A
volte l'anno nuovo non inizia il primo gennaio, ma qualche giorno dopo. Un anno
infatti non si spegne all'improvviso, ma la sua eco si propaga per qualche
tempo, velando le fattezze del successivo ancora inconsistente nei suoi primi
vagiti.
Perché
codeste affermazioni? Perché questo, spiritualmente parlando, è il mio
effettivo primo post del 2017: anno che avevo invece affrontato in modo
neutro parlando di Ronnie James Dio. Del resto Dio è un personaggio al
di fuori del tempo ed evidentemente, scrivendo su di lui, avevo bisogno di
sostare per un momento ancora in una dimensione atemporale per smettere di
confrontarmi con il presente, che era stato il mio cruccio per tutto il
2016.
A
partire dal post lapidario "Il Metal è morto!", per il
sottoscritto sono stati dodici mesi di faticosa ricerca con l'obiettivo di
trovare, nel mare vastum del metal odierno, qualcosa capace di smuovermi dentro
e che, al tempo stesso, potesse consegnarmi una parvenza di novità: non dico un
fenomeno di netta rottura, ma almeno qualcuno che aprisse nuove possibili vie.
Niente: tanti buoni gruppi, album più che dignitosi, ma alla fine solo passi
laterali o indietro animati da impulsi revivalistici, contaminazione con altri
generi ed una affannosa lettura del presente che non ha portato altro che, nel
migliore dei casi, a compiere impercettibili movimenti in avanti. Ma forse era
il mio approccio ad essere sbagliato perché in questo mio cammino ho lavorato
troppo di testa e poco di cuore. Dovevo invece chiudere gli occhi e farmi guidare
dalle emozioni. E così un giorno mi son detto: "Che fatica, lasciamo
perdere sta roba-cervellotica-avant-post-neo-progressiva-o-djent-che-dir-si-voglia
ed andiamo a rilassarci!"
Mosso
così da curiosità per via di una serie di recensioni davvero entusiastiche, mi
sono gettato nell'ascolto di "Departe", secondo album
rilasciato dai Clouds sul finire del 2016. Già dalla copertina si
respira aria di Anni Novanta e l'ascolto non tradirà le aspettative: Ulver,
Anathema, Tiamat, Katatonia, In the Woods, Amorphis,
Arcturus sono i nomi che vengono in mente mano a mano che scorrono i
minuti iniziali dell'opener "How Can I Be There". Che
sarebbe a dire: desolante pianoforte con sussurri à la Kristoffer
Rygg, feedback di chitarra in crescendo, riffoni sabbathiani
che girano alla grande e che, ricorsivi, si protraggono a lungo animati da
bellissime melodie. E poi una struttura che prosegue libera, fra pieni e vuoti,
alternando un growl cavernoso a limpide voci pulite.
Le
uniche concessioni alla contemporaneità sono certe sonorità ricavate
dall'esempio degli ultimi Ulver, come già accennato, e certe delizie che
rievocano il celestiale post-rock dei Sigur Ros, ormai un punto di
riferimento obbligato per chi si approccia in modo passionale e sognante alla
materia gotica. Diversi sono i cantanti che nel corso del platter si
avvicenderanno dietro al microfono ed altrettanti sono i musicisti chiamati a
dare un contributo all'operazione, incastonando preziosismi in un'opera corale
che non incappa in un attimo di cedimento. I Clouds, del resto, sono un super-gruppo
formato da esponenti più o meno noti di entità dedite a doom, funeral doom e
gothic quali Eye of Solitude, Officium Triste, Shape of
Despair, Pantheist, Wijlen Wig, My Dying Bride e molti
altri. Tutti nomi, ad eccezione dell'ultimo, che non mi dicono nulla, visto che
saranno almeno quindici anni che non mi interesso alle nuove leve del doom.
Quindi potrete capire la mia gioia nel riscoprire la vitalità di un genere che
pensavo cristallizzato nei suoi cliché oramai vecchi e consunti.
Il
fatto è che c'è voglia di dare emozioni, e non è cosa da poco, visto che oggi tutti
inseguono faticosamente sogni di differenziazione, spesso non coronati da
risultati esaltanti: i Clouds non hanno niente da dimostrare, niente di antipatico
o spocchioso, no dissonanze no psichedelia no velleità di ricerca o
innovazione. L'unica ambizione è quella di ricreare una musica dai contorni
monumentali che si sviluppa in brani piuttosto lunghi dove accade più o meno di
tutto. E dove quel tutto sembra conservare un senso unitario in quanto ogni
tassello conserva la sua funzione, facendo sì che non si percepisca quella
ridondanza, quella tendenza all'asfissia, che anima molti album di genere,
sebbene i temi funerei (tutto ruota attorno al concetto di
"dipartita", o meglio, di lutto legato alla scomparsa di persone
care) potrebbero implicare atmosfere ben più tetre ed affossanti. C'è quella
"spensieratezza" che si respirava ancora negli anni novanta, quel
desiderio, quel romanticismo, quell'aspirazione a voler essere "belli e
decadenti", pomposi, senza timor di suonare pacchiani o poco innovativi.
Ecco perché il metal è vivo: perché è capace di generare band
come i Clouds che sanno ancora emozionare.
Che
si tratti di una piacevole eccezione? Finito l'album, YouTube ne carica uno
similare: è la volta dei Trees of Eternity con il loro "Hour of
the Nightingale", anch'esso del 2016. Partiamo dal monicker:
poteva esserci un nome più scontato? Ma questo è il bello del doom/gothic che
sto riscoprendo in questi giorni: scontato ma sincero!
Scontato
non è però chi sta dietro al progetto: la leader/cantante è la
sudafricana Aleah Liane Stanbridge, che forse qualcuno avrà conosciuto
per le sue comparsate canore in Swallow the Sun ed Amorphis, ma
che in realtà di mestiere faceva la fotografa (!), la web designer (!!),
la stilista (!!!), la creatrice di linee di gioielli (!!!!). Dico
"faceva" perché la bella cantante è deceduta quest'anno a soli
trentanove anni, prima ancora che il primo full-lenght di questo suo
progetto personale, dopo un brillante e promettente demo, venisse pubblicato.
Beninteso, scopro tutte queste cose dopo aver ascoltato l'album ed esserne
rimasto incantato.
Sì, incantato
è la parola giusta, perché anche qua, come nel caso dei Clouds, si parla di
emozioni, emozioni vere. La proposta dei Trees of Eternity (oltre alla cantante
troviamo a darle manforte componenti degli stessi Swallow the Sun), sebbene
poggiante sui numi tutelari del genere, Paradise Lost in primis, suona
più particolare di quella dei Clouds: chitarre arpeggiate compongono l'ossatura
di brani scorrevoli e che strizzano l'occhio alla dark-wave, ma che non
disdegnano affatto le pesanti distorsioni di matrice gothic, anche perché i
Trees of Eternity sono una band metal e mai rinnegano nelle intenzioni e nei
fatti questa appartenenza.
Qui
non è questione di idee, ma di bellezza che attraversa ed anima tutti i brani,
dal primo all'ultimo: brani in apparenza semplici ma che non stancano mai,
ravvivati dalla voce magnetica della Stanbridge, eterea ma anche energica,
lontana dalla leziosità di tante soprano o angeliche sirene che popolano il
mondo del gothic. Ad aggiungere gloria alla gloria, due importanti ospiti, Mick
Moss (Antimatter) e Nick Holmes (Paradise Lost): due
nomi che aiutano ad inquadrare ulteriormente le sonorità di questo "Hour
of the Nightingale", sospeso perennemente fra fragile intimismo e vigorosa
epicità.
Chiudiamo
il cerchio con un'ultima band che della materia doom/gothic fornisce
un'ulteriore lettura. Parlo degli scozzesi Fvneral, i quali con "Wounds",
sempre nel 2016, raggiungevano il traguardo del secondo album. Delle tre band
trattate in questo post, costoro sono sicuramente i più intellettuali,
in quanto il loro scarno e crudo doom asseconda rigorese tendenze minimaliste,
sconfinando nei territori oscuri e privi di speranza della drone-music e
nell'ambient.
Uno
stile asciutto, essenziale, caratterizzato dalle lente ed ipnotizzanti
schitarrate di Syd Scarlet e dalle nenie soffuse della vocalist Tiffany
Strom: c'è del dark, dell'esoterismo, del post-rock e
per questo, rispetto al revivalismo delle altre due band di prima, i Fvneral si
iscrivono a quella schiera di doomer che da qualche anno a questa parte
cercano di trovare nuove strade al di fuori del classico bacino di influenze
degli anni novanta. E l'ascolto ne risente, in quanto seguire gli scarsi
quaranta minuti di queste "Ferite" richiede un approccio più
cerebrale, in quanto la mente ha da addentrarsi nelle nebbie vaporose di un
rito che puzza di zolfo, occultismo e psicoanalisi.
La
band, infatti, si focalizza più sull'atmosfera che su la concretezza della
propria musica e per chi ascolta diviene impegnativo riconoscere le figure che
si muovono di soppiatto fra le confuse pennellate di una rappresentazione
espressionista. Si, il tutto scorre con maggiore fatica, ma è indubbio che
siamo ancora una volta al cospetto di un lavoro fresco e di qualità: un'opera
che sa ripagare degli sforzi di attenzione profusi solo dopo ripetuti ascolti.
Per
lo stato d'animo in cui oggi mi trovo, tendo a preferire album
"facili" come quelli dei Clouds e dei Trees of Eternity che a scoppio
ritardato eleggo ex aequo migliori album metal del 2016. Chi l'avrebbe
mai detto, due album gothic/doom, nel 2016...