In una ipotetica classifica
dei dieci migliori album non metal che dovrebbero ascoltare anche i cultori
del metallo, inseriremmo sicuramente "In Absentia" dei Porcupine
Tree.
In verità già molti di voi
conosceranno questo album, in quanto Steven Wilson e la sua band sono ben noti anche nei nostri ambienti. Pertanto questa non sarà una
recensione, ma una riflessione più ampia sul fenomeno Porcupine Tree
al fine di capire, a quindici anni dalla pubblicazione, qual è l'eredità di “In
Absentia” e quali i suoi influssi sul metal recente.
Intanto c'è da dire che questa
opera rappresenta un vero spartiacque nella carriera della band inglese,
sia a livello artistico che a livello di notorietà . Prima di "In
Absentia" i Porcupine Tree erano una "sigla" ignota ai più, un
nome diffuso per passaparola: la band del resto non apparteneva ad un
"ambiente" in particolare e per questo motivo era in grado di
attrarre solo i pochi fortunati che per caso vi entravano in contatto.
E cosi, nonostante gli
innegabili meriti, nel loro primo periodo di vita i Nostri riuscirono a
racimolare fra i propri ammiratori solo qualche nostalgico della psichedelia
settantiana, appassionati di prog aperti a sonorità contemporanee,
qualche illuminato frequentatore dei lidi del rock sofisticato (e
laccato) degli anni ottanta e persino qualche avventuriero proveniente dagli
impervi sentieri del metal. Il paradosso era che la band non si è mai focalizzata
in senso stretto su alcuno di questi generi.
In Italia, paese che vanta da
sempre una predilezione per le sonorità progressive, si ebbe inizialmente uno
strano fermento intorno ai Porcupine Tree, in particolare nella città di Roma,
dove la band di Wilson era stata molto pompata da una emittente radiofonica
locale. In poco tempo i Porcupine Tree divennero così un fenomeno di culto,
tanto che i Nostri finirono per registrare proprio nella città capitolina il
loro celebre live "Coma Divine", quale ringraziamento
al pubblico romano e consacrazione della loro prima parte di carriera.
Vediamo invece quali furono
le premesse artistiche che condussero alla scoppio di notorietà che
coincise con il rilascio di "In Absentia". Nati verso la fine degli
anni ottanta come progetto del solo Steven Wilson, con il tempo i Porcupine Tree si
consolidarono come una band vera e propria. Prima il dimesso Colin Edwin
al basso e il portentoso Chris Maitland alla batteria, poi il veterano Richard
Barbieri (ex Japan) alle tastiere ed ai sintetizzatori: questi i
validi collaboratori che si uniranno al fondatore del progetto, formando un ensemble
compatto e dalle chiare intenzioni, ossia supportare al meglio la vena
compositiva del deus ex machina Wilson.
Dalle alluginogene sonorità psichedeliche degli esordi, sarà dunque un percorso in
crescita verso forme musicali più complesse. Ed un traguardo importante verrà raggiunto con opere come "The
Sky Moves Sideways" (1995) e "Signify" (1996), dove i
Nostri si riveleranno abili nel modellare lunghe suite che dei migliori Pink
Floyd conservavano la magniloquenza e la carica visionaria, pur calandole
nell'intimismo del cantautorato wilsoniano ed annacquandole con suoni
moderni che non disdegnavano un approccio ambient e l'utilizzo di pattern
elettronici.
Con il binomio "Stupid
Dream" (1999)/"Lightbulb Sun" (2000) l'organico
maturava ulteriormente, affrancandosi dallo spettro pinkfloydiano per
"asciugarsi" nel formato canzone ed acquietarsi in un guscio che
oseremmo quasi descrivere "pop". Ma un "pop"
raffinato, eseguito da strumentisti eccezionali ed animato da soluzioni non
banali ereditate da quello sforzo di ricerca che è proprio della migliore
tradizione progressive. Indubbiamente, nella definizione del nuovo sound,
contò l'ascesa in quel periodo dei Radiohead, che suggerivano nuove modalità
espressive alle irrequietudini esistenziali di Wilson. Il musicista, va detto,
si è sempre mosso con passo da "teorico" ed appassionato di musica, dimostrandosi
abile nel metabolizzare le influenze più disparate in una coerente visione
artistica.
Poi un evento inaspettato: Wilson produrrà il capolavoro degli Opeth "Blackwater Park", partecipando attivamente alla lavorazione dei brani e
dimostrandosi un buon consigliere per un Akerfeldt sempre più
interessato a solcare lidi non-metallici. In verità avverrà un processo di
osmosi che avrebbe avvicinato gli svedesi al prog settantiano e gli inglesi al metal.
Correva l'anno 2001 e per la carriera di Wilson la collaborazione con
gli Opeth sarà l'innesco di una parabola ascendente che lo vedrà imporsi come
artista stimato e di successo nell'empireo della musica progressiva
contemporanea.
Da quando egli infatti
deciderà di introdurre elementi metal nella sua musica, riuscirà ad ottenere l'attenzione da
parte degli appassionati di quel genere che non faceva certo parte del suo background
originario. E poiché quelli sono ambienti in cui si vendono e comprano ancora i
dischi, entrarvi fu una ghiotta opportunità per il Nostro: di fatto, un aiuto
economico è proprio quello che ci voleva per un artista ambizioso come Wilson affinché
potesse definitivamente spiccare il volo. "In Absentia", pubblicato
nell'autunno del 2002 (in Europa uscirà a gennaio del 2003), porterà
dunque incoraggianti risultati di vendita e quella visibilità a lungo meritata
grazie ad una virtuosa gavetta.
Il riff iniziale dell'opener
"Blackest Eyes" è quanto di più duro un fan della
band avesse potuto udire fino a quel momento da parte dei suoi beniamini,
sebbene il brano poi si sviluppasse alla maniera consueta, fra atmosfere
sognanti e la voce confidenziale di Wilson che non è certo un urlatore. "Gravity
Eyelids" nei suoi quasi otto minuti procede con andamento ipnotico e
sinuoso, ma ecco che nella seconda metà veniamo scossi da una nuova esplosione
di chitarre. E gli orecchi fini sapranno anche riconoscere una doppia-cassa in lontananza: una potenza inedita dovuta non solo ai suoni, più corposi e guitar-oriented
rispetto al passato, ma anche al provvidenziale innesto del potentissimo nuovo batterista
Gavin Harrison, con trascorsi da turnista di lusso, background jazz ed oggi in forza nei King Crimson.
"Wedding Nails"
è una strumentale quasi del tutto articolata in riff di chitarra
distorta: un brano che avrà fatto sicuramente storcere il naso a molti fan
della prima ora. Se questo del resto è il dazio da pagare quando si imboccano
nuove strade, i risultati di vendita sono stati di sicuro confortanti, visto
che le defezioni nella risicata fan-base verranno ampiamente compensare
da orde di nuovi "utenti", interessati principalmente al groove
ed alle sferzate elettriche. Elementi che ritroveremo anche in "The
Creator has a Mastertape", pezzo ultra-vitaminico sorretto da un basso
pulsante e scosso via via da improvvise detonazioni chitarristiche, e "Strip
the Soul", con il quale i Nostri si concederanno persino un bel finale
apocalittico a base di chitarroni sabbathiani ed assolo al vetriolo.
Stiamo calmi, però: abbiamo
citato solo quegli episodi che possiedono un "quid di metallico", ma
nel complesso il trademark della band rimase immutato, con in bella mostra
struggenti ballate come "Trains" (destinata a divenire il
classico per eccellenza dei Porcupine Tree, nonché una delle espressioni più
rappresentative del Wilson-pensiero) e "Collapse Light into
Earth", al cui pianoforte veniva affidata la chiusura delle danze.
L'orientaleggiante "Lips of Ashes" conservava ancora certi
elementi di psichedelia del passato, mentre l'irresistibile "The Sound
of Muzak" mostrava il lato più orecchiabile e pop-oriented dei Porcospini,
a dimostrazione che i Nostri non imboccarono certo la via dell'estremo.
Eppure qualcosa cambierà nel
processo compositivo di Wilson e, in misura crescente, i tre album successivi
incorporeranno elementi mutuati dal mondo metal. Si pensi alla porzione
centrale (ai limiti del thrash) della bellissima "Arriving Somewhere
but not Here" (alla quale fra l'altro partecipava come ospite Akerfeldt) in "Deadwing";
si faccia caso alle chitarre schiacciasassi che per qualche secondo sconvolgono
lo sviluppo della suite "Anesthetize" in "Fear
of a Blank Planet", per non parlare della cavalcante title-track
o di "Way Out of Here" che si muove con passo alquanto "tooliano";
si rammentino, infine, i vari riff disseminati in "The Incident",
album dalle atmosfere torbide che a tratti vorrà flirtare addirittura con il djent.
Ripeto: gli album dei
Porcupine Tree non potranno mai essere definiti metal, ma sapranno attirare
l'attenzione del popolo metallico e soprattutto finiranno per influenzare il
metal degli ultimi quindici anni. Complici da un lato il consolidarsi della
fama dei cugini Opeth, che presto sarebbero divenuti un solido punto di
riferimento per il metal del terzo millennio, e dall'altro l'intensificarsi
dell'attività di produttore dell'infaticabile Wilson, che presterà il suo
talento e i suoi validi consigli a band con grande potenziale, ma bisognose di
essere indirizzate innanzi a scelte difficili (gli Anathema sono
l'esempio più lampante).
Prolifereranno nel frattempo
le varie correnti del neo-progressive, ed anche in questo una voce in
capitolo continuerà ad averla sempre Wilson con la sua miriade di progetti e
soprattutto con la sua sfavillante carriera solista, alla quale il Nostro si dedicherà
in modo crescente: scelta che gli imporrà di sospendere a tempo indeterminato
le attività della sua band madre, ferma all’anno 2009. Ma il concetto non
cambia: uno dei meriti di questo poliedrico artista è quello di aver saputo
portare all'attenzione delle nuove generazioni le energie più colte del rock
degli anni settanta, ottanta e novanta, modernizzandole con l'elettronica, con
l’industrial, con lo stesso metal e con quella vena "dark" che si
accoppia così bene con i tempi bui che viviamo oggi. Una capacità di sintesi,
quella di Wilson, che ha saputo affratellare virtuosismo ed atmosfere intime,
rendendo di fatto meno barocco e pretenzioso il progressive metal che si era
consolidato nella decade novantiana grazie ai vari Dream Theater, Symphony
X ecc.
Con Wilson dunque si tornerà
a dare spazio alle emozioni, consegnandoci egli una visione del prog che
non rinnega la "ricetta semplice", il linguaggio comprensibile, il
formato canzone eventualmente ampliato o reso più intrigante da accorgimenti e
soluzioni intelligenti che di progressivo hanno l'intuizione, la virata verso
l'inaspettato, la sezione complessa da aggiungere in coda o in mezzo alla
ballata che per magia diviene suite.
Questa sorta di progressive
"minimalista", volto alla ricerca dell'idea vincente piuttosto
che all'assecondare la voglia di strafare, accompagnata dall’azione parallela
dei Tool (altri "virtuosi dell'introspezione"), ha permesso al
prog-metal di uscire dalle acque stagnanti dell'auto-celebrazione ed al tempo
stesso ha scongiurato che un certo metal dotato di spirito
romantico-decadentista non si appiattisse su soluzioni sempliciotte e sterilmente
debitrici della sola darkwave ottantiana.
Questo, in poche parole, il
sentiero che il metal ha imboccato anche grazie ad un album come "In
Absentia".