Sono un ragazzo prolisso, ma non amo assecondare questo mio
difetto, semmai cerco di sfidarmi proprio su terreni a me ostili. Prendo dunque
una delle band che più amo e mi getto in una dissertazione a rotta di collo,
superficiale, o meglio, essenziale.
I Death SS: tutti li conoscono, tutti si toccano
le palle! Ma ci sono i più giovani, ed anche i distratti, e poi parlare dei
Death SS non è mai tempo sprecato.
"...In
Death of Steve Sylvester", 1988.
La band capitanata da Steve Sylvester (unico membro
stabile da qui in avanti) giunge finalmente al debut-album dopo anni di travagliata
gavetta (documentata dall’operazione "The Story of Death SS 1977 -1984"
che decidiamo di non trattare in quanto raccolta). Paul Chain non è più
parte del gruppo e il sound ne risente, sposando sonorità meno
sperimentali e più classicamente hard & heavy predilette dal
luciferino vocalist. La produzione grezza ed artigianale forse non
valorizza adeguatamente i buoni pezzi (a tratti ancora acerbi e con qualche
ingenuità di troppo disseminata qua e là), ma conferisce sicuramente fascino
alle atmosfere macabre professate dalla band. Come noto anche ai sassi,
infatti, la formazione si rifà ad un immaginario satanico (ben rappresentato
dalla copertina che ritrae il Nostro elegantemente vestito da Satanasso),
ma anche alle suggestioni ricevute dalla letteratura e dalla filmografia horror
più classica. I componenti della band, non a caso, si mascheravano da
personaggi tipici dell'universo dell'orrore (Vampiro, Morte, Mummia, Zombie e
Lupo Mannaro), inaugurando una commistione fra musica ed input visivi che
sarebbe stata denominata "Horror Metal". Musicalmente siamo
dalle parti di un heavy metal dalle tinte classiche (Mercyful Fate
su tutti), dove tuttavia lo shock-rock di Alice Cooper (riferimento
primario per la formazione artistica di Sylvester) ha una sua centralità,
espressa magistralmente dall’ugola spiritata del cantante. "Vampire" e
"Terror" rientreranno di diritto nel novero dei classici più
longevi della band, ma a noi piace ricordare anche le meno nota "The Hunged Ballad", visionaria ballata capace di esprimere tutta la carica
iconoclasta espressa dalla band.
Voto: 7
"Black Mass", 1989.
Notevole è il passo in avanti compiuto da Sylvester e soci
in questa seconda release, con in scaletta ancora qualche
brano ereditato dall'era Paul Chain (due di questi, "Welcome to
my Hell" e "In the Darkness", erano già stati
proposti dai Violet Fire, il progetto avviato dal chitarrista dopo lo
scioglimento-lampo dei Death SS avvenuta nel 1984). La produzione più potente,
ma ancora artigianale, ha sicuramente un merito nella migliore riuscita del
tutto, ma è l'atmosfera malsana che si respira per tutta la durata del platter
a rendere speciale questo capolavoro del “dark-metal” nostrano: un
concentrato di blasfemia (il Nostro, questa volta, si fa ritrarre in copertina in
versione Cristo crocifisso, tanto per rimanere in tema di buon gusto...) ed
umori spettrali che altre band metal con “ambizioni diaboliche” si possono a
malapena sognare. L'anthemica "Kings of Evil", la sabbathiana
"Horrible Eyes", l'irresistibile e rock-oriented "Cursed
Mama" sono ancora oggi fieramente riproposte dal vivo, ma un plauso in
particolare va alla malefica title-track, che, nel suo
svilupparsi (da un incipit gothic-ambient alle contorsioni di un sassofono
isterico, passando per la voce deformata di Sylvester), ricorda più un rituale
che un brano heavy metal: oltre a palesare l’influenza di certe band dark-prog
degli anni settanta a cui i Nostri si rifanno insistentemente, essa costituisce
l’apice sperimentale della band, nonché un picco di intensità che non verrà più
raggiunto in futuro.
Voto: 9
"Heavy Demons", 1991.
Sebbene a molti fan della prima ora la "svolta
professionale" di questo album non sia andata proprio a genio, "Heavy
Demons" per molti altri rappresenta il capolavoro formale della
band. Mai la produzione è stata così pulita, l'esecuzione così tecnica e
precisa. la cura degli arrangiamenti così attenta. È vero, parte del fascino
malsano degli esordi va perduto, ma è innegabile come la band sia cresciuta,
sia a livello tecnico che a livello compositivo, mostrando in certi brani
strutture più articolate e passaggi più elaborati. La stessa prestazione di
Sylvester, all'apice della sua teatralità, risulta essere probabilmente la
migliore di sempre, mentre dal punto di vista musicale si raggiunge un perfetto
equilibrio fra potenza ed atmosfera, grazie ad una coppia d'asce che si muovono
in perfetta simbiosi, l'energico drumming di Ross Lukather e le
onnipresenti tastiere, maestose più che mai. Con il risultato che molti dei
brani qui presenti sono quanto di meglio i Nostri abbiano prodotto e
produrranno: mi riferisco all'adrenalinica opener "Where Have
you Gone?", l'anthemica title-track (che diverrà il
brano-simbolo della band chiamato a chiudere i concerti), la semi-ballad
"Family Vault", la violenta (ai limiti del thrash) "Peace
of Mind" (che invece spesso li aprirà, i concerti) e l'epica "Baphonet",
con un ritornello fra i migliori ideato dal carismatico singer.
Dall'orrorifica introduzione "Walpurginsnacht" (con tanto di
voce narrante di Oliver Reed) alla strumentale "Sorcerous Valley
(Back to the Real)", chiamata a chiudere le danze, il terzo album
dei Death SS non ammette momenti di debolezza e ci mostra una band al top della
forma e delle proprie potenzialità espressive.
Voto: 9
"Do
What Thou Wilt", 1997.
Ci vorranno sei anni per poter ascoltare il successore di
"Heavy Demons": un'attesa che verrà ampiamente ripagata dall'album
più violento mai realizzato dalla band, caratterizzato da suoni sporchi e
caotici e da brani dal forte sentore apocalittico. Un album, questo, che
tuttavia non rinuncia a certe atmosfere seducenti mutuate dall'universo gothic/dark
(a cui la band guarderà in futuro con crescente interesse) e che al tempo
stesso tenta le prime contaminazioni in direzione industrial (le quali,
vedremo, verranno esplorate con maggiore convinzione in seguito). Gioiranno i fan
della prima ora, in quanto l'album, ispirato alle dottrine di Aleister Crowley e sorretto da una formazione a sei totalmente rivoluzionata e che
vede l'ingresso del virtuoso tastierista Oleg Smirnoff (ex Eldritch),
si mostra meno “laccato” del suo predecessore, recuperando le atmosfere
solforose degli esordi e mettendo a segno tre dei migliori colpi della carriera
dei Nostri: "Baron Samedi" (irrobustita da percussioni tribali
in stile rito voodoo), "Scarlet Woman" (bella gothic-song
che trasuda romanticismo da ogni poro) e la power-ballad "The
Serpent Rainbow", con tanto di solismi pinkfloydiani e
controcanti femminili. Un ritorno di sostanza.
Voto: 8
“Panic", 2000.
Le sperimentazioni elettroniche tentate nel
predecessore troveranno completa attuazione in "Panic", album
della "svolta" che vede anche un drastico cambio di look, di
taglio hi-tech, che sembrerebbe richiamare l'immaginario
post-apocalittico della saga di Mad Max. Un groove modernista
che richiama act quali Marilyn Manson e White Zombie si
impadronisce della musica dei Death SS, cosa che coincide con l'importanza
assunta, in sede di scrittura, dal tastierista Oleg Smirnoff. Sebbene i
presupposti abbiano sicuramente lasciato perplessi molti fan, lo spirito
della band rimane immutato e l'album, nel complesso, si mostra fresco ed
ispirato, con brani sensazionali come "Let the Sabbath Begin",
"Hi-tec Jesus"' "Lady of Babylon", "Ishtar"
e la title-track. L'album funziona grazie anche ad una vena glam
che torna ad emergere con prepotenza, nonostante la voce di Sylvester non
arrivi più in alto come una volta. Da segnalare la collaborazione illustre con Alejandro
Jodorowsky, voce narrante in intro e outro, nonché teorico
del teatro panico, ispiratore dell'intera opera.
Voto: 8,5
"Humanomalies", 2002.
Il coraggioso "Humanomalies" rappresenta l’evoluzione
di "Panic": in questo nuovo album le sperimentazioni elettroniche non
vengono rinnegate, ma portate su un fronte ulteriormente avanzato, compensate da
riff belli grassi e chitarre ribassate dal piglio nu-metal. Suoni
perfetti ed un'ottima integrazione fra elettricità ed elettronica supportano
una scrittura che, nonostante il passare degli anni, continua a mantenersi su
livelli più che dignitosi. Forse non avremo brani da consegnare alla storia, ma
il "circo freak" allestito da Sylvester e soci, mai
così istrionici e capaci di spaziare fra i generi (fin dalla copertina si cita
il maestro Alice Cooper di "Welcome to my Nightmare") si
conferma l'ennesimo lavoro ben fatto licenziato da una band che non ha mai rilasciato
due dischi uguali.
Voto: 7
"The Seventh Seal", 2006.
Il settimo album della saga dei Death SS viene
concepito come la fine di un ciclo. Di lì a poco la band si sarebbe
sciolta e la stanchezza compositiva si fa già sentire fra le pieghe di questo
fiacco ultimo atto, non solo poco ispirato, ma anche incerto in merito alla via
da intraprendere. Esso infatti si compone per lo più di brani sempliciotti che da
un lato non vorrebbero rinunciare al groove ed alla carica anthemica
degli album appena precedenti, ma dall’altro lato pretenderanno di fare a meno delle
valide sperimentazioni in essi compiute: insomma, un mezzo passo indietro che
non recupera la brillantezza che aveva caratterizzato il periodo più metal
della band e che va a certificare, ad oggi, l'unico vero flop artistico nella
carriera dei Nostri. Si salva solamente la coinvolgente title-track,
suite di oltre otto minuti che si fregia del flauto traverso e
del sax del mitico Clive Jones dei Black Widow, da sempre fra i
maggiori ispiratori del "dark sound" dei Nostri.
Voto: 5
"Resurrection", 2013.
Sette anni di pausa hanno evidentemente fatto bene alla vena
creativa di Steve Sylvester, che nel frattempo si è rigenerato attraverso altri
progetti e collaborazioni persino cinematografiche. I dodici brani che
compongono l'album del ritorno per i Death SS sono stati composti
e realizzati in circostanze e momenti diversi nel corso degli anni precedenti,
ma l'insieme non sembra risentire di questo modus operandi, anzi, l'album, perfetto
compendio di un'intera carriera, suona tonico e più compatto che mai,
grazie alla perfetta alternanza fra brani potenti e di facile presa, e momenti
più articolati ed atmosferici. Autocelebrativo fin dal titolo, l’album
forse pecca di qualche momento di autoreferenzialità (comunque comprensibile
considerata la storia della band), ma è innegabile che il tutto funziona
dannatamente bene: un miracoloso equilibrio fra quel groove modernista
che ha caratterizzato la seconda metà della carriera della band e le finezze di
stampo classico che guardano al metal degli esordi, con un redivivo Freddy
Delirio a pompare goticità con le sue tastiere e le prodezze tecniche di Al
De Noble, la cui chitarra trasuda old school da ogni poro. Ad oggi
non è lecito sapere se questo album costituirà l'inizio di un nuovo corso, ma
fa piacere ritrovare i Death SS così in forma dopo più di trent'anni dalla loro
fondazione.
Voto: 8