Proprio
qualche giorno fa ci stavamo chiedendo se il thrash metal fosse vivo o morto (o X, citando tristemente una canzone di Ligabue). Abbiamo
spaziato per venticinque anni di storia del metal e per ben tre continenti,
concludendo le nostre riflessioni in modo amaro con gli australiani Meshiaak.
Ma, dopo tutti questi affanni e tutte queste ricerche, scopriamo oggi che ci
eravamo scoraggiati prima di svoltare l'ultimo angolo: quello decisivo. Non
avevamo contemplato i Vektor, che del thrash forniscono una spiegazione
interessante.
Giunti
in questo 2016 alla terza prova in studio, "Terminal Redux",
i Nostri solidificano la loro presenza nell'immaginario del technical-thrash
metal recente e lo fanno con un album lungo, tortuoso e con qualche piccola
novità che va ad insaporire la loro miscela a base di thrash e prog in salsa
spaziale.
Chiariamo
subito una cosa: i Voivod, che pure sono citati dalla band come
influenza fondamentale, non sono una presenza così ingombrante nella loro
musica, come del resto suggerirebbe il logo che richiama palesemente
quello dei canadesi. È vero: thrash + spazio = Voivod è
un'equivalenza che si insegna fin dalla seconda elementare, ma il thrash
spigoloso e chirurgico dei quattro dell'Arizona ha un taglio più
pragmatico e raramente indugia nella ricerca sonora (sopratutto a livello di
effetti, delay, volumi, riverberi, distorsioni e dissonanze) che
caratterizza le opere di Piggy e soci, guardando semmai ad altri
orizzonti metallici: l'assalto frontale è degno delle band più cattive del
thrash, such as Destruction e Slayer; si ha un'epicità
narrativa di fondo che a molti ha ricordato il power-metal; il tutto poi
viene risciacquato sotto una cascata di note che richiama indubbiamente le
architetture elaborate (seppur epurate dalle influenze della musica classica)
dei mai dimenticati Mekong Delta.
A
rendere la proposta ulteriormente interessante è il fatto che il confine con
generi estremi come il death e il black è molto labile, tanto che
ci imbatteremo in blast-beat, in melodie struggenti che unite alla
velocità faranno venire in mente le band scandinave, e in sfumature che evocano
i Pestilence più evoluti (quelli di "Testimony of the Ancients"
e "Spheres"), ovviamente i Nocturnus (per le tematiche
spaziali), ma soprattutto i Death del divino Chuck (in
particolare quelli di "The Sound of Perseverance", un
territorio non ancora del tutto esplorato - tanto che potremmo definirlo quasi
un genere a sé stante, ancora da definire nei suoi stilemi).
Il
fantasma dell’ultimo Schuldiner si materializza soprattutto nella voce
di David DiSanto (pure chitarrista, come accadeva nella miglior
tradizione del technical thrash metal, dove chi cantava non se ne stava con le
mani in mano). Eccoci dunque al pomo della discordia: in molti lo criticano in
quanto la sua voce stridula e monocorde cozza con i barocchismi e il dinamismo
di cui si fregia la musica messa insieme dalla band. Eppure a nostro avviso
anche questo fattore è un punto a favore per i Vektor in quanto costituisce un
elemento distintivo sfoggiato con orgoglio e che si riallaccia al thrash dei
tempi d'oro, dove un Araya o un Mustaine, pur non essendo dei
cantanti, riuscivano a fare la storia del genere, il primo urlando come un tarantolato,
il secondo con la sua ugola al vetriolo.
I
riferimenti, come visto, ricadono principalmente nel bacino della Vecchia
Scuola, ed anche questo è un motivo per cui i Vektor ci piacciono.
Finalmente possiamo riascoltare del thrash senza un cantato à la Phil
Anselmo, senza groove, senza suoni patinati, senza tribalismi o una
doppia-cassa triggerata sparata dall'inizio alla fine di una canzone. E
ciò senza che gli artefici di questa musica siano necessariamente delle copie
sbiadite di quanto accadeva nei gloriosi anni ottanta. A segnare la distanza
dai classici vi è una visione artistica più ampia facilitata dagli
esperimenti e dagli incroci di sonorità che sono stati compiuti dagli anni
novanta in poi: oltre ai già citati spunti black e death intelligente (che si
portano dietro pure un po' di jazz), rileviamo con un gran sorriso
attitudini neo-progressive (certi passaggi sono palesemente Opeth,
non quelli di oggi, ma quelli di “Still Life”!) e psichedelia pinkfloydiana
(con tanto di semi-ballad, "Collapse", con voce pulita
nella prima parte a ricordare Tiamat e Hypocrisy nelle loro opere
della maturità).
L'impiego
(insolito in contesti di questo tipo) della voce femminile (si veda il finale
dell'opener "Charging the Void", nove minuti, e
l'intermezzo della conclusiva "Recharging the Void", tredici
minuti), rende ancora più intrigante la proposta del quartetto americano, che
nei settantatre minuti di "Terminal Redux", senza inventare
nulla e senza sconvolgere la formula dei due buone prove precedenti, effettua
una sintesi prodigiosa di trenta anni di thrash metal, ampliando con
intelligenza gli orizzonti del genere.
Non
ci importa se siamo di fronte al "Dimension Hatross", al
"Mental Vortex", al "Countdown to Extinction"
del nuovo millennio: quello che ci piace dei Vektor è che sanno rimodellare la
materia thrash senza rinnegare lo spirito originario del genere. Uno spirito
che è anche farraginoso, faticoso per l'ascoltatore, pari pari come il metal
era prima dell'avvento del groove-metal, del nu-metal e del metalcore, che
hanno eliminato le cose più noiose del metal, rendendolo scorrevole ed
avvincente. I Vektor, invece, con i loro riff vorticosi sempre sull'orlo
di tramutarsi in assolo, con le ritmiche niente affatto regolari, con i
ritornelli per niente anthemici e la vociaccia sgraziata di
DiSanto (con tanto di capellaccio riccio unto sugli occhi) ci riportano ad una
concezione di metal a noi cara, dove bisognava soffrire per trovare
appagamento. Con la sua durata di quasi un'ora ed un quarto, con i suoi pezzi
di dieci minuti e passa, i Nostri fanno faticare l'ascoltatore, pur sfoderando
dei numeri di prestigio che potrebbero stregare anche l'ascoltatore più
distratto e superficiale.
Mentre
esultiamo gridando "il thrash non è morto!", ci rendiamo però
conto del perché i Nostri non avranno mai successo, né potranno costituire un
momento di snodo importante del metal dei giorni nostri: non sono portatori di
una formula semplice ed intellegibile, ma soprattutto sono faticosi. Laddove le
rivoluzioni le hanno fatte le idee semplici e geniali, il metal cerebrale e legnoso
dei Vektor è un qualcosa di troppo complicato e stucchevole per i palati di
oggi, soprattutto di chi ama fruir della musica nella modalità “mordi e fuggi”.
Tutti ne parlano dunque bene, ma nessuno gli vuole bene.
Perchè?
Perché nessuno esulta? Perché qualcuno osa persino criticare la voce sublime di
DiSanto? Perché infine si parla di composizioni prolisse o di lavoro che non
convince appieno? Tutte queste perplessità esposte in rete fra un elogio e
l'altro, ci fanno pensare che i Vektor non sono entrati nel cuore dei metalkids
né si eleveranno mai al di sopra dei ranghi dell’underground.
Peccato,
di qui forse passava la resurrezione del thrash...