1 ott 2016

RECENSIONE: VEKTOR, "TERMINAL REDUX"



Proprio qualche giorno fa ci stavamo chiedendo se il thrash metal fosse vivo o morto (o X, citando tristemente una canzone di Ligabue). Abbiamo spaziato per venticinque anni di storia del metal e per ben tre continenti, concludendo le nostre riflessioni in modo amaro con gli australiani Meshiaak. Ma, dopo tutti questi affanni e tutte queste ricerche, scopriamo oggi che ci eravamo scoraggiati prima di svoltare l'ultimo angolo: quello decisivo. Non avevamo contemplato i Vektor, che del thrash forniscono una spiegazione interessante.

Giunti in questo 2016 alla terza prova in studio, "Terminal Redux", i Nostri solidificano la loro presenza nell'immaginario del technical-thrash metal recente e lo fanno con un album lungo, tortuoso e con qualche piccola novità che va ad insaporire la loro miscela a base di thrash e prog in salsa spaziale.

Chiariamo subito una cosa: i Voivod, che pure sono citati dalla band come influenza fondamentale, non sono una presenza così ingombrante nella loro musica, come del resto suggerirebbe il logo che richiama palesemente quello dei canadesi. È vero: thrash + spazio = Voivod è un'equivalenza che si insegna fin dalla seconda elementare, ma il thrash spigoloso e chirurgico dei quattro dell'Arizona ha un taglio più pragmatico e raramente indugia nella ricerca sonora (sopratutto a livello di effetti, delay, volumi, riverberi, distorsioni e dissonanze) che caratterizza le opere di Piggy e soci, guardando semmai ad altri orizzonti metallici: l'assalto frontale è degno delle band più cattive del thrash, such as Destruction e Slayer; si ha un'epicità narrativa di fondo che a molti ha ricordato il power-metal; il tutto poi viene risciacquato sotto una cascata di note che richiama indubbiamente le architetture elaborate (seppur epurate dalle influenze della musica classica) dei mai dimenticati Mekong Delta.

A rendere la proposta ulteriormente interessante è il fatto che il confine con generi estremi come il death e il black è molto labile, tanto che ci imbatteremo in blast-beat, in melodie struggenti che unite alla velocità faranno venire in mente le band scandinave, e in sfumature che evocano i Pestilence più evoluti (quelli di "Testimony of the Ancients" e "Spheres"), ovviamente i Nocturnus (per le tematiche spaziali), ma soprattutto i Death del divino Chuck (in particolare quelli di "The Sound of Perseverance", un territorio non ancora del tutto esplorato - tanto che potremmo definirlo quasi un genere a sé stante, ancora da definire nei suoi stilemi).

Il fantasma dell’ultimo Schuldiner si materializza soprattutto nella voce di David DiSanto (pure chitarrista, come accadeva nella miglior tradizione del technical thrash metal, dove chi cantava non se ne stava con le mani in mano). Eccoci dunque al pomo della discordia: in molti lo criticano in quanto la sua voce stridula e monocorde cozza con i barocchismi e il dinamismo di cui si fregia la musica messa insieme dalla band. Eppure a nostro avviso anche questo fattore è un punto a favore per i Vektor in quanto costituisce un elemento distintivo sfoggiato con orgoglio e che si riallaccia al thrash dei tempi d'oro, dove un Araya o un Mustaine, pur non essendo dei cantanti, riuscivano a fare la storia del genere, il primo urlando come un tarantolato, il secondo con la sua ugola al vetriolo.

I riferimenti, come visto, ricadono principalmente nel bacino della Vecchia Scuola, ed anche questo è un motivo per cui i Vektor ci piacciono. Finalmente possiamo riascoltare del thrash senza un cantato à la Phil Anselmo, senza groove, senza suoni patinati, senza tribalismi o una doppia-cassa triggerata sparata dall'inizio alla fine di una canzone. E ciò senza che gli artefici di questa musica siano necessariamente delle copie sbiadite di quanto accadeva nei gloriosi anni ottanta. A segnare la distanza dai classici vi è una visione artistica più ampia facilitata dagli esperimenti e dagli incroci di sonorità che sono stati compiuti dagli anni novanta in poi: oltre ai già citati spunti black e death intelligente (che si portano dietro pure un po' di jazz), rileviamo con un gran sorriso attitudini neo-progressive (certi passaggi sono palesemente Opeth, non quelli di oggi, ma quelli di “Still Life”!) e psichedelia pinkfloydiana (con tanto di semi-ballad, "Collapse", con voce pulita nella prima parte a ricordare Tiamat e Hypocrisy nelle loro opere della maturità).

L'impiego (insolito in contesti di questo tipo) della voce femminile (si veda il finale dell'opener "Charging the Void", nove minuti, e l'intermezzo della conclusiva "Recharging the Void", tredici minuti), rende ancora più intrigante la proposta del quartetto americano, che nei settantatre minuti di "Terminal Redux", senza inventare nulla e senza sconvolgere la formula dei due buone prove precedenti, effettua una sintesi prodigiosa di trenta anni di thrash metal, ampliando con intelligenza gli orizzonti del genere.

Non ci importa se siamo di fronte al "Dimension Hatross", al "Mental Vortex", al "Countdown to Extinction" del nuovo millennio: quello che ci piace dei Vektor è che sanno rimodellare la materia thrash senza rinnegare lo spirito originario del genere. Uno spirito che è anche farraginoso, faticoso per l'ascoltatore, pari pari come il metal era prima dell'avvento del groove-metal, del nu-metal e del metalcore, che hanno eliminato le cose più noiose del metal, rendendolo scorrevole ed avvincente. I Vektor, invece, con i loro riff vorticosi sempre sull'orlo di tramutarsi in assolo, con le ritmiche niente affatto regolari, con i ritornelli per niente anthemici e la vociaccia sgraziata di DiSanto (con tanto di capellaccio riccio unto sugli occhi) ci riportano ad una concezione di metal a noi cara, dove bisognava soffrire per trovare appagamento. Con la sua durata di quasi un'ora ed un quarto, con i suoi pezzi di dieci minuti e passa, i Nostri fanno faticare l'ascoltatore, pur sfoderando dei numeri di prestigio che potrebbero stregare anche l'ascoltatore più distratto e superficiale.

Mentre esultiamo gridando "il thrash non è morto!", ci rendiamo però conto del perché i Nostri non avranno mai successo, né potranno costituire un momento di snodo importante del metal dei giorni nostri: non sono portatori di una formula semplice ed intellegibile, ma soprattutto sono faticosi. Laddove le rivoluzioni le hanno fatte le idee semplici e geniali, il metal cerebrale e legnoso dei Vektor è un qualcosa di troppo complicato e stucchevole per i palati di oggi, soprattutto di chi ama fruir della musica nella modalità “mordi e fuggi”. Tutti ne parlano dunque bene, ma nessuno gli vuole bene.

Perchè? Perché nessuno esulta? Perché qualcuno osa persino criticare la voce sublime di DiSanto? Perché infine si parla di composizioni prolisse o di lavoro che non convince appieno? Tutte queste perplessità esposte in rete fra un elogio e l'altro, ci fanno pensare che i Vektor non sono entrati nel cuore dei metalkids né si eleveranno mai al di sopra dei ranghi dell’underground.

Peccato, di qui forse passava la resurrezione del thrash...