Qualche tempo fa, chiacchierando
con un collega di redazione, ci si chiedeva come mai, senza apparente motivo,
capiti nella vita di noi assidui fruitori delle sonorità metalliche di
abbandonare di punto in bianco una band che si ascoltava da tempo. Gruppi che
abbiamo ascoltato per anni, dai loro primi vagiti fino al sesto, settimo,
ottavo album e oltre. Di cui quindi siamo grandi estimatori e verso le quali
proviamo affetto e stima.
A cura di Morningrise
Poi succede che un’ultima uscita
non ci convinca granchè. Magari un album un po’ anonimo, scialbo, poco
ispirato. O, peggio, copia sbiadita di grandi lavori del passato.
Oppure non succede nulla di tutto
ciò. Può infatti capitare più semplicemente che attraversiamo una fase nella
quale ci si fossilizza su un singolo sotto-genere, e non si ascolta altro per
mesi.
O ancora che ci si concentri su nuove band che prima non si conosceva. E
si tralascia così il resto, il già conosciuto.
Nel frattempo quei gruppi di cui
sopra continuano a pubblicare. Si “rimane indietro” di un paio di uscite
discografiche e semplicemente le si “lascia andare”…tanto le conosciamo…tanto
le ultime cose non mi avevano emozionato granchè…quante volte ci è capitato?
Andando sul concreto: ad esempio,
non capisco il perché non abbia più seguito le gesta dei Katatonia da “The Great Cold Distance” (2006) in poi. Eppure io
adoro i Katatonia e non sono mai stato deluso dai loro dischi. Stufo di quelle
sonorità? Forse. Il precedente “Viva Emptiness” mi era piaciuto di più di TGCD?
Si, ok. Però sono consapevole che non siano motivazioni sufficienti. Morale
della favola: è 10 anni che non ascolto nuove cose della premiata coppia
Renske&Nystrom.
Un altro caso personale riguarda
i Dark Tranquillity: amati alla
follia per i primi tre capolavori della loro discografia, e discretamente apprezzati
anche nella loro svolta goth/dark (“Projector” e “Haven”), sono rimasto deluso
dal tentativo di ritorno al sound degli esordi di “Damage Done”. Ho pensato che
avessero poco da dire in quell’ambito, che appunto DD fosse una copia sbiadita
del passato; e, anche con loro, dal 2002 non ho più comprato nuovi studio
albums. Mi sono autoconvinto che non potessero dire più nulla di nuovo o
tornare alla grandiosità di uno “Skydancer” o un “The Mind’s I”. Eppure la realtà parrebbe avermi
smentito visto che, da quello che si legge in rete, hanno fatto cose egregie
anche negli ultimi dieci anni, da “Character” (2005) fino al recentissimo
“Atoma” (2016).
Questo tipo di situazione l’ho
vissuta anche coi Paradise Lost. Ma
con la band inglese, a differenza di quanto (non) fatto con Katatonia e Dark
Tranquillity, ho cercato di rimediare e quest’anno mi sono procurato in una
botta sola l’ultimo trittico di studio albums. Diversamente dai DT, la loro
svolta rock/dark di “One second” (1997) mi aveva fatto alquanto schifo e così,
essendo proseguita poi per parecchi dischi, li avevo coscientemente
abbandonati. Si, avevo letto in rete di un ritorno al sound delle origini
dall’album omonimo (2005) ma psicologicamente per me valeva il discorso fatto
sopra per Stanne e compagnia.
Comunque, presi gli album mi
metto di buzzo buono a recuperare il tempo perso. Del resto la mia gratitudine
nei confronti della voce di Nick Holmes
e i meravigliosi solo-riffs di Gregor Mackintosh
è infinita, visto che le note di “Gothic”, “Shades of God”, “Icon” e “Draconian
Times” hanno fedelmente accompagnato la mia adolescenza.
Parto da “Faith Divides Us – Death Unites Us” (titolo meraviglioso del 2009)
e già dai primi ascolti il prodotto mi lascia un’impressione piacevole. Disco più che valido. Nulla che faccia
strappare i capelli però ho ritrovato in loro una buona ispirazione, linee
melodiche azzeccate e un’aura di
afflizione credibile. Il trademark del gruppo è evidente, a tratti manierista, ma riesce ad evitare lo spettro dell’autocitazionismo per il fatto di
essere sincero, vero, caldo.
Dopo averlo assimilato però, la sensazione è che
non sarà facile che torni nel lettore cd molto presto…
Proseguo, fiducioso ma non
troppo, con “Tragic Idol”,
successiva release del 2012. Il giudizio su riportato per FDU –DUU viene
ribadito. O più precisamente, migliorato.
Il doom metal torna a essere preponderante, la chitarra di Greg ad avere un
ruolo centrale e il ponte con il passato remoto della band a tratti evidente,
come nell’opener “Solitary one” che sembra arrivare, con suoni da terzo
millennio, dritto dritto dalle session di “Gothic”.
Il resto del disco, nei suoi 46
minuti, scorre rapido, piacevole. Anche in questo caso senza gridare al
miracolo ma più di un brivido corre lungo la schiena ascoltando la struggente
malinconia di “Honesty in death” (con un testo bellissimo, di cui mi è capitato
ripetutamente di canticchiare il chorus senza quasi accorgermene) o la cazzuta
goticità della title track; e ancora capita di headbangare al ritmo dei riff
cavalcanti di “In this dwell” e della validissima “To the darkness”.
Il sanguinoso finale di “The glorious
end”, forse il pezzo meglio riuscito del lotto, mi convince che qua abbiamo
superato il “buono”; non ci siamo spostati troppo in là…diciamo “più che
buono”.
Terzo e ultimo (?) step: “The Plague Within” (2015), ultimo nato
in casa PL, è ancora più estremo nel suo ritorno alle origini: Holmes (che si è
fatto nel frattempo crescere una barba a-là-Von Till) fa largo uso delle
growling vocals e Mackintosh si sbizzarrisce in riffoni doomici di una
pesantezza pachidermica (l’opener “No hope in sight” e “Beneath broken heart”
ne sono validi esempi), a tratti al limite del groove metal (vedi “Punishment
through time”) o addirittura di uno sparatissimo death-doom (“Flesh from bone”).
Come per TI, anche qua non mancano grandissimi brani (su tutti si erge
“Sacrifice the flame”), come, ahimè, qualche pezzo meno ficcante e/o più
“pasticciato” (“Victim of the past”, “Cry out”). Anche l’uso di tastiere o di
elettronica è ridotta all’osso, e quando viene fatto è per sottolineare solo
alcuni passaggi che necessitano un maggiore pathos, come nella toccante “An
eternity of lies” o nella conclusiva, ottima, “Return to the sun” (una cosa è
certa: i titoli scelti dagli inglesi sono uno più bello dell’altro).
I PL continuano coerentemente in
questa loro rivisitazione essenziale, scarna, asciutta, e al contempo sentita e
ispirata, delle loro radici, cercando di rinverdire un passato glorioso
mantenendo il proprio marchio decadente e malinconico.
I risultati, scusate la mia forse eccessiva severità, continuano ad essere più che buoni e molto gradevoli all’ascolto. Il
che di questi tempi, dove non si capisce bene quale saranno le linee evolutive
del Metal (tema su cui ci siamo sul nostro Blog più volte soffermati), non è
poca roba. Ma, rispetto alle lodi sperticate
che leggo su molti siti specializzati, dal canto mio non riesco ad usare toni trionfalistici.
Uno iato, questo, che mi porta a
scrivere di getto queste righe e a chiedermi l’utilità di album come FDU-DUU,
TI o TPW che, mi pare oggettivo, non dicono nulla di nuovo; che non rappresentano
un’evoluzione da parte dei loro autori né un loro netto miglioramento
qualitativo rispetto a quanto offertoci in passato. E che, con tutta
probabilità, soffocati dalle centinaia di ascolti fruibili dalla nostra stessa
discografia, noi stessi non recupereremo chissà per quanto tempo a venire.
Ma…
Ma allo stesso tempo penso che
potremo essere diventati anche più esigenti e selettivi, ma saremmo parimenti
ingenerosi nel chiedere a band storiche come i PL di sfornare a ogni piè
sospinto capolavori rivoluzionari…non solo, sono assolutamente convinto che, nella
loro “inutilità”, o per meglio dire nella loro non-essenzialità, anche dischi
di questa qualità e onestà assolvano ad una funzione fondamentale: quella di
essere utilissimi per rendere più solido, ricco e credibile la Vita delle band
che li compongono, il (sotto)genere cui appartengono e, più in generale, tutto
il Mondo Metal.
I PL la loro traccia indelebile
nella Storia del Metallo l’hanno già scritta in passato. Ora, alla soglia dei
30 anni di vita, riescono ancora a regalarci, con classe e credibilità,
emozioni piacevoli. Con una sobrietà che non è mai dimissione; con
un’ispirazione che non è genio innovativo, ma rivisitazione intelligente, e
profonda, di un passato glorioso.
E l’ultimo trittico dei Paradise Lost ne è un valido esempio.