25 nov 2016

"OPERAZIONE: RECUPERO" - PARADISE LOST


Qualche tempo fa, chiacchierando con un collega di redazione, ci si chiedeva come mai, senza apparente motivo, capiti nella vita di noi assidui fruitori delle sonorità metalliche di abbandonare di punto in bianco una band che si ascoltava da tempo. Gruppi che abbiamo ascoltato per anni, dai loro primi vagiti fino al sesto, settimo, ottavo album e oltre. Di cui quindi siamo grandi estimatori e verso le quali proviamo affetto e stima.

A cura di Morningrise

Poi succede che un’ultima uscita non ci convinca granchè. Magari un album un po’ anonimo, scialbo, poco ispirato. O, peggio, copia sbiadita di grandi lavori del passato.
Oppure non succede nulla di tutto ciò. Può infatti capitare più semplicemente che attraversiamo una fase nella quale ci si fossilizza su un singolo sotto-genere, e non si ascolta altro per mesi. 
O ancora che ci si concentri su nuove band che prima non si conosceva. E si tralascia così il resto, il già conosciuto.

Nel frattempo quei gruppi di cui sopra continuano a pubblicare. Si “rimane indietro” di un paio di uscite discografiche e semplicemente le si “lascia andare”…tanto le conosciamo…tanto le ultime cose non mi avevano emozionato granchè…quante volte ci è capitato?

Andando sul concreto: ad esempio, non capisco il perché non abbia più seguito le gesta dei Katatonia da “The Great Cold Distance” (2006) in poi. Eppure io adoro i Katatonia e non sono mai stato deluso dai loro dischi. Stufo di quelle sonorità? Forse. Il precedente “Viva Emptiness” mi era piaciuto di più di TGCD? Si, ok. Però sono consapevole che non siano motivazioni sufficienti. Morale della favola: è 10 anni che non ascolto nuove cose della premiata coppia Renske&Nystrom.

Un altro caso personale riguarda i Dark Tranquillity: amati alla follia per i primi tre capolavori della loro discografia, e discretamente apprezzati anche nella loro svolta goth/dark (“Projector” e “Haven”), sono rimasto deluso dal tentativo di ritorno al sound degli esordi di “Damage Done”. Ho pensato che avessero poco da dire in quell’ambito, che appunto DD fosse una copia sbiadita del passato; e, anche con loro, dal 2002 non ho più comprato nuovi studio albums. Mi sono autoconvinto che non potessero dire più nulla di nuovo o tornare alla grandiosità di uno “Skydancer” o un “The Mind’s I”. Eppure la realtà parrebbe avermi smentito visto che, da quello che si legge in rete, hanno fatto cose egregie anche negli ultimi dieci anni, da “Character” (2005) fino al recentissimo “Atoma” (2016).

Questo tipo di situazione l’ho vissuta anche coi Paradise Lost. Ma con la band inglese, a differenza di quanto (non) fatto con Katatonia e Dark Tranquillity, ho cercato di rimediare e quest’anno mi sono procurato in una botta sola l’ultimo trittico di studio albums. Diversamente dai DT, la loro svolta rock/dark di “One second” (1997) mi aveva fatto alquanto schifo e così, essendo proseguita poi per parecchi dischi, li avevo coscientemente abbandonati. Si, avevo letto in rete di un ritorno al sound delle origini dall’album omonimo (2005) ma psicologicamente per me valeva il discorso fatto sopra per Stanne e compagnia.

Comunque, presi gli album mi metto di buzzo buono a recuperare il tempo perso. Del resto la mia gratitudine nei confronti della voce di Nick Holmes e i meravigliosi solo-riffs di Gregor Mackintosh è infinita, visto che le note di “Gothic”, “Shades of God”, “Icon” e “Draconian Times” hanno fedelmente accompagnato la mia adolescenza.

Parto da “Faith Divides Us – Death Unites Us” (titolo meraviglioso del 2009) e già dai primi ascolti il prodotto mi lascia un’impressione piacevole. Disco più che valido. Nulla che faccia strappare i capelli però ho ritrovato in loro una buona ispirazione, linee melodiche azzeccate e un’aura di afflizione credibile. Il trademark del gruppo è evidente, a tratti manierista, ma riesce ad evitare lo spettro dell’autocitazionismo per il fatto di essere sincero, vero, caldo. 
Dopo averlo assimilato però, la sensazione è che non sarà facile che torni nel lettore cd molto presto…

Proseguo, fiducioso ma non troppo, con “Tragic Idol”, successiva release del 2012. Il giudizio su riportato per FDU –DUU viene ribadito. O più precisamente, migliorato. Il doom metal torna a essere preponderante, la chitarra di Greg ad avere un ruolo centrale e il ponte con il passato remoto della band a tratti evidente, come nell’opener “Solitary one” che sembra arrivare, con suoni da terzo millennio, dritto dritto dalle session di “Gothic”.
Il resto del disco, nei suoi 46 minuti, scorre rapido, piacevole. Anche in questo caso senza gridare al miracolo ma più di un brivido corre lungo la schiena ascoltando la struggente malinconia di “Honesty in death” (con un testo bellissimo, di cui mi è capitato ripetutamente di canticchiare il chorus senza quasi accorgermene) o la cazzuta goticità della title track; e ancora capita di headbangare al ritmo dei riff cavalcanti di “In this dwell” e della validissima “To the darkness”.
Il sanguinoso finale di “The glorious end”, forse il pezzo meglio riuscito del lotto, mi convince che qua abbiamo superato il “buono”; non ci siamo spostati troppo in là…diciamo “più che buono”.

Terzo e ultimo (?) step: “The Plague Within” (2015), ultimo nato in casa PL, è ancora più estremo nel suo ritorno alle origini: Holmes (che si è fatto nel frattempo crescere una barba a-là-Von Till) fa largo uso delle growling vocals e Mackintosh si sbizzarrisce in riffoni doomici di una pesantezza pachidermica (l’opener “No hope in sight” e “Beneath broken heart” ne sono validi esempi), a tratti al limite del groove metal (vedi “Punishment through time”) o addirittura di uno sparatissimo death-doom (“Flesh from bone”). Come per TI, anche qua non mancano grandissimi brani (su tutti si erge “Sacrifice the flame”), come, ahimè, qualche pezzo meno ficcante e/o più “pasticciato” (“Victim of the past”, “Cry out”). Anche l’uso di tastiere o di elettronica è ridotta all’osso, e quando viene fatto è per sottolineare solo alcuni passaggi che necessitano un maggiore pathos, come nella toccante “An eternity of lies” o nella conclusiva, ottima, “Return to the sun” (una cosa è certa: i titoli scelti dagli inglesi sono uno più bello dell’altro).

I PL continuano coerentemente in questa loro rivisitazione essenziale, scarna, asciutta, e al contempo sentita e ispirata, delle loro radici, cercando di rinverdire un passato glorioso mantenendo il proprio marchio decadente e malinconico.

I risultati, scusate la mia forse eccessiva severità, continuano ad essere più che buoni e molto gradevoli all’ascolto. Il che di questi tempi, dove non si capisce bene quale saranno le linee evolutive del Metal (tema su cui ci siamo sul nostro Blog più volte soffermati), non è poca roba. Ma, rispetto alle lodi sperticate che leggo su molti siti specializzati, dal canto mio non riesco ad usare toni trionfalistici.

Uno iato, questo, che mi porta a scrivere di getto queste righe e a chiedermi l’utilità di album come FDU-DUU, TI o TPW che, mi pare oggettivo, non dicono nulla di nuovo; che non rappresentano un’evoluzione da parte dei loro autori né un loro netto miglioramento qualitativo rispetto a quanto offertoci in passato. E che, con tutta probabilità, soffocati dalle centinaia di ascolti fruibili dalla nostra stessa discografia, noi stessi non recupereremo chissà per quanto tempo a venire.

Ma…

Ma allo stesso tempo penso che potremo essere diventati anche più esigenti e selettivi, ma saremmo parimenti ingenerosi nel chiedere a band storiche come i PL di sfornare a ogni piè sospinto capolavori rivoluzionari…non solo, sono assolutamente convinto che, nella loro “inutilità”, o per meglio dire nella loro non-essenzialità, anche dischi di questa qualità e onestà assolvano ad una funzione fondamentale: quella di essere utilissimi per rendere più solido, ricco e credibile la Vita delle band che li compongono, il (sotto)genere cui appartengono e, più in generale, tutto il Mondo Metal.

I PL la loro traccia indelebile nella Storia del Metallo l’hanno già scritta in passato. Ora, alla soglia dei 30 anni di vita, riescono ancora a regalarci, con classe e credibilità, emozioni piacevoli. Con una sobrietà che non è mai dimissione; con un’ispirazione che non è genio innovativo, ma rivisitazione intelligente, e profonda, di un passato glorioso.

Ai nostri padiglioni auricolari fanno bene anche buoni album, diciamo, "conservatori". 

E l’ultimo trittico dei Paradise Lost ne è un valido esempio.