Quante band fanno parte delle
nostre discografie private? Personalmente non le ho mai contate ma siamo sicuramente su un numero a tre cifre. Di alcune di esse possediamo ogni album, studio e live; di
altre la discografia parziale e di altre ancora magari solo uno/due album (quelli che, attraverso discussioni con altri appassionati e/o ricerche in rete,
abbiamo letto essere quelli più rappresentativi).
Il desiderio massimo di un collezionista indefesso (brutta malattia quella del collezionismo…a tal proposito consiglio la visione del decimo ed ultimo episodio del “Decalogo” di K. Kieslowski, 1989) è quello di avere quantomeno tutto di ciò che in un determinato genere è considerato imprescindibile. Dischi senza i quali non potrem(m)o mai considerarci davvero conoscitori esperti di ciò che amiamo così tanto.
Ma poi c’è il contorno. C’è tutta quella genie di band che, appunto nel genere
e sottogenere di appartenenza, non hanno inciso in modo sostanziale rispetto ai
gruppi di riferimento. Ma che, per un motivo o per l’altro, un segno nei nostri
cuori l’hanno lasciato. Magari anche solo con un album. O ancor meno: con una
manciata di canzoni; o addirittura con una singola canzone, una linea melodica
che ci si è stampata indelebilmente in testa. Come esempio per quest’ultimo
caso mi vengono in mente i Crematory,
band che non ho mai apprezzato appieno in quanto alla lunga ripetitiva e
noiosa. Anche in quelli considerati come le loro migliori opere, vale a dire
“Illusions” (1995) ed “Awake” (1997). Però, seppur non li ascolti da una quindicina
d’anni, ricordo sempre a memoria, e con grande piacere, delle linee melodiche
che mi fanno sussultare, come ad esempio “Tears of time” dal primo o, dal
secondo, le parti di pianoforte accompagnate dalle clean vocals in “Away”; o
ancora il chorus di “For love”.
Ma oggi non ci focalizziamo sui
Crematory del tondeggiante “Felix” Stass ma su un’altra band tedesca, gli Ivanhoe. Gli Ivanhoe sono bravi, sono
tecnici, non hanno mai pubblicato degli album particolarmente negativi. Ma
nonostante tutto non sono mai riusciti a sfondare. Attivi ormai da una trentina
d’anni, con un paio d’anni di buco dovuti ad uno split, ormai non se li fila
nessuno. Ed è stato davvero un peccato, uno “spreco” di talento, perché è di talento che è
pieno il debut “Visions And Reality”
(1994). Un album davvero piacevole, ottimo direi, seppur derivativo dei padri
tutelari Queensrӱche, Fates Warning e soprattutto (nel sound come nel
songwriting) di “When dream and day unite”, disco d’esordio mai troppo osannato
(e spesso incredibilmente sottovalutato) dei Dream Theater.
Nell’arco dei 55
minuti che compongono VAR, con tanto di intro e outro, non ci si annoia mai (ad
eccezione, forse, della trascurabile “Wait”) e si raggiungono apici assoluti
come nelle splendide “Fallen reasons” (il cui chorus mi ritrovo spesso a
cantare di punto in bianco) o “Miracle of a master’s child”. Brani più tirati
(“Written in stone”, “Rebellion and indecision”), ballad emozionanti (“Eternal
light”), mini-suite (l’ottima “Into the realm of unknown” di oltre 7 minuti di
durata, compendio dell’Ivanhoe-sound): i Nostri in VAR non ci/si fanno mancare
nulla, azzeccando quasi sempre le linee melodiche vincenti, senza mai essere
pedanti o tecnicamente ridondanti. Se non si dà troppo peso alla produzione un
po’ zoppicante e troppo bass-oriented, e ci si abitua alla voce un po’
particolare, su ottave molto alte, di Andy Franck (soppiantato negli album
successivi dal più “canonico” Mischa Mang), allora direi che il disco può fare
davvero al caso di tutti gli amanti del prog metal più intelligente.
Ahimè, i Nostri non si sapranno
più ripetere in futuro su questi livelli, dando alle stampe, come detto, album
discreti (penso ad esempio a “Symbols of time” e “Walk in mindfields”) perdendo
però quella verve e quella freschezza di scrittura riscontrabile invece in modo
massiccio in VAR.
Forse la loro pecca è stata quella di fare un
prog metal non troppo originale, come detto derivativo di quello americano; in
un periodo in cui il furor germanicus che riempiva le riviste specializzate era
dedito al power restaurativo, quello da “defender” tanto per intenderci.
Non avranno la classe e l'eleganza degli Everon, o l'estro e l'ecletticità compositiva dei Sieges Even (giusto per rimanere in ambito prog teutonico) eppure gli Ivanohe per me rimangono importanti; uno di quei gruppi "di contorno" la cui esistenza ha in qualche modo reso più ricco me (e questo ovviamente conta zero) ma ha anche aggiunto un piccolo mattoncino di credibilità e completezza alla Grande Storia del Metallo.
A dimostrazione che anche quei gruppi che appaiono "inutili", a volte, assolvono un'utile funzione.
A cura di Morningrise