24 mar 2017

A NIGHT WITH...WHITE LIES




Forse questa non è una storia metal, ma potrebbe essere una storia comunque interessante, perché portatrice di un messaggio universale.

Parto proprio da una riflessione generale: le belle donne o gli uomini belli piacciono a tutti. Vi sono però delle specifiche fisionomie che ci piacciono più delle altre. Tali fisionomie non ci lasciano mai indifferenti e a volte ci attirano come calamite, a prescindere che la persona che le "ospita" sia più o meno bella secondo i nostri canoni di bellezza. Non parlo di attributi generici come l'altezza ("mi piacciono gli uomini alti") o il colore dei capelli ("mi piacciono le donne bionde"), ma di sfumature, conformazioni del viso, particolari fattezze del corpo, un intreccio di dettagli che è difficile descrivere o rendere a parole: sentiamo che ci piace e basta.

Questo assunto è applicabile anche ad altri ambiti, fra cui ovviamente quello musicale. Al di là della qualità di un singolo prodotto, spessa giudicato attraverso le lenti degli standard suggeriti dal "pensiero dominante" di volta in volta vigente, un artista ci piace più di altri. Ed addirittura può capitare che ci intrighino artisti che lasciano gli altri indifferenti.

Una sensazione del genere, oserei dire "controcorrente", l'ho sempre avuta con gli inglesi White Lies, a partire da quando li incontrai per la prima volta imbattendomi, per puro caso, nel video di "Farewell tothe Fairground": fu amore a prima vista, tanto che mi precipitai subito ad informarmi sul loro conto. Ma con quale dispiacere appresi che erano schifati dalla critica, sebbene (o proprio per questo) fossero approdati al primo posto delle chart inglesi con il loro debutto "To Lose My Life...": tutta forma e niente sostanza, zero innovazione, fautori di stilemi fritti e rifritti e portatori, infine, di un romanticismo talmente esasperato da risultare artificioso, nonché stucchevole.

Il fatto è che, debuttando nel 2009, essi giunsero veramente fuori tempo massimo per montare sul carrozzone (già non più vincente, come qualche anno prima) del post-punk revival: un filone lanciato alla ribalta dagli Interpol (il loro folgorante album di esordio "Turn on the Bright Lights" usciva nell'oramai "lontano" 2002) e poi nutrito da molte altri gruppi, primi fra tutti quegli Editors che, esordendo qualche anno dopo (nel 2005, per l’esattezza), avrebbero poi assunto un ruolo guida nel movimento, complice anche il calo d'ispirazione che ammorbò quasi fin da subito gli Interpol stessi.

Post-punk revival: ossia, riverniciare a nuovo gli umori che misero in musica band come Joy Division, Echo and the Bunnyman, primissimi U2. Per certi aspetti, un trend anticipato dai nostri Paradise Lost della svolta "One Second"/"Host". Ma la nuova corrente capitanata da Interpol ed Editors non aveva la pesantezza e la goffaggine che spesso porta con sé il metal votato alle atmosfere gotiche. A queste nuove band, in altre parole, piacque vincere facile, e, dobbiamo ammetterlo, alla fine hanno vinto per davvero.

Ci sono infatti dei generi che son fatti per piacere e il post-punk revival è uno di questi. Facendo ancora un parallelo con il mondo del metal, pensate a certe forme orecchiabili di power o a certo thrash semplice ed efficace: sai quel che ti aspetti e non rimani mai deluso. E così accade con queste band, produttrici seriali di brani ballabili e coinvolgenti, con voce da bel tenebroso e ritornelli plateali ideali da cantare a squarciagola negli stadi (da qui anche la definizione di arena-rock). Il sospetto che vi sia del mestiere prima o poi si palesa sempre, ma quando te ne accorgi è troppo tardi, o forse non te ne frega nulla, perché questa è musica che non può non piacere nella sua schietta efficacia. Questa impressione di "pilota automatico" si percepisce più che altro con gli Editors, che pur non mi dispiacciono, ma per i White Lies è diverso: loro mi piacciono anche nei momenti di minor ispirazione, non ci posso fare nulla.

Io lo capisco perché all'inizio stavano sul cazzo alla critica, i White Lies: perché fra tutti erano quelli più stereotipati, sempliciotti nelle ambizioni e nella realizzazione dei brani. Con una evidente "mano amica" dei discografici (raggianti per la capacità della band di confezionare brani radiofonici e di facile presa) che indicava e suggeriva soluzioni, arrangiamenti e scelte stilistiche.

E così, mentre gli Editors, già alla terza prova in studio con "In this Light and on this Evening", svoltavano verso l'elettronica dei New Order, emancipandosi da certe ingenuità degli esordi, i White Lies riproponevano un “revival ottanta” più spudorato che mai, il quale tirava in ballo anche il pop epico ed energico dei Tears for Fears. Nonostante titoli come "Death" e "To Lose my Life" (del resto i Nostri scelsero l’appellativo di “bugie bianche” proprio con l’intento di sbandierare le “scomode verità” – mamma, che paura…), i brani non graffiavano affatto, preferendo aprirsi ad un approccio melodico che vedeva in primo piano chitarre in delay ed ariose tastiere. Insomma, un successo per le masse in cerca di facili emozioni, complice anche la bella voce di Harry McVeigh (sulla falsariga di un Robert Smith al netto di talento e nevrosi), diviso fra chitarre e tastiere. La formazione si completava con Charles Cave e Jack Lawrance-Brown, rispettivamente al basso ed alla batteria, i quali assicuravano una sezione ritmica dannatamente efficace.

Con il secondo album "Ritual" (2011) si continua a non gridare al miracolo, ma la band si evolve, emancipandosi da certi cliché e facendosi ancora più solare: sebbene non vi siano pezzi sopra la media come nel debutto (e penso a brani come “To Lose My Life", "Farewell to the Fairground" e "The Price of Love"), le composizioni si mostrano più articolate e ragionate, mentre il talento melodico di McVeigh rimane indefesso. Ed un brano come "Bigger than Us" (oggi divenuto il classico che chiude i concerti) è lì a dimostrarlo: non si capisce cosa abbia di speciale, ma si fa piacere. O meglio, a me piace, forse perché alla "fisionomia" degli White Lies non so resistere: laddove le altre band del genere, o sono brave nel fare il loro mestiere, o hanno usato il proprio talento per ampliare il range sonoro (e penso a nomi come Arcade Fire e National), i White Lies rimangono dei musicisti limitati, che tuttavia nella penna di McVeigh trovano un loro stile, fatto di impercettibili variazioni giocate sui soliti luoghi comuni su cui il genere intero si regge.

Con "Big TV", del 2013, gli inglesi confezionano il loro capolavoro, quello che, appoggiato finalmente dalla critica, mi spinge a rompere gli indugi e a procedere, dopo tanti anni di tentennamenti, all'acquisto. L'album è questa volta animato da un concept e suona compatto e finalmente figlio di una grande determinazione, con i soliti brani che funzionano alla grande, come la title-track e "There Goes Our Love Again": i legami con il post-punk/dark delle origini (se così si poteva chiamare...) sono sempre più labili, visto che la band conquista la piena maturità con un sound personale e subito riconoscibile, dove le tinte scure vengono sacrificate per approssimarsi ulteriormente al power-pop epico della premiata ditta Roland Orzabal/Curt Smith. Peccato che solo la critica (costretta a ravvedersi) se ne sia resa conto, mentre il grande pubblico, miope come al solito, voltava lo sguardo altrove.

Ma se McVeigh e compagni hanno una qualità, è quella della testardaggine, e pur rimanendo una realtà dal forte potenziale commerciale, i Nostri decidono di proseguire per la loro strada, continuando ad evolversi ed allontanandosi dalle sonorità irruenti che avevano determinato il loro successo. Giungendo così a “Friends”, ultimo parto discografico pubblicato nel 2016: un album praticamente synth-pop ed oramai consacrato al verbo degli anni ottanta più sintetici e romantici, con Depeche Mode come riferimento primo e persino con qualche sfumatura leziosa in stile Queen pop-oriented. Anche questo quarto album, come i suoi predecessori, è un lavoro di pregevole fattura, conservando i lati positivi della band (una buona scrittura, ritornelli accattivanti, la bella voce di McVeigh), trasponendoli però in un impianto più ragionato, che se ha un difetto è proprio quello di indugiare troppo nella cura degli arrangiamenti, perdendo così un po' di mordente e quella freschezza che animava i brani in passato. Un esempio di tutto questo, nel bene o nel male, è "Hold Back Your Love", praticamente basata su tastiere.

Eccoci dunque alla sera del 4 marzo scorso: anche per i White Lies è giunto il momento di passare da Londra (in verità vi erano già passati l'anno scorso facendo registrare un tutto esaurito in vista del loro tour di supporto a “Friends”): siamo dunque al Troxy, locale “simil-discoteca” bello laccato e dagli interni barocchi che ben si sposano alle caratteristiche dell'evento. Giovani, giovanissimi (e ragazze straordinarie - su questo il pop ha tanto da insegnare al metal) intorno a me. Ma senza tanti giri di parole, quello che vi posso dire sul loro conto a fine concerto è: bravi White Lies!

McVeigh (classe 1988!) si conferma un coglionotto che dal vivo poco spiega: con la sua faccia a bamboccio e con i denti a castoro che spiccano a decine di metri di distanza, la sua pochezza ai fini dell’intrattenimento diviene lampante. Da rispettare, ad ogni modo, la sua scelta di continuare a suonare la chitarra dal vivo, così sacrificando il suo ruolo di front-man. Non che si sia al cospetto di un novello Jimi Hendrix (del resto le parti di chitarra sono sempre più essenziali nell'economia del suono della band: quasi sembrano avere un ruolo di riempitivo per rafforzare certi passaggi altresì retti dalle tastiere), però il Nostro si concede poche sbavature e maneggia lo strumento con una certa sicurezza, non inficiando una prestazione vocale nel complesso convincente (sebbene non si possa definire egli un cantante carismatico).

Sulla sinistra il session Tommy Bowen, con l'agilità di una mummia, si cura delle tastiere (irrinunciabili per la band); sul lato destro del palco, Cave assicura il groove con il suo basso distorto ed iper-amplificato. Sopra, alle spalle di tutti, svetta Lawrance-Brown: una prova muscolare, la sua, che fra scoppiettanti cambi di tempo, ripartenze e incalzanti trottate di tom, piatto e charleston, detta i tempi che è una bellezza, conferendo potenza, scorrevolezza e dinamismo ai diciotto brani presentati stasera.

Insomma, chi temeva un'esecuzione fiacca e confusionaria, con voce svociata e cascate di suoni pre-registrati, sarà rimasto piacevolmente sorpreso. Di contro non si capisce come mai i Nostri si accontentino di "suonare", non giocando (e potrebbero farlo, visto il grosso del loro seguito) sull'immagine, sugli "effetti speciali" e su qualche uscita da cabaret a cui le grandi star (Akerfeldt compreso) generalmente ricorrono. Ad avvolgere i musicisti, fin troppo concentrati sui propri strumenti (manco suonassero prog!), vi sono perlomeno dei giochi di luce che si coordinano perfettamente con la musica, risultando a tratti suggestivi, a tratti persino spettacolari (in particolare nel gran finale marcato dalla immancabile "Bigger than Us").

Quanto alla scaletta (che predilige il primo album, quello di maggior successo - ben sette gli estratti!), è semplicemente perfetta. Del resto era difficile sbagliare: la band sa scrivere i singoli, i quali sono anche gli episodi che spiccano dai loro album. Per questo un semplice compendio dei loro brani più famosi diviene per forza di cose un ideale "best of": un riassunto che finisce per rivelarsi ben più godibile degli album presi per intero, visto che qualche momento sottotono lo riservano sempre.

A tutti quelli che vorranno approfondire il discorso, consiglio dunque l'acquisto di un album dal vivo che ad oggi non è ancora stato realizzato, ma che sicuramente non tarderà a fare la sua fiera e pompata comparsa nei negozi di dischi e negli autogrill di tutto il mondo...