOLENT CREATION: “RETRIBUTION”

Ho evitato di inserire cult band death metal tout court perché la nostra Rassegna sul XXV anniversario dell'anno d'oro del genere ne aveva già identificato i gruppi chiave e i dischi seminali.
Però sono un inguaribile romanticone e mi è spiaciuto che proprio da quell’elenco rimanessero fuori i Malevolent Creation (seppur citati nella nostra Anteprima). Se già il 1991, appunto l’anno aureo del genere, li aveva portati alla ribalta con lo splendido “The Ten Commandments”, l’anno successivo la Creatura Malevola bissa il successo con un disco ancora più estremo, ancora più brutale. 34 minuti di devastante death, ma rispetto al debutto, più personali, più “misurati”, capaci di mettere in mostra l’immensa tecnica del combo statunitense. Rallentamenti malsani fanno tirare il fiato nel maelstrom avvolgente creato dalle chitarre chirurgiche di Phil Fasciana e Rob Barrett. Da sottolineare la grandissima espressività della voce di Brett Hoffmann, tra le migliori del genere. 
Come per TTC, anche “Retribution” pecca un po’ nella varietà tra i diversi pezzi. Ma questo difetto, peraltro facilmente riscontrabile in un genere con strettissimi margini di manovra, è largamente compensato dal carisma e dallo spirito autentico di una band che ha fatto la Storia del Death floridiano.

1993 - SADIST: “ABOVE THE LIGHT”

Mamma mia che capolavoro immane. Difficile condensare in poche parole un album che per essere sviscerato meriterebbe un libro intero. Dopo l’evocativa intro “Nadir”, da “Breathin’ Cancer” alla conclusiva “Happiness ‘n’ sorrow” non possiamo che riscontrare 40 minuti di continue trovate geniali, in cui gli stilemi death sono in realtà una base usata a pretesto su cui convogliare le mille idee di Tommy Talamanca, capace di far duettare in modo sempre equilibrato e originale tastiere e chitarra, mischiando registri classici e moderni e passando da partiture morbide ed eteree a sfuriate devastanti. I pezzi sono sinuosi (fenomenale il lavoro dietro alle pelli di Peso), mai banali, spiazzanti senza essere forzatamente cervellotici. 
Forse a tratti acerbi, i Sadist del debut mettono però in campo intuizioni, coraggio, tecnica e sentimento. E per chi scrive, risultano anche molto più accessibili all’"ascoltatore medio" rispetto ai capolavori del periodo rilasciati dai "colleghi" Atheist, Pestilence e Cynic. 
Ingiustamente oscurati da questa triade all’estero, e probabilmente dal relativo successo degli Extrema in Italia (che in quell’anno rilasciavano il buonissimo debut “Tension at the seams”), i Sadist rappresentano il più bell’esempio metallico italiano di questa prima metà novantiana, sorpassando nel genere anche i maestri Nocturnus.

1994 – NOVEMBRE: “WISH I COULD DREAM IT AGAIN…”

Da una band italiana all’altra. La creatura dei fratelli Orlando è stata spesso accomunata dalla critica a Opeth e Katatonia, ma a mio modo di vedere i Nostri ne sono piuttosto lontani. Non basta infatti aver avuto lo stesso produttore (il grande Dan Swano che, caso vuole, proprio in quell’anno deflagrava con i suoi Edge of Sanity pubblicando lo splendido “Purgatory Afterglow”) ed essere “etichettati” progressive death come le due superband svedesi. I Novembre sono qualcosa di diverso. E probabilmente qualcosa di più. 
Per descrivere quello che è stato il loro debut non posso che riutilizzare le parole che Metal Mirror, nei post a loro dedicati, ha già usato: “Whish I Could Dream It Again..." è una sorta di concept onirico che procedeva per immagini piuttosto che lungo il filo di una narrazione vera e propria. Come nello stato di dormiveglia, dove le sensazioni, le voci, le immagini si confondono, anche il primo full-lenght dei Novembre vive in una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo: un luogo “altro” in cui solo le emozioni più vere prendono il sopravvento. Un impianto suggestivo che richiama l’immaginario mediterraneo… 
Impossibile dirlo meglio di così (e fatevelo dire da una persona che è cresciuta in riva alle paradisiache spiagge del nostro mar Jonio).  La barca scrostata dal salino in secca su una spiaggia deserta che vediamo in copertina è quanto di più potente possa esprimere tutto quell’insieme di sensazioni interiori e dolorosi sentimenti che il platter veicola. E anche quelli che sembrerebbero punti deboli (produzione, voce di Carmelo, continui passaggi dall’elettrico all’acustico, destrutturazione del formato-canzone) diventano forza e originalità in un quadro complessivo che sacrifica la struttura metal per prediligere la comunicazione delle emozioni.
Un'efferata carezza...