Gli Slayer da tempo ormai incentrano le loro liriche sulle varie forme di violenza e sul linguaggio della violenza, secondo una tesi anti-rousseauiana che alla radice della natura umana ci sia un cervello “cattivo”, per il quale l'espressione violenta è il piano primo e più puro, non in senso morale ma biologico. Per questo gli Slayer scelgono alcuni contesti antropologici evoluti, in cui la violenza ha apparentemente un senso definito, e tramite il parossismo violento recuperano invece il punto di vista della violenza come radice, cifra e spinta di fondo, che è poi strumentalizzata per scopi od ornata di significati, ma che sostanzialmente “deve” emergere.
La violenza, ben inteso,
non è da intendersi solo in senso distruttivo, e la tesi slayeriana
pare anzi quella per cui la carica distruttiva è solo una delle
potenzialità della violenza primigenia, che è invece un istinto
creativo, di generazione oltre che di scontro e distruzione.
Negli anni 80 Araya era solito portare una t-shirt con la scritta “Sex - Murder - Art”. Questo sibillino motto è da noi interpretato come l'allineamento di tre espressioni fondamentali della natura. Se già vi siete spaventati per l'accostamento del sesso e dell'omicidio, siete fuori strada. King, fine antropologo, non si compiace di una esaltazione della violenza e della sua estetica (siamo sicuri?), ma risale all'origine dell'istintualità, che è il minimo comune denominatore del desiderio sessuale, dell'aggressività difensiva o predatoria, e della creazione. L'uomo è colui che, anche tolta la necessità e la consequenzialità automatica, tende al sesso, alla violenza, alla rappresentazione individuale di sé e del mondo. Ragion per cui concepirlo come un essere fondamentalmente “buono” sarebbe come pretendere di scorporare la base istintuale comune. Anni dopo gli Slayer scriveranno un brano col titolo “Sex Murder Art”, il cui testo a dir la verità si limita semplicemente a descrivere l'animo di un sadico sessuale, alimentando il dubbio precedente sulla profondità di King.
Negli anni 80 Araya era solito portare una t-shirt con la scritta “Sex - Murder - Art”. Questo sibillino motto è da noi interpretato come l'allineamento di tre espressioni fondamentali della natura. Se già vi siete spaventati per l'accostamento del sesso e dell'omicidio, siete fuori strada. King, fine antropologo, non si compiace di una esaltazione della violenza e della sua estetica (siamo sicuri?), ma risale all'origine dell'istintualità, che è il minimo comune denominatore del desiderio sessuale, dell'aggressività difensiva o predatoria, e della creazione. L'uomo è colui che, anche tolta la necessità e la consequenzialità automatica, tende al sesso, alla violenza, alla rappresentazione individuale di sé e del mondo. Ragion per cui concepirlo come un essere fondamentalmente “buono” sarebbe come pretendere di scorporare la base istintuale comune. Anni dopo gli Slayer scriveranno un brano col titolo “Sex Murder Art”, il cui testo a dir la verità si limita semplicemente a descrivere l'animo di un sadico sessuale, alimentando il dubbio precedente sulla profondità di King.
Ma non facciamoci ingannare: il trecciabarbuto è un pensatore di spessore, quindi non
rinunciamo a scavare. Anche perché, nel frattempo, gli Slayer si
regalano una trilogia video che aiuta a definire la loro teoria della
violenza. I tre video, in ordine di uscita, sono quelli di
"Repentless", apripista dell'ultimo album, poi "You against you" e infine "Pride in Prejudice". In ordine cronologico rispetto alla sequenza
degli eventi narrati invece l'ordine è 2-1-3, quindi i due ultimi
video sono rispettivamente antefatto e sviluppo di quello di "Repentless".
La storia, per quanto
rimanga ellittica, presumo sia la seguente: un'organizzazione deve far
fuori un tipo che probabilmente aveva qualcosa a che fare con loro, e
che forse volevano uccidere insieme alla moglie incinta; lui
reagisce e li fa fuori quasi tutti. Va in carcere dove compie una
seconda strage di altri affiliati, che altrimenti gli avrebbero fatto
la pelle. Dopo aver decapitato il leader del braccio riceve
l'approvazione degli altri detenuti, da lui stesso coinvolti in
quella che inizialmente sembrava una rivolta carceraria e diviene poi
uno scontro tra bande. L'organizzazione viene a sapere dei fatti e,
non potendolo più punire dentro il carcere, lo fa prelevare dai
poliziotti insieme al detenuto suo alleato. Non è chiaro se per
sadismo o anzi per salvarlo, ma con un atto di sottomissione al
vertice della banda, gli chiedono di uccidere l'altro carcerato, che
è messicano. Lui si rifiuta e coglie l'occasione per contrattaccare,
lasciando al messicano anzi, in segno di disprezzo e di fondamentale
estraneità, il compito di uccidere il capo. Non riesce a impedire
che gli uccidano la moglie, ma è un uomo libero.
La storia personalmente
mi ricorda, per ambientazione e riferimenti, quella di un
pluriomicida e pentito della gang carceraria Fratellanza Ariana,
tale Michael Thompson. Costui divenne prima uno dei capi della banda,
formata inizialmente per esigenze di autodifesa e di tutela contro
soprusi di guardie e altri gruppi di carcerati neri, ispanici etc.
Dopo esserne stato uno degli esponenti di punta, si rifiutò la
pratica delle vendette contro i familiari dei membri. Per questo, e
per un graduale disincanto sulla reale natura della gang, sempre più
dedita a far soldi che non ad altro, divenne un pentito e finì sulla
lista nera della sua stessa gang. La Fratellanza Ariana è nota per
essere la gang più cruenta e determinata, tanto che il boss mafioso
John Gotti ne chiese la protezione una volta finito in carcere. Thompson si allena ogni giorno nella cella, conscio di
dover ancora coltivare la sua violenza per proteggersi dalle
ritorsioni.
Una storia di violenza in
cui il carcere amplifica il potenziale violento degli uomini,
addirittura lo organizza in forme che, proprio grazie alla
segregazione, non potrebbero essere più cieche e brutali. Per
sfuggire alla violenza, occorre ancora più violenza. E per uscirne
occorre essere preparati a usarne ancora di più per difendersi.
Il secondo parallelo è
con il fim “A history of violence” di David Cronenberg, in cui un
mite padre di famiglia di un paese della provincia americana è
rintracciato da suoi vecchi compagni di crimine, che, per conto del
fratello vogliono ricordargli i suoi conti da pagare. Il nostro uomo
prima cerca di fingere che abbiano sbagliato persona, come sembra
ovvio. Poi deve reagire e svelare la sua prontezza alla violenza per
difendere sé stesso e la famiglia. Quando però lo fa, e trasmette
anche al figlio questo insegnamento a farsi giustizia con le proprie
forze, la società lo respinge e lo rinnega.
La stessa società che
non ti difende è quindi pronta a rinnegarti se lo fai da solo, per
un cieco e ipocrita culto della natura non-violenta dell'uomo e della
sostenibilità di una società pacifica e di buoni sentimenti.
Il terzo parallelo è con
i cartoni animati giapponesi, in cui il tema dell'inevitabile prezzo
di violenza da pagare è un topos. Prendete l'Uomo Tigre. Rimasto
orfano, è educato alla lotta professionistica da un'organizzazione
che utilizza metodi di tortura e selezione violenta dei più forti, e
li educa ad una lotta senza regole. Il nostro eroe però vuole essere
un lottatore corretto e libero, e si rifiuta di versare la quota
delle sue vittorie all'organizzazione, che lo perseguita e cerca di
ucciderlo. Alla fine, per riuscire a sopravvivere ai lottatori-sicari
mandati per ucciderlo sul ring, il nostro dovrà utilizzare le
tecniche cruente e proibite che aveva appreso. Così vince anche il
capo dei nemici, ma se ne va tra i fischi del pubblico.
La società, dopo averlo abbandonato, non lo difende, ma lo rinnega quando lo fa da solo, perché la violenza individuale non può essere accettata. Un destino di violenza, ineluttabile. Una “necessità” preordinata da cui non si sfugge.
La società, dopo averlo abbandonato, non lo difende, ma lo rinnega quando lo fa da solo, perché la violenza individuale non può essere accettata. Un destino di violenza, ineluttabile. Una “necessità” preordinata da cui non si sfugge.
Nella visione buonista,
anche di soggetti che scelgono la via della violenza, l'idea di fondo
è che il fine giustifica i mezzi, se il fine è umanitario. Nella
visione cattivista, invece, anche l'amore è una delle espressioni
dell'odio primitivo, che quindi non va demonizzato. Non va evitato,
ma modellato.
Evitare la violenza
significa morire. Il carcere sta dalla parte dei violenti. Per questo
la violenza dentro il carcere si amplifica, mentre le istituzioni si
adeguano. La libertà, relativa, dalla violenza accade solo pagando
comunque un prezzo (la vendetta o le ferite che il nemico ti può
infliggere) e richiede che lo scontro finale non sia evitato, ma
accelerato.
Molti hanno visto inoltre
visto nell'identificazione dei cattivi con i nazisti un chiarimento
finale sulla posizione degli Slayer rispetto al nazismo, dopo i dubbi
suscitati all'epoca da "Angel of Death". Su questo secondo il
chiarimento è mancato. Il nostro eroe non dovrebbe essere un ex
“white power” considerando che la moglie sembra di pelle scura,
ma va anche detto che le organizzazioni neonaziste in America hanno
tutt'altro che le idee chiare. Il capo della Fratellanza Ariana, per
esempio, è un tizio che ha tatuato su un braccio la svastica, e
sull'altro la stella di David, in quanto è di origini ebraiche. Si
ipotizza quindi che il bendato fosse un ex membro che però si è
innamorato di una ragazza di colore e da lei ha avuto un bambino.
Questo gli ha messo contro gli ex fratelli, e per difendere il valore
primo e ultimo, cioè la sua identità di uomo, marito e padre, ha
dovuto sbudellarli tutti.
Una scena poi mi ha fatto tornare in mente un episodio carcerario italiano, quella in cui Danny Trejo schiaccia coi pollici i bulbi oculari dentro le orbite di un carcerato durante la rissa. Fece questo un ex terrorista nero, Concutelli, ai danni di un nazista (Buzzi), dopo averlo strangolato insieme ad un altro detenuto, per eliminare un elemento ritenuto confidente della polizia e pederasta, nonché sospetto di aver provocato la strage di Brescia. Intervistato in tempi recenti, Concutelli descrisse così la sua visione della violenza: pensare di imporre agli altri il proprio pensiero con un omicidio è una cosa da stronzi presuntuosi, oltre che da ingenui. A livello individuale però, chi lotta in nome di sé stesso e di un ideale può trovarsi a dover scegliere di usare, per coerenza, la violenza. Chi dall'altra parte cerca di contenerlo ne utilizza un'altra, mediata dallo Stato. Si può essere criminali in quanto assassini, ma chi era pronto a farti fuori in nome dello Stato rimane un boia. Assassini contro boia. Come dire, si può scegliere di lottare ad alto tasso di violenza individuale, e allora si è assassini, o farsi forti del potere che gli altri ti concedono, e allora si è boia.
Una scena poi mi ha fatto tornare in mente un episodio carcerario italiano, quella in cui Danny Trejo schiaccia coi pollici i bulbi oculari dentro le orbite di un carcerato durante la rissa. Fece questo un ex terrorista nero, Concutelli, ai danni di un nazista (Buzzi), dopo averlo strangolato insieme ad un altro detenuto, per eliminare un elemento ritenuto confidente della polizia e pederasta, nonché sospetto di aver provocato la strage di Brescia. Intervistato in tempi recenti, Concutelli descrisse così la sua visione della violenza: pensare di imporre agli altri il proprio pensiero con un omicidio è una cosa da stronzi presuntuosi, oltre che da ingenui. A livello individuale però, chi lotta in nome di sé stesso e di un ideale può trovarsi a dover scegliere di usare, per coerenza, la violenza. Chi dall'altra parte cerca di contenerlo ne utilizza un'altra, mediata dallo Stato. Si può essere criminali in quanto assassini, ma chi era pronto a farti fuori in nome dello Stato rimane un boia. Assassini contro boia. Come dire, si può scegliere di lottare ad alto tasso di violenza individuale, e allora si è assassini, o farsi forti del potere che gli altri ti concedono, e allora si è boia.
Ma sempre tra due vie
violente si sceglie, senza poter sfuggire a questa cifra
antropologica fondamentale.
Con questa sintesi si
riassume secondo me il pensiero di King, a cui spero finalmente si
riconosca la giusta statura intellettuale.
A cura del Dottore
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