Forse
questa non è una storia metal, ma potrebbe essere una storia comunque
interessante, perché portatrice di un messaggio universale.
Parto
proprio da una riflessione generale: le belle donne o gli uomini belli
piacciono a tutti. Vi sono però delle specifiche fisionomie che ci piacciono
più delle altre. Tali fisionomie non ci lasciano mai indifferenti e a volte ci
attirano come calamite, a prescindere che la persona che le "ospita"
sia più o meno bella secondo i nostri canoni di bellezza. Non parlo di attributi
generici come l'altezza ("mi piacciono gli uomini alti") o il colore
dei capelli ("mi piacciono le donne bionde"), ma di sfumature,
conformazioni del viso, particolari fattezze del corpo, un intreccio di
dettagli che è difficile descrivere o rendere a parole: sentiamo che ci piace e
basta.
Questo
assunto è applicabile anche ad altri ambiti, fra cui ovviamente quello
musicale. Al di là della qualità di un singolo prodotto, spessa giudicato
attraverso le lenti degli standard suggeriti dal "pensiero
dominante" di volta in volta vigente, un artista ci piace più di altri. Ed
addirittura può capitare che ci intrighino artisti che lasciano gli altri
indifferenti.
Una
sensazione del genere, oserei dire "controcorrente", l'ho sempre
avuta con gli inglesi White Lies, a partire da quando li incontrai per
la prima volta imbattendomi, per puro caso, nel video di "Farewell tothe Fairground": fu amore a prima vista, tanto che mi precipitai
subito ad informarmi sul loro conto. Ma con quale dispiacere appresi che erano
schifati dalla critica, sebbene (o proprio per questo) fossero approdati al
primo posto delle chart inglesi con il loro debutto "To Lose My
Life...": tutta forma e niente sostanza, zero innovazione, fautori di
stilemi fritti e rifritti e portatori, infine, di un romanticismo talmente
esasperato da risultare artificioso, nonché stucchevole.
Il
fatto è che, debuttando nel 2009, essi giunsero veramente fuori tempo massimo
per montare sul carrozzone (già non più vincente, come qualche anno prima) del post-punk
revival: un filone lanciato alla ribalta dagli Interpol (il loro
folgorante album di esordio "Turn on the Bright Lights" usciva
nell'oramai "lontano" 2002) e poi nutrito da molte altri gruppi,
primi fra tutti quegli Editors che, esordendo qualche anno dopo (nel
2005, per l’esattezza), avrebbero poi assunto un ruolo guida nel movimento,
complice anche il calo d'ispirazione che ammorbò quasi fin da subito gli
Interpol stessi.
Post-punk
revival: ossia, riverniciare a nuovo gli umori che misero in musica band
come Joy Division, Echo and the Bunnyman, primissimi U2.
Per certi aspetti, un trend anticipato dai nostri Paradise
Lost della svolta "One Second"/"Host". Ma
la nuova corrente capitanata da Interpol ed Editors non aveva la pesantezza e
la goffaggine che spesso porta con sé il metal votato alle atmosfere gotiche. A
queste nuove band, in altre parole, piacque vincere facile, e, dobbiamo
ammetterlo, alla fine hanno vinto per davvero.
Ci
sono infatti dei generi che son fatti per piacere e il post-punk revival è uno
di questi. Facendo ancora un parallelo con il mondo del metal, pensate a certe
forme orecchiabili di power o a certo thrash semplice ed
efficace: sai quel che ti aspetti e non rimani mai deluso. E così accade con
queste band, produttrici seriali di brani ballabili e coinvolgenti, con voce da
bel tenebroso e ritornelli plateali ideali da cantare a squarciagola negli
stadi (da qui anche la definizione di arena-rock). Il sospetto che vi
sia del mestiere prima o poi si palesa sempre, ma quando te ne accorgi è troppo
tardi, o forse non te ne frega nulla, perché questa è musica che non può non
piacere nella sua schietta efficacia. Questa impressione di "pilota
automatico" si percepisce più che altro con gli Editors, che pur non
mi dispiacciono, ma per i White Lies è diverso: loro mi piacciono anche nei
momenti di minor ispirazione, non ci posso fare nulla.
Io
lo capisco perché all'inizio stavano sul cazzo alla critica, i White Lies:
perché fra tutti erano quelli più stereotipati, sempliciotti nelle ambizioni e
nella realizzazione dei brani. Con una evidente "mano amica" dei
discografici (raggianti per la capacità della band di confezionare brani radiofonici
e di facile presa) che indicava e suggeriva soluzioni, arrangiamenti e scelte
stilistiche.
E
così, mentre gli Editors, già alla terza prova in studio con "In this
Light and on this Evening", svoltavano verso l'elettronica dei New
Order, emancipandosi da certe ingenuità degli esordi, i White Lies
riproponevano un “revival ottanta” più spudorato che mai, il
quale tirava in ballo anche il pop epico ed energico dei Tears for Fears.
Nonostante titoli come "Death" e "To Lose my Life"
(del resto i Nostri scelsero l’appellativo di “bugie bianche” proprio
con l’intento di sbandierare le “scomode verità” – mamma, che paura…),
i brani non graffiavano affatto, preferendo aprirsi ad un approccio melodico
che vedeva in primo piano chitarre in delay ed ariose tastiere. Insomma,
un successo per le masse in cerca di facili emozioni, complice anche la bella
voce di Harry McVeigh (sulla falsariga di un Robert Smith al
netto di talento e nevrosi), diviso fra chitarre e tastiere. La formazione si
completava con Charles Cave e Jack Lawrance-Brown,
rispettivamente al basso ed alla batteria, i quali assicuravano una sezione
ritmica dannatamente efficace.
Con
il secondo album "Ritual" (2011) si continua a non gridare al
miracolo, ma la band si evolve, emancipandosi da certi cliché e
facendosi ancora più solare: sebbene non vi siano pezzi sopra la media come nel
debutto (e penso a brani come “To Lose My Life", "Farewell
to the Fairground" e "The Price of Love"), le
composizioni si mostrano più articolate e ragionate, mentre il talento melodico
di McVeigh rimane indefesso. Ed un brano come "Bigger than Us"
(oggi divenuto il classico che chiude i concerti) è lì a dimostrarlo: non si
capisce cosa abbia di speciale, ma si fa piacere. O meglio, a me piace, forse
perché alla "fisionomia" degli White Lies non so resistere: laddove
le altre band del genere, o sono brave nel fare il loro mestiere, o hanno usato
il proprio talento per ampliare il range sonoro (e penso a nomi come Arcade
Fire e National), i White Lies rimangono dei musicisti limitati, che
tuttavia nella penna di McVeigh trovano un loro stile, fatto di impercettibili variazioni
giocate sui soliti luoghi comuni su cui il genere intero si regge.
Con
"Big TV", del 2013, gli inglesi confezionano il loro
capolavoro, quello che, appoggiato finalmente dalla critica, mi spinge a
rompere gli indugi e a procedere, dopo tanti anni di tentennamenti,
all'acquisto. L'album è questa volta animato da un concept e suona
compatto e finalmente figlio di una grande determinazione, con i soliti brani
che funzionano alla grande, come la title-track e "There
Goes Our Love Again": i legami con il post-punk/dark delle origini (se
così si poteva chiamare...) sono sempre più labili, visto che la band conquista
la piena maturità con un sound personale e subito riconoscibile, dove le
tinte scure vengono sacrificate per approssimarsi ulteriormente al power-pop
epico della premiata ditta Roland Orzabal/Curt Smith. Peccato che
solo la critica (costretta a ravvedersi) se ne sia resa conto, mentre il grande
pubblico, miope come al solito, voltava lo sguardo altrove.
Ma
se McVeigh e compagni hanno una qualità, è quella della testardaggine, e pur
rimanendo una realtà dal forte potenziale commerciale, i Nostri decidono di
proseguire per la loro strada, continuando ad evolversi ed allontanandosi dalle
sonorità irruenti che avevano determinato il loro successo. Giungendo così a “Friends”,
ultimo parto discografico pubblicato nel 2016: un album praticamente synth-pop
ed oramai consacrato al verbo degli anni ottanta più sintetici e romantici, con
Depeche Mode come riferimento primo e persino con qualche sfumatura
leziosa in stile Queen pop-oriented. Anche questo quarto album,
come i suoi predecessori, è un lavoro di pregevole fattura, conservando i lati
positivi della band (una buona scrittura, ritornelli accattivanti, la bella
voce di McVeigh), trasponendoli però in un impianto più ragionato, che se ha un
difetto è proprio quello di indugiare troppo nella cura degli arrangiamenti,
perdendo così un po' di mordente e quella freschezza che animava i brani in
passato. Un esempio di tutto questo, nel bene o nel male, è "Hold Back
Your Love", praticamente basata su tastiere.
Eccoci
dunque alla sera del 4 marzo scorso: anche per i White Lies è giunto il
momento di passare da Londra (in verità vi erano già passati l'anno scorso
facendo registrare un tutto esaurito in vista del loro tour di
supporto a “Friends”): siamo dunque al Troxy, locale “simil-discoteca”
bello laccato e dagli interni barocchi che ben si sposano alle caratteristiche
dell'evento. Giovani, giovanissimi (e ragazze straordinarie - su questo il pop
ha tanto da insegnare al metal) intorno a me. Ma senza tanti giri di parole,
quello che vi posso dire sul loro conto a fine concerto è: bravi White Lies!
McVeigh
(classe 1988!) si conferma un coglionotto che dal vivo poco spiega: con
la sua faccia a bamboccio e con i denti a castoro che spiccano a decine di
metri di distanza, la sua pochezza ai fini dell’intrattenimento diviene
lampante. Da rispettare, ad ogni modo, la sua scelta di continuare a suonare la
chitarra dal vivo, così sacrificando il suo ruolo di front-man. Non che
si sia al cospetto di un novello Jimi Hendrix (del resto le parti di
chitarra sono sempre più essenziali nell'economia del suono della band: quasi
sembrano avere un ruolo di riempitivo per rafforzare certi passaggi altresì
retti dalle tastiere), però il Nostro si concede poche sbavature e maneggia lo
strumento con una certa sicurezza, non inficiando una prestazione vocale nel
complesso convincente (sebbene non si possa definire egli un cantante
carismatico).
Sulla
sinistra il session Tommy Bowen, con l'agilità di una mummia, si
cura delle tastiere (irrinunciabili per la band); sul lato destro del palco,
Cave assicura il groove con il suo basso distorto ed iper-amplificato. Sopra,
alle spalle di tutti, svetta Lawrance-Brown: una prova muscolare, la sua, che
fra scoppiettanti cambi di tempo, ripartenze e incalzanti trottate di tom,
piatto e charleston, detta i tempi che è una bellezza, conferendo
potenza, scorrevolezza e dinamismo ai diciotto brani presentati stasera.
Insomma,
chi temeva un'esecuzione fiacca e confusionaria, con voce svociata e cascate
di suoni pre-registrati, sarà rimasto piacevolmente sorpreso. Di contro non si
capisce come mai i Nostri si accontentino di "suonare", non giocando
(e potrebbero farlo, visto il grosso del loro seguito) sull'immagine, sugli
"effetti speciali" e su qualche uscita da cabaret a cui le
grandi star (Akerfeldt compreso) generalmente ricorrono. Ad
avvolgere i musicisti, fin troppo concentrati sui propri strumenti (manco
suonassero prog!), vi sono perlomeno dei giochi di luce che si coordinano
perfettamente con la musica, risultando a tratti suggestivi, a tratti persino
spettacolari (in particolare nel gran finale marcato dalla immancabile
"Bigger than Us").
Quanto
alla scaletta (che predilige il primo album, quello di maggior successo - ben
sette gli estratti!), è semplicemente perfetta. Del resto era difficile
sbagliare: la band sa scrivere i singoli, i quali sono anche gli episodi che
spiccano dai loro album. Per questo un semplice compendio dei loro brani più
famosi diviene per forza di cose un ideale "best of": un
riassunto che finisce per rivelarsi ben più godibile degli album presi per
intero, visto che qualche momento sottotono lo riservano sempre.
A
tutti quelli che vorranno approfondire il discorso, consiglio dunque l'acquisto
di un album dal vivo che ad oggi non è ancora stato realizzato, ma che
sicuramente non tarderà a fare la sua fiera e pompata comparsa nei negozi di
dischi e negli autogrill di tutto il mondo...