19 set 2016

QUALE FUTURO PER IL METAL DAL VIVO?


Una serata a casa di gente, questa volta il padrone di casa si professa blues-rocker e la colonna sonora della serata tiene fede a tale appellativo. Sullo schermo di un computer, evocate da YouTube, scorrono le immagini di un concerto degli anni settanta dei Lynyrd Skynyrd e succedono cose che mai mi sarei aspettato: jam torrenziali, chitarre elettriche cavalcanti, batteria battente, riff selvaggi, assoli trascinanti. I Lynyrd Skynyrd?? I paladini del southern rock che fanno quel baccano???

I Lynyrd Skynyrd sono uno dei pochi gruppi rock storici che non ho mai degnato di un ascolto. Forse perché non sono mai riuscito a capire il nome della band: non solo a pronunciarlo, ma proprio a visualizzarlo nella mia mente. Come poter approfondire una qualsiasi cosa se non si sa nemmeno cosa digitare su Google?

Mi ero dunque fatto un'idea sbagliata sul loro conto: non so perché me li figuravo country rock, ed invece il rock dei Lynyrd Skynyrd (finalmente so come si scrive e pronuncia!) è energico, potente, fottutamente duro. È con il trascorrere dei minuti che mi sono convinto che i Nostri sono stati una grande band (scusate il ritardo): per la forza d'urto della loro musica, che, pur calzando vesti rock, conservava nelle infuocate esibizioni live il furore elettrico delle jam selvagge dei bluesman di un tempo.

Qualcuno cambia video e sullo schermo del computer appare la ghigna invasata di Jimi Hendrix. Questa la conosco! È la celebre "Voodoo Child (Slight Return)", ma la versione live, dilatata all'inverosimile, mi lascia sbalordito. Non solo il Nostro maneggia lo strumento come se fosse un prolungamento del suo stesso corpo, ma anche il resto della band ci dà dentro alla grande, fornendo un supporto ritmico micidiale che passa dal jazz al rock duro come se niente fosse, senza schemi, senza limiti, seguendo solo quella che pare essere l'ispirazione del momento. E che ispirazione: sul palco succede di tutto ed un brano di cinque minuti passa ai quattordici senza che vi sia un momento di debolezza. Anzi, pare che il brano trovi la sua piena realizzazione dal vivo, che proprio sul palco esso inizi a respirare a pieni polmoni.

La stessa identica cosa può essere detta per gli amici Lynyrd Skynyrd di poco fa: se si va ad ascoltare "Second Helping" (1974, quello che pare essere indiscutibilmente il loro capolavoro, anche se - lasciatemelo dire - "Sweet Home Alabama" non si può più sentire!) si ha l'impressione che i pezzi (sicuramente formidabili) siano ingessati e non abbiano la stessa forza d'urto che hanno quando si materializzano in sede di concerto.

Sullo schermo del pc compaiono nel frattempo i Led Zeppelin e con loro ho la conferma definitiva che la vera dimensione del rock è quella concertistica e che lo studio sia solo un paio di scarpe scomode in quanto troppo strette. Qualcuno ha messo "Whole Lotta Love", scelta scontata ma sempre gradita. Si parla di un brano leggendario che certo non abbisogna di presentazioni. Quello che in questa sede possiamo aggiungere è che il meglio di questo brano si ha proprio quando Robert Plant si allontana dal microfono per aggirarsi come un ganzo della notte per il palco, lasciando così la scena al resto della band. Che i Led Zeppelin siano stati dei musicisti prodigiosi non l'ho scoperto certo l'altra sera: quello che semmai mi ha sorpreso è stato il lungo intermezzo in cui Jimmy Page ha mano libera e insiste con tale violenza ed ossessività sulle corde della sua chitarra da tramutare il pezzo in un saggio thrash metal ante litteram.

Si torna dunque al discorso di prima: dal vivo questi brani acquisiscono nuova vita, una vita più selvaggia che spesso va inevitabilmente ad oscurare le versioni originali. Si parla di musicisti mostruosi, la cui tecnica di svela completamente sotto i fumi dell'improvvisazione. Con l'improvvisazione è come se questi brani ogni volta rinascessero ed acquistassero una seconda, terza, quarta vita. La versione da studio è forse solo una delle tante versioni possibili, e probabilmente nemmeno la migliore, dato che il musicista in quell'occasione, seduto in studio, con le cuffie in testa e il tecnico che gli fa dei segni al di là della parete di vetro, magari si è anche annoiato. Quando invece dal vivo, galvanizzato dal pubblico, dalle droghe assunte e dalla sinergia instaurata con i colleghi, sicuramente agisce con maggiore convinzione ed entusiasmo. In più mettiamoci che spesso il mixer non riesce a catturare tutte le vibrazioni vitali del suono, soprattutto se si parla di un'epoca in cui la tecnologia non permetteva di fare cose grandiose in studio, un'epoca in cui veri capisaldi venivano registrati alla meno peggio in pochi giorni.

Fare un salto di trenta anni e ritrovarsi in un concerto "tutto coreografie e playback" di Britney Spears, per un intenditore di musica, può essere traumatico. Ma non c'è bisogno di simili eccessi per comprendere come sia cambiato il mondo della musica da quei gloriosi tempi. Il fatto è che le tecniche di incisione si sono evolute, si fa dello studio di registrazione un uso più creativo e in quelle quattro mura finisce che si combinano cose che poi è difficile ripetere all'esterno.

Il metal, che è un genere che storicamente nasce in cantina e che poi si è trovato decisamente a suo agio nella dimensione live (che si tratti di piccoli club, palazzetti o interi stadi), dovrebbe in teoria appartenere alla categoria appena enunciata di Lynyrd Skynyrd, Hendrix e Led Zeppelin.

Ascoltando un album epocale come "Live After Dead", parrebbe di sì. Iron Maiden, Saxon, Motorhead, Judas Priest (fiacchissime le produzioni dei loro primi album: per sentire delle versioni decenti dei loro classici dovremo andare ad ascoltare il superbo live "Unleashed in the East"), e poi i Metallica dei tempi d'oro, gli Slayer ancora oggi, persino il piccolo Udo: chi in generale appartiene alla "Vecchia Scuola" dimostra di muoversi con disinvoltura non solo in studio, ma anche sul palco. Complici sicuramente un modus operandi più "live" anche in sede di incisione (in un'epoca in cui il metallo non conosceva ancora le mega-produzioni) e un'attitudine più anthemica (per intendersi: il ritornello efficace, facilmente memorizzabile, e dunque cantabile, che affratella tutti quanti nella dimensione concertistica).

Basta tuttavia spostarsi in avanti di mezza generazione e lo scenario cambia completamente. Se ripenso agli svariati concerti a cui ho assistito in vita mia, molte sono state le esperienze deludenti: suoni confusi, cantanti svociati, musicisti ingessati, una fatica enorme a cercare di evocare almeno mezzo fantasma di quello che era stato fatto in studio.

In particolare conservo cattivi ricordi sulle esibizioni dei Cradle of Filth, ma i vampiri d'Albione possono avere come scusante il fatto che propongono una musica talmente veloce, elaborata, stratificata e così poco anthemica, che sfido chiunque a riproporla dal vivo senza sbavature. E' questo un caso estremo, ma se anche prendiamo i paladini del power (musicisti spesso molto dotati che suonano una musica lineare e con ritornelli plateali che dovrebbero rendere molto bene dal vivo) non è che le cose migliorino. E parliamo non di audaci sperimentatori, ma di coloro che più di tutti gli altri si sono promossi come portatori della sacra fiamma del metal classico: un passaggio di staffetta che può lasciar adito a più di una perplessità, almeno per quanto riguarda il tema di cui stiamo dibattendo.

Riferendomi a concerti visti più di dieci anni fa, possiamo sostenere che i Gamma Ray, confusionari come non mai e con un Kay Hansen senza voce, sono sinceramente imbarazzanti, nonostante i classici (compresi quelli degli Helloween) a loro disposizione. Gli stessi Helloween, ma quelli con Andi Deris, non se la cavano troppo meglio: della loro esibizioni ricordo solo i suoni impastati, la faccia da schiaffi di Weikath e la voce insopportabilmente riverberata di Deris. Velo pietoso sugli Stratovarius: quello che ho visto sarà stato anche uno degli ultimi concerti con Tolkki (la band era visibilmente poco affiatata e priva dell'alchimia vincente di un tempo), ma le persone che erano sul palco sembravano burocrati della pubblica amministrazione l'ultimo giorno di lavoro prima delle vacanze estive: dire che non c'era sentimento e che tutto non andava oltre lo svogliato svolgimento del compitino è un eufemismo. I Blind Guardian, dei quattro nomi citati, sono forse quelli più dignitosi: essi si muovono sul palco in modo professionale, ma i brani non hanno la stessa magia che su disco, e certo non potremo mai affermare che Kursch, con le sue movenze da orso impacciato, sia un animale da palcoscenico.

Per molte altre band dedite a questo genere (Edguy, Hammerfall, Rhapsody (of Fire) ecc.) il risultato è il medesimo: dal vivo i pezzi rendono infinitamente peggio che su disco e si finisce per esultare quando non si verificano particolari disastri. Ne è una prova la scorsa edizione del Gods of Metal, dove ci siamo ritrovati a fischiare o ad applaudire vecchi leoni del metallo (pessimi i Gamma Ray, già meglio i Megadeth, quest'ultimi dignitosi a questo giro, ma inguardabili in altre circostanze) e ad assistere al trionfo scenico dei Rammstein: un trionfo che però si è basato più sui fuochi d'artificio che sulle note.

Non voglio ripercorrere la lunga carrellata di delusioni concertistiche della mia vita, ma sinceramente ho collezionato più esperienze negative che positive, anche laddove si parla di formazioni superlative e viste nel loro momento migliore (Nevermore, Opeth, Meshuggah ecc.). Tutte queste band, intimorite forse dalle superbe opere confezionate in studio, non riuscivano a far altro che restituirci delle fotografie sbiadite dei pezzi originali. Persino gli show impeccabili (LaBrie permettendo) dei Dream Theater, nonostante l'innegabile perizia tecnica, mi sono, nella loro prevedibilità, sembrati a tratti noiosi.

Ok, lo possiamo ammettere: il metal non ama la jam, la variazione imprevista, il "fuori scaletta". Anche per le band che prevedono regolarmente il momento dell'improvvisazione, specialmente nel progressive, quel momento è talmente calcolato da risultare ancora più freddo della riproposizione di un brano già edito. Si pensi agli spazi che si ritagliano Petrucci e Rudess negli show dei Dream Theater: protagonismi che sembrano studiati a tavolino fino all'ultima nota (probabilmente non altro che pause per far riprendere LaBrie).

Pratiche comuni (che per il sottoscritto sono divenute prevedibili quanto noiosi cliché) sono infine quella di allungare il finale di una canzone ripetendo il ritornello ad infinitum (magari facendolo cantare al pubblico) e quella di inserire il proverbiale intermezzo a base di cassa incalzante per far battere le mani agli spettatori.

Quindi il metal parrebbe condannato a muoversi fra una onesta professionalità esecutiva e la merda fumante di band che non sono palesemente in grado di ricreare quello che erano riuscite a riversare su disco: in questo secondo estremo, al netto di orchestre, cori e quello che volete, i brani che si materializzano sul palco, lungi dall'essere superiori alle versioni da studio (come capitava negli esempi fatti all'inizio), risultano spesso privi di mordente e scialbe copie di quelli che conosciamo. Un paradosso se si pensa che le proposte semplici di band tecnicamente basiche (si veda l'esempio dei Sodom) rendono decisamente meglio di quelle elaborate di musicisti immensamente più dotati.

Mi sono dunque dato una risposta: il metal è un genere idealista in cui le band incidono per l'album quella che si ritiene essere la migliore versione possibile di un brano e che dunque, per il resto della loro vita, riproporranno dal vivo quella versione, cercando il più possibile di approssimarsi all'originale. Con risultati alterni. Niente paura: i concerti andranno avanti per sempre, ma per necessità economiche, considerata la "crisi del disco". Il metal continuerà dunque ad incarnare la sua dimensione live, anche se, a sentire i protagonisti, l'attività concertistica, i lunghi e sfiancanti tour sono visti sempre di più di come una seccatura da dover svolgere per sopravvivere. E questo non gioverà certo alla resa di queste band sul palco...