Febbraio:
il mese più corto dell'anno. C'è poi il Carnevale. Infine, in molti non
se ne ricordano, ma fa fottutamente freddo.
Dopo
aver celebrato gennaio con il brano "January Tunes" dei
connazionali Novembre, continua in Norvegia, con gli Ulver e la
loro "February MMX", la rassegna dedicata ai dodici mesi
dell'anno raccontati attraverso il "canzoniere metal".
Metal
per modo di dire, visto che apporre questa etichetta sulla musica degli Ulver
di oggi è una gran bella forzatura. Ma anche parlare di febbraio attraverso
questo brano lo è: ci ho provato, ho rivoltato il testo, ripensato alla musica
sotto questa luce, ma in niente ho trovato collegamenti con il secondo mese
dell'anno, salvo che nel titolo.
Partiamo
dunque dal lato lirico, partiamo da Garm, ops Kristoffer Rygg.
I suoi testi, nella sua oramai consolidata incarnazione di "cantautore
avanguarde", sono spesso ermetici, non-sense, ma non perché egli è
un poeta, bensì perché non consce l'inglese. Non lo sa scrivere e non lo sa
pronunciare, non lo sa in definitiva pensare e i suoi versi, come la sua
pronuncia, palesano una conoscenza appena sufficiente della lingua.
Quando
gli Ulver esordirono, un loro punto di forza distintiva fu senz’altro il forte
legame con il folclore norvegese, cosa che si rifletteva anche nell'adozione
della lingua norvegese a scapito di quella inglese che, come si sa, da sempre,
nel metal, va per la maggiore fra le band non anglosassoni. L'approdo alla
lingua inglese per i Lupi avvenne in pompa magna niente meno che con i
versi di William Blake, sui quali si basava il doppio album "Themes
from William Blake's The Marriage of Heaven and Hell", opera di
transizione già sospesa fra metal ed elettronica. Quanto a Garm, che mutava il
suo pseudonimo in Trickster G. ed indossava per l'occasione giacca e
cravatta, recitava estratti dal poema, cosa che gli risparmiava perlomeno la
scrittura dei testi. Quanto alla pronuncia, la musica era così bella e il canto
così carismatico, che qualche difetto passò in secondo piano, complice anche il
fatto che la voce veniva spesso effettata a scapito della comprensione dei
testi stessi.
Successivamente,
ossia da quando la band decise di cambiare definitivamente pelle ed uscire dal Reamedel Metallo, i Nostri, fra album ufficiali, EP e colonne sonore, sembrarono
propendere, almeno per un certo periodo, per il paradigma strumentale:
fra i vari silenzi, il canto di Rygg si smaterializzava in vocalizzi fluttuanti
ed impalpabili, schegge di avanguardia in cui la stessa voce fungeva più da
strumento musicale che da veicolo di messaggi. Egli preferì dunque dismettere
le vesti di vocalist e front-man per approfondire le sue basi di
elettronica e dedicarsi alla parte concettuale della sua musica: un vero
peccato, visto che Rygg, nonostante le imperfezioni, era stato uno dei cantanti
più geniali dell'universo metal. E la parallela carriera con gli Arcturus
lo aveva ampiamente confermato.
I
suoi testi però non li ho mai capiti fino in fondo e a tratti mi è persino
venuto il sospetto che egli fosse un paroliere poco ispirato, cosa che
si riscontra anche andando a leggere via via le note scritte di suo pugno nei booklet
dei CD. Non è questione di contenuti o di punti di vista divergenti, ma di
modalità: l'impressione è quella che una persona in origine brillante, una
volta calata nelle vie ristrette di una lingua non sua, si limiti a fare
battute fulminee e volutamente criptiche per celare le falle della sua scarsa
padronanza della lingua stessa e dunque l'incapacità di sviluppare discorsi più
articolati ed esprimere concetti più complessi. In questi "flash
lirici" egli disseminava e dissemina ancora errori, non tanto a livello
grammaticale quanto a livello di costruzione della frase, come se continuasse a
tradurre dal norvegese e non riuscisse a penetrare nello spirito autentico
della lingua inglese.
Non
so come e quando esattamente un cantante non-madrelingua inizi veramente a
scrivere testi decenti, forse quando si fa aiutare da qualcuno. Rygg, da parte
sua, sembra continuare a muoversi con la goffaggine dell'autodidatta. Del resto
non mi pare che egli abbia mai dato particolarmente importanza al lato
testuale, e il fatto che capiti di frequente che i Lupi pubblichino
album quasi strumentali ne è la riprova. E non è detto che le due cose siano
collegate e che addirittura i limiti nelle capacità espressive si traducano in
una forma artistica più ermetica, secondo la regola del "far di vizio
virtù".
In
realtà gli Ulver alterneranno album semi-strumentali a lavori
"stra-cantati" in cui Rygg sembra abbandonarsi ad una sorta di
improvvisa "bulimia vocale": il caso più eclatante è "Blood
Inside", un album a mio parere rovinato dall'eccessiva quantità di
stratificazioni sonore e sovra-incisioni vocali: una complessità non sempre
sapientemente domata.
Proprio
con questo approccio viene realizzata "February MMX", episodio
decisamente anomalo e in controtendenza con i toni dimessi e crepuscolari che
aleggiano nell’album in cui è contenuta: quel "Wars of the Roses"
che era stato figlio legittimo del capolavoro "Shadows of the Sun".
Sebbene
non si possa affermare che esistano due album uguali degli Ulver, vi è una
continuità fra le due opere, soltanto che "Shadows..." è un miracolo
di equilibrio, mentre "Wars..." appare meno rigoroso, ma soprattutto
si mostra assai sbilanciato: con le sue tracce che si muovono nei consueti
territori dell'elettronica ambientale, di ballata in ballata, fra umori dark e
qualche guizzo progressivo, finirà con lo stemperarsi nei sacrali ultimi
quindici minuti di "Stone Angels" (che porteranno dritti alle
liturgie di "Messe I.X-VI.X"). Eppure l'album era partito a
tutta birra con un brano di apertura movimentatissimo, la presente
"February MMX": un episodio avulso dal resto del lavoro e che sembra
invece richiamare la scrittura esagitata e compulsiva di "Blood
Inside".
Lo
dico subito: il brano è un capolavoro di arte ulveriana. Ed
io, che seguo la band con passione da sempre, posso permettermi di evidenziarne
i difetti. "February MMX" è una confusionaria cavalcata pseudo-pop
che in appena quattro minuti confonde le classiche ricercatezze sonore della
band con uno strano piglio rock che suona quasi inedito per i norvegesi:
un batterista in carne ed ossa incalza i tempi facendosi spazio fra rintocchi
di piano sospesi fra essenzialità new-wave e retrogusto jazzy,
mentre la marea montante dei synth e lo scricchiolio dei pattern
elettronici non rinnegano le ambizioni colte della band, tanto che potremmo
parlare di progressive, ma di quello "sintetico" in salsa
ottanta che porterà al pop sofisticato di David Bowie, Peter Gabriel
e David Sylvian.
Insomma:
un brano irresistibile innanzi al quale per me ogni volta è
letteralmente impossibile stare fermo. Ricordo con piacere una serie di sabati
mattina che, ancora frastornato dalla sbornia della sera prima, amavo spararmi
il pezzo a tutto volume mentre compivo i riti del mattino fra bagno, camera e
cucina, ballando, sculettando, agitandomi in modo ambiguo per le stanza e
bissando, con il catarro in gola e la raucedine dell'alcool, la voce obliqua di
Rygg.
Per
ogni fan del cantante è una gioia poter assistere a tale tripudio di vocalità,
situazione sempre più rara in casa Ulver. Cosa ancora più rara, il brano
dispone di un ritornello, che si va ad insinuare platealmente nelle corsie
tortuose di questo circuito in cui le note sfrecciano come bolidi. La voce di
Rygg, oscura, beffarda ed epica al tempo stesso, è parte attiva nel
dinamismo del brano: un fiume di parole che il cantante sciorina, fra una
sbavatura ed una forzatura di metrica, con passo da giocoliere, proprio
come piace a noi.
Parole:
chiudiamo dunque il cerchio con il testo. Un titolo come "February
MMX" è il classico titolo generato da una mente non molto interessata ai
titoli: "Febbraio 2010" è infatti probabilmente il periodo in cui è
stata scritta la canzone, visto che l'album usciva nel 2011, una di quelle
trovate escogitate all’ultimo minuto e scelte in fretta e furia in mancanza di
idee migliori, ad album oramai registrato e davanti al pc con il grafico
impaziente.
E
sebbene Rygg vorrebbe ergersi ad artista profetico che penetra a fondo nel
senso della realtà e che con poche ed efficaci immagini tratteggia il carattere
di un'epoca intera (la nostra...), alla fine la via da lui scelta, quella dell'ermetismo
surreale che nasconde l'assenza di reali contenuti, è una scelta di comodo
dettata dalla scarsa conoscenza dell'inglese. Prendete il ritornello, sentite
come suona male "the vertical lights of death in codes of red and
blue", ma sopratutto spiegatemi cosa diavolo dovrebbero essere "le luci
verticali della morte in codici rosso e blu".
Più
invecchio e più maturo l'idea che l'arte, anche la più astratta e
pungente, rimanga, in estrema sintesi, un insieme equilibrato di forme e
colori: se penso agli Ulver, penso a tanti dettagli vincenti che non si
relazionano sempre bene. Inutile dunque soffermarsi oltremodo sul testo del
brano: la musica degli Ulver rimane unica ed inimitabile con tutti i suoi
difetti, e come per magia ne rimango sempre stregato qualunque forma essa
assuma, black metal, folk, industrial, elettronica, ambient, avanguardia, pop,
dark, rock, prog o il diavolo che volete.
E
"February MMX" non fa eccezione: ascoltatela e ballatela come se
foste nella primavera del vostro amore, anche se fuori fa un freddo bastardo...