29 gen 2017

PORCUPINE TREE: L'EREDITA' DI "IN ABSENTIA" A QUINDICI ANNI DALLA SUA USCITA




In una ipotetica classifica dei dieci migliori album non metal che dovrebbero ascoltare anche i cultori del metallo, inseriremmo sicuramente "In Absentia" dei Porcupine Tree.

In verità già molti di voi conosceranno questo album, in quanto Steven Wilson e la sua band sono ben noti anche nei nostri ambienti. Pertanto questa non sarà una recensione, ma una riflessione più ampia sul fenomeno Porcupine Tree al fine di capire, a quindici anni dalla pubblicazione, qual è l'eredità di “In Absentia” e quali i suoi influssi sul metal recente.

Intanto c'è da dire che questa opera rappresenta un vero spartiacque nella carriera della band inglese, sia a livello artistico che a livello di notorietà . Prima di "In Absentia" i Porcupine Tree erano una "sigla" ignota ai più, un nome diffuso per passaparola: la band del resto non apparteneva ad un "ambiente" in particolare e per questo motivo era in grado di attrarre solo i pochi fortunati che per caso vi entravano in contatto.

E cosi, nonostante gli innegabili meriti, nel loro primo periodo di vita i Nostri riuscirono a racimolare fra i propri ammiratori solo qualche nostalgico della psichedelia settantiana, appassionati di prog aperti a sonorità contemporanee, qualche illuminato frequentatore dei lidi del rock sofisticato (e laccato) degli anni ottanta e persino qualche avventuriero proveniente dagli impervi sentieri del metal. Il paradosso era che la band non si è mai focalizzata in senso stretto su alcuno di questi generi.

In Italia, paese che vanta da sempre una predilezione per le sonorità progressive, si ebbe inizialmente uno strano fermento intorno ai Porcupine Tree, in particolare nella città di Roma, dove la band di Wilson era stata molto pompata da una emittente radiofonica locale. In poco tempo i Porcupine Tree divennero così un fenomeno di culto, tanto che i Nostri finirono per registrare proprio nella città capitolina il loro celebre live "Coma Divine", quale ringraziamento al pubblico romano e consacrazione della loro prima parte di carriera.

Vediamo invece quali furono le premesse artistiche che condussero alla scoppio di notorietà che coincise con il rilascio di "In Absentia". Nati verso la fine degli anni ottanta come progetto del solo Steven Wilson, con il tempo i Porcupine Tree si consolidarono come una band vera e propria. Prima il dimesso Colin Edwin al basso e il portentoso Chris Maitland alla batteria, poi il veterano Richard Barbieri (ex Japan) alle tastiere ed ai sintetizzatori: questi i validi collaboratori che si uniranno al fondatore del progetto, formando un ensemble compatto e dalle chiare intenzioni, ossia supportare al meglio la vena compositiva del deus ex machina Wilson.

Dalle alluginogene sonorità psichedeliche degli esordi, sarà dunque un percorso in crescita verso forme musicali più complesse. Ed un traguardo importante verrà raggiunto con opere come "The Sky Moves Sideways" (1995) e "Signify" (1996), dove i Nostri si riveleranno abili nel modellare lunghe suite che dei migliori Pink Floyd conservavano la magniloquenza e la carica visionaria, pur calandole nell'intimismo del cantautorato wilsoniano ed annacquandole con suoni moderni che non disdegnavano un approccio ambient e l'utilizzo di pattern elettronici.

Con il binomio "Stupid Dream" (1999)/"Lightbulb Sun" (2000) l'organico maturava ulteriormente, affrancandosi dallo spettro pinkfloydiano per "asciugarsi" nel formato canzone ed acquietarsi in un guscio che oseremmo quasi descrivere "pop". Ma un "pop" raffinato, eseguito da strumentisti eccezionali ed animato da soluzioni non banali ereditate da quello sforzo di ricerca che è proprio della migliore tradizione progressive. Indubbiamente, nella definizione del nuovo sound, contò l'ascesa in quel periodo dei Radiohead, che suggerivano nuove modalità espressive alle irrequietudini esistenziali di Wilson. Il musicista, va detto, si è sempre mosso con passo da "teorico" ed appassionato di musica, dimostrandosi abile nel metabolizzare le influenze più disparate in una coerente visione artistica.

Poi un evento inaspettato: Wilson produrrà il capolavoro degli Opeth "Blackwater Park", partecipando attivamente alla lavorazione dei brani e dimostrandosi un buon consigliere per un Akerfeldt sempre più interessato a solcare lidi non-metallici. In verità avverrà un processo di osmosi che avrebbe avvicinato gli svedesi al prog settantiano e gli inglesi al metal. Correva l'anno 2001 e per la carriera di Wilson la collaborazione con gli Opeth sarà l'innesco di una parabola ascendente che lo vedrà imporsi come artista stimato e di successo nell'empireo della musica progressiva contemporanea.

Da quando egli infatti deciderà di introdurre elementi metal nella sua musica, riuscirà ad ottenere l'attenzione da parte degli appassionati di quel genere che non faceva certo parte del suo background originario. E poiché quelli sono ambienti in cui si vendono e comprano ancora i dischi, entrarvi fu una ghiotta opportunità per il Nostro: di fatto, un aiuto economico è proprio quello che ci voleva per un artista ambizioso come Wilson affinché potesse definitivamente spiccare il volo. "In Absentia", pubblicato nell'autunno del 2002 (in Europa uscirà a gennaio del 2003), porterà dunque incoraggianti risultati di vendita e quella visibilità a lungo meritata grazie ad una virtuosa gavetta.

Il riff iniziale dell'opener "Blackest Eyes" è quanto di più duro un fan della band avesse potuto udire fino a quel momento da parte dei suoi beniamini, sebbene il brano poi si sviluppasse alla maniera consueta, fra atmosfere sognanti e la voce confidenziale di Wilson che non è certo un urlatore. "Gravity Eyelids" nei suoi quasi otto minuti procede con andamento ipnotico e sinuoso, ma ecco che nella seconda metà veniamo scossi da una nuova esplosione di chitarre. E gli orecchi fini sapranno anche riconoscere una doppia-cassa in lontananza: una potenza inedita dovuta non solo ai suoni, più corposi e guitar-oriented rispetto al passato, ma anche al provvidenziale innesto del potentissimo nuovo batterista Gavin Harrison, con trascorsi da turnista di lusso, background jazz ed oggi in forza nei King Crimson.

"Wedding Nails" è una strumentale quasi del tutto articolata in riff di chitarra distorta: un brano che avrà fatto sicuramente storcere il naso a molti fan della prima ora. Se questo del resto è il dazio da pagare quando si imboccano nuove strade, i risultati di vendita sono stati di sicuro confortanti, visto che le defezioni nella risicata fan-base verranno ampiamente compensare da orde di nuovi "utenti", interessati principalmente al groove ed alle sferzate elettriche. Elementi che ritroveremo anche in "The Creator has a Mastertape", pezzo ultra-vitaminico sorretto da un basso pulsante e scosso via via da improvvise detonazioni chitarristiche, e "Strip the Soul", con il quale i Nostri si concederanno persino un bel finale apocalittico a base di chitarroni sabbathiani ed assolo al vetriolo.

Stiamo calmi, però: abbiamo citato solo quegli episodi che possiedono un "quid di metallico", ma nel complesso il trademark della band rimase immutato, con in bella mostra struggenti ballate come "Trains" (destinata a divenire il classico per eccellenza dei Porcupine Tree, nonché una delle espressioni più rappresentative del Wilson-pensiero) e "Collapse Light into Earth", al cui pianoforte veniva affidata la chiusura delle danze. L'orientaleggiante "Lips of Ashes" conservava ancora certi elementi di psichedelia del passato, mentre l'irresistibile "The Sound of Muzak" mostrava il lato più orecchiabile e pop-oriented dei Porcospini, a dimostrazione che i Nostri non imboccarono certo la via dell'estremo.

Eppure qualcosa cambierà nel processo compositivo di Wilson e, in misura crescente, i tre album successivi incorporeranno elementi mutuati dal mondo metal. Si pensi alla porzione centrale (ai limiti del thrash) della bellissima "Arriving Somewhere but not Here" (alla quale fra l'altro partecipava come ospite Akerfeldt) in "Deadwing"; si faccia caso alle chitarre schiacciasassi che per qualche secondo sconvolgono lo sviluppo della suite "Anesthetize" in "Fear of a Blank Planet", per non parlare della cavalcante title-track o di "Way Out of Here" che si muove con passo alquanto "tooliano"; si rammentino, infine, i vari riff disseminati in "The Incident", album dalle atmosfere torbide che a tratti vorrà flirtare addirittura con il djent.

Ripeto: gli album dei Porcupine Tree non potranno mai essere definiti metal, ma sapranno attirare l'attenzione del popolo metallico e soprattutto finiranno per influenzare il metal degli ultimi quindici anni. Complici da un lato il consolidarsi della fama dei cugini Opeth, che presto sarebbero divenuti un solido punto di riferimento per il metal del terzo millennio, e dall'altro l'intensificarsi dell'attività di produttore dell'infaticabile Wilson, che presterà il suo talento e i suoi validi consigli a band con grande potenziale, ma bisognose di essere indirizzate innanzi a scelte difficili (gli Anathema sono l'esempio più lampante).

Prolifereranno nel frattempo le varie correnti del neo-progressive, ed anche in questo una voce in capitolo continuerà ad averla sempre Wilson con la sua miriade di progetti e soprattutto con la sua sfavillante carriera solista, alla quale il Nostro si dedicherà in modo crescente: scelta che gli imporrà di sospendere a tempo indeterminato le attività della sua band madre, ferma all’anno 2009. Ma il concetto non cambia: uno dei meriti di questo poliedrico artista è quello di aver saputo portare all'attenzione delle nuove generazioni le energie più colte del rock degli anni settanta, ottanta e novanta, modernizzandole con l'elettronica, con l’industrial, con lo stesso metal e con quella vena "dark" che si accoppia così bene con i tempi bui che viviamo oggi. Una capacità di sintesi, quella di Wilson, che ha saputo affratellare virtuosismo ed atmosfere intime, rendendo di fatto meno barocco e pretenzioso il progressive metal che si era consolidato nella decade novantiana grazie ai vari Dream Theater, Symphony X ecc.

Con Wilson dunque si tornerà a dare spazio alle emozioni, consegnandoci egli una visione del prog che non rinnega la "ricetta semplice", il linguaggio comprensibile, il formato canzone eventualmente ampliato o reso più intrigante da accorgimenti e soluzioni intelligenti che di progressivo hanno l'intuizione, la virata verso l'inaspettato, la sezione complessa da aggiungere in coda o in mezzo alla ballata che per magia diviene suite.

Questa sorta di progressive "minimalista", volto alla ricerca dell'idea vincente piuttosto che all'assecondare la voglia di strafare, accompagnata dall’azione parallela dei Tool (altri "virtuosi dell'introspezione"), ha permesso al prog-metal di uscire dalle acque stagnanti dell'auto-celebrazione ed al tempo stesso ha scongiurato che un certo metal dotato di spirito romantico-decadentista non si appiattisse su soluzioni sempliciotte e sterilmente debitrici della sola darkwave ottantiana.

Questo, in poche parole, il sentiero che il metal ha imboccato anche grazie ad un album come "In Absentia".