Progressive-death, Technical-thrash, Stoner, Sludge, Melo-death, Folk, Avant-garde, Symphonic-Goth, Neo-thrash…nelle dieci puntante della nostra Rassegna sui migliori dieci album
delle cult band anni ’90 abbiamo cercato di rappresentare tutti quei
sottogeneri che sono nati e si sono sviluppati in quella magica (almeno per chi
scrive) decade. All’insegna di una parola d’ordine che ci facesse da guida
nella difficile cernita: contaminazione.
A cura di Morningrise
Il metallo anni novanta, da molti criticato in realtà proprio per questa tendenza a miscelare e fondere i
generi classici (heavy e thrash su tutti) con le più disparate influenze, non
si è però limitato a quanto abbiamo descritto. Siamo perfettamente consapevoli
di aver tralasciato diversi aspetti del variegato universo metal di quella
decade. Innanzitutto non toccando importanti sottogeneri e, conseguentemente,
altri capolavori di altre cult band.
E in secondo luogo non parlando di tre
nuovi movimenti nati proprio “a cavallo di due decadi”: il Death, il Prog Metal
e il Black.
Date queste premesse utilizzerei
quindi le consuete conclusioni delle nostre classifiche/rassegne, per ovviare
alla cosa; dando cioè risalto ad altri dieci album che avrebbero meritato di
stare dentro il nostro elenco “principale”. Del resto le scelte sono dolorose e
farle comporta sempre indesiderati “tagli”. Cercheremo quindi di essere il più
onnicomprensivi possibile.
Ma non vi preoccupate, non
staremo a tediarvi con altre dieci lunghe puntate: ci limiteremo a brevissimi
bozzetti, sintetiche schede sulla scorta di quanto fatto dal nostro Mementomori
in occasioni del c.d. "governo ombra" dei dieci migliori album del "Nuovo Metal".
Ecco quindi i nostri 10 secondi migliori album delle cult band anni
novanta!
1990 - TROUBLE: “S/T”
Partiamo col rendere omaggio a uno
dei generi classici più nobili del metallo: il doom. Mi ero chiesto: ha senso
parlare di “contaminazione” e “anni novanta” e poi trattare una band doom? Se
inizialmente la risposta era stata negativa, ripensando alla discografia dei
Trouble ho deciso che anche il doom andasse “rappresentato” nel nostro elenco. E
lo facciamo inserendo l’omonimo album della band statunitense. Al contrario dei
colleghi Candlemass e Saint Vitus, i Trouble non riuscirono mai ad ottenere un
successo congruo alle loro qualità. Questo loro omonimo quarto platter,
prodotto addirittura da Rick Rubin, è un concentrato di sano doom sabbathiano, di
matrice seventies certamente, ma con chiari riferimenti all’attualità del
metallo (allo Stoner in particolare di cui furono indiscussi padrini). Un disco
che si caratterizza sia per l’ugola dell’istrionico singer Eric Wagner (capace
di modulare la voce su diversi registri e dare un’impronta immediatamente
riconoscibile al tutto) che per un songwriting di altissima qualità.
Stupidamente
definiti agli inizi della loro carriera una band “white metal”, i Trouble sono
la dimostrazione di come si possa suonare ancora negli anni novanta doom
cazzuto, lontano dal plagiare i riferimenti storici del genere, e al passo coi
tempi. Basterebbe la sensazionale opener “At the end of my daze” per mettere in
chiaro la cosa.
Classicità…moderna!
1991 - MELVINS: “BULLHEAD”
Li avevamo già fugacemente
trattati, in maniera alquanto scherzosa. Ma ora facciamo sul serio, con uno dei
dischi più influenti degli anni novanta. Eravamo in piena esplosione grunge e
alcune dichiarazioni di Kurt Cobain gettarono le luci della ribalta sull’allora
ventisettenne Roger Osborne, alias King Buzzo, e ai suoi Melvins. Nella loro
sterminata discografia, scegliamo “Bullhead” perché da allora nulla fu come
prima per la band di Aberdeen (guardacaso proprio la città natale di Cobain).
Rispetto al passato, caratterizzato da composizioni velocissime, i tempi si
allungano e le atmosfere diventano pesanti come macigni. Certo, rimangono
ancora schegge impazzite di due/tre minuti (“Anaconda”, “It’s shoved”) ma l’opener
“Boris”, che diventerà un cavallo di battaglia anche in sede live, dimostrerà
con i suoi 8 minuti e passa come la band stesse crescendo esponenzialmente,
credendo nei propri mezzi, compositivi e tecnici, mettendo a segno uno degli
album più “pesanti” del decennio.
1992 - MALEVOLENT CREATION: “RETRIBUTION”
Ho evitato di inserire cult band
death metal tout court perché la nostra Rassegna sul XXV anniversario dell'anno d'oro del genere ne aveva
già identificato i gruppi chiave e i dischi seminali.
Però sono un inguaribile
romanticone e mi è spiaciuto che proprio da quell’elenco rimanessero fuori i Malevolent Creation (seppur citati nella nostra Anteprima). Se già il 1991, appunto l’anno aureo
del genere, li aveva portati alla ribalta con lo splendido “The Ten Commandments”,
l’anno successivo la Creatura Malevola bissa il successo con un disco ancora
più estremo, ancora più brutale. 34 minuti di devastante death, ma rispetto al
debutto, più personali, più “misurati”, capaci di mettere in mostra l’immensa
tecnica del combo statunitense. Rallentamenti malsani fanno tirare il fiato nel
maelstrom avvolgente creato dalle chitarre chirurgiche di Phil Fasciana e Rob
Barrett. Da sottolineare la grandissima espressività della voce di Brett
Hoffmann, tra le migliori del genere.
Come per TTC, anche “Retribution” pecca
un po’ nella varietà tra i diversi pezzi. Ma questo difetto, peraltro
facilmente riscontrabile in un genere con strettissimi margini di manovra, è
largamente compensato dal carisma e dallo spirito autentico di una band che ha
fatto la Storia del Death floridiano.
1993 - SADIST: “ABOVE THE LIGHT”
Mamma mia che capolavoro immane.
Difficile condensare in poche parole un album che per essere sviscerato
meriterebbe un libro intero. Dopo l’evocativa intro “Nadir”, da “Breathin’
Cancer” alla conclusiva “Happiness ‘n’ sorrow” non possiamo che riscontrare 40 minuti di continue
trovate geniali, in cui gli stilemi death sono in realtà una base usata a
pretesto su cui convogliare le mille idee di Tommy Talamanca, capace di far
duettare in modo sempre equilibrato e originale tastiere e chitarra, mischiando
registri classici e moderni e passando da partiture morbide ed eteree a
sfuriate devastanti. I pezzi sono sinuosi (fenomenale il lavoro dietro alle
pelli di Peso), mai banali, spiazzanti senza essere forzatamente cervellotici.
Forse
a tratti acerbi, i Sadist del debut mettono però in campo intuizioni, coraggio,
tecnica e sentimento. E per chi scrive, risultano anche molto più accessibili
all’"ascoltatore medio" rispetto ai capolavori del periodo rilasciati dai "colleghi" Atheist,
Pestilence e Cynic.
Ingiustamente oscurati da questa triade all’estero, e
probabilmente dal relativo successo degli Extrema in Italia (che in quell’anno
rilasciavano il buonissimo debut “Tension at the seams”), i Sadist
rappresentano il più bell’esempio metallico italiano di questa prima metà
novantiana, sorpassando nel genere anche i maestri Nocturnus.
1994 – NOVEMBRE: “WISH
I COULD DREAM IT AGAIN…”
Da una band italiana all’altra. La
creatura dei fratelli Orlando è stata spesso accomunata dalla critica a Opeth e
Katatonia, ma a mio modo di vedere i Nostri ne sono piuttosto lontani. Non
basta infatti aver avuto lo stesso produttore (il grande Dan Swano che, caso
vuole, proprio in quell’anno deflagrava con i suoi Edge of Sanity pubblicando
lo splendido “Purgatory Afterglow”) ed essere “etichettati” progressive death come le due superband svedesi.
I Novembre sono qualcosa di diverso. E probabilmente qualcosa di più.
Per descrivere quello che
è stato il loro debut non posso che riutilizzare le parole che Metal Mirror, nei post a loro dedicati, ha già usato:
“Whish I Could Dream It Again..." è una sorta di concept onirico che procedeva per immagini piuttosto che
lungo il filo di una narrazione vera e propria. Come nello stato di
dormiveglia, dove le sensazioni, le voci, le immagini si confondono, anche il
primo full-lenght dei Novembre vive in una dimensione al di fuori dello spazio
e del tempo: un luogo “altro” in cui
solo le emozioni più vere prendono il sopravvento. Un impianto suggestivo
che richiama l’immaginario mediterraneo…
Impossibile dirlo meglio di così (e
fatevelo dire da una persona che è cresciuta in riva alle paradisiache spiagge
del nostro mar Jonio). La barca
scrostata dal salino in secca su una spiaggia deserta che vediamo in copertina è quanto di più potente
possa esprimere tutto quell’insieme di sensazioni interiori e dolorosi
sentimenti che il platter veicola. E anche quelli che sembrerebbero punti
deboli (produzione, voce di Carmelo, continui passaggi dall’elettrico
all’acustico, destrutturazione del formato-canzone) diventano forza e
originalità in un quadro complessivo che sacrifica la struttura metal per
prediligere la comunicazione delle emozioni.
Un'efferata carezza...
Un'efferata carezza...