9 apr 2017

GUIDE RAPIDE PER CHI VA DI FRETTA: I DEATH SS




Sono un ragazzo prolisso, ma non amo assecondare questo mio difetto, semmai cerco di sfidarmi proprio su terreni a me ostili. Prendo dunque una delle band che più amo e mi getto in una dissertazione a rotta di collo, superficiale, o meglio, essenziale.

I Death SS: tutti li conoscono, tutti si toccano le palle! Ma ci sono i più giovani, ed anche i distratti, e poi parlare dei Death SS non è mai tempo sprecato.

"...In Death of Steve Sylvester", 1988.
La band capitanata da Steve Sylvester (unico membro stabile da qui in avanti) giunge finalmente al debut-album dopo anni di travagliata gavetta (documentata dall’operazione "The Story of Death SS 1977 -1984" che decidiamo di non trattare in quanto raccolta). Paul Chain non è più parte del gruppo e il sound ne risente, sposando sonorità meno sperimentali e più classicamente hard & heavy predilette dal luciferino vocalist. La produzione grezza ed artigianale forse non valorizza adeguatamente i buoni pezzi (a tratti ancora acerbi e con qualche ingenuità di troppo disseminata qua e là), ma conferisce sicuramente fascino alle atmosfere macabre professate dalla band. Come noto anche ai sassi, infatti, la formazione si rifà ad un immaginario satanico (ben rappresentato dalla copertina che ritrae il Nostro elegantemente vestito da Satanasso), ma anche alle suggestioni ricevute dalla letteratura e dalla filmografia horror più classica. I componenti della band, non a caso, si mascheravano da personaggi tipici dell'universo dell'orrore (Vampiro, Morte, Mummia, Zombie e Lupo Mannaro), inaugurando una commistione fra musica ed input visivi che sarebbe stata denominata "Horror Metal". Musicalmente siamo dalle parti di un heavy metal dalle tinte classiche (Mercyful Fate su tutti), dove tuttavia lo shock-rock di Alice Cooper (riferimento primario per la formazione artistica di Sylvester) ha una sua centralità, espressa magistralmente dall’ugola spiritata del cantante. "Vampire" e "Terror" rientreranno di diritto nel novero dei classici più longevi della band, ma a noi piace ricordare anche le meno nota "The Hunged Ballad", visionaria ballata capace di esprimere tutta la carica iconoclasta espressa dalla band.
Voto: 7

"Black Mass", 1989.
Notevole è il passo in avanti compiuto da Sylvester e soci in questa seconda release, con in scaletta ancora qualche brano ereditato dall'era Paul Chain (due di questi, "Welcome to my Hell" e "In the Darkness", erano già stati proposti dai Violet Fire, il progetto avviato dal chitarrista dopo lo scioglimento-lampo dei Death SS avvenuta nel 1984). La produzione più potente, ma ancora artigianale, ha sicuramente un merito nella migliore riuscita del tutto, ma è l'atmosfera malsana che si respira per tutta la durata del platter a rendere speciale questo capolavoro del “dark-metal” nostrano: un concentrato di blasfemia (il Nostro, questa volta, si fa ritrarre in copertina in versione Cristo crocifisso, tanto per rimanere in tema di buon gusto...) ed umori spettrali che altre band metal con “ambizioni diaboliche” si possono a malapena sognare. L'anthemica "Kings of Evil", la sabbathiana "Horrible Eyes", l'irresistibile e rock-oriented "Cursed Mama" sono ancora oggi fieramente riproposte dal vivo, ma un plauso in particolare va alla malefica title-track, che, nel suo svilupparsi (da un incipit gothic-ambient alle contorsioni di un sassofono isterico, passando per la voce deformata di Sylvester), ricorda più un rituale che un brano heavy metal: oltre a palesare l’influenza di certe band dark-prog degli anni settanta a cui i Nostri si rifanno insistentemente, essa costituisce l’apice sperimentale della band, nonché un picco di intensità che non verrà più raggiunto in futuro.
Voto: 9

"Heavy Demons", 1991.
Sebbene a molti fan della prima ora la "svolta professionale" di questo album non sia andata proprio a genio, "Heavy Demons" per molti altri rappresenta il capolavoro formale della band. Mai la produzione è stata così pulita, l'esecuzione così tecnica e precisa. la cura degli arrangiamenti così attenta. È vero, parte del fascino malsano degli esordi va perduto, ma è innegabile come la band sia cresciuta, sia a livello tecnico che a livello compositivo, mostrando in certi brani strutture più articolate e passaggi più elaborati. La stessa prestazione di Sylvester, all'apice della sua teatralità, risulta essere probabilmente la migliore di sempre, mentre dal punto di vista musicale si raggiunge un perfetto equilibrio fra potenza ed atmosfera, grazie ad una coppia d'asce che si muovono in perfetta simbiosi, l'energico drumming di Ross Lukather e le onnipresenti tastiere, maestose più che mai. Con il risultato che molti dei brani qui presenti sono quanto di meglio i Nostri abbiano prodotto e produrranno: mi riferisco all'adrenalinica opener "Where Have you Gone?", l'anthemica title-track (che diverrà il brano-simbolo della band chiamato a chiudere i concerti), la semi-ballad "Family Vault", la violenta (ai limiti del thrash) "Peace of Mind" (che invece spesso li aprirà, i concerti) e l'epica "Baphonet", con un ritornello fra i migliori ideato dal carismatico singer. Dall'orrorifica introduzione "Walpurginsnacht" (con tanto di voce narrante di Oliver Reed) alla strumentale "Sorcerous Valley (Back to the Real)", chiamata a chiudere le danze, il terzo album dei Death SS non ammette momenti di debolezza e ci mostra una band al top della forma e delle proprie potenzialità espressive.
Voto: 9

"Do What Thou Wilt", 1997.
Ci vorranno sei anni per poter ascoltare il successore di "Heavy Demons": un'attesa che verrà ampiamente ripagata dall'album più violento mai realizzato dalla band, caratterizzato da suoni sporchi e caotici e da brani dal forte sentore apocalittico. Un album, questo, che tuttavia non rinuncia a certe atmosfere seducenti mutuate dall'universo gothic/dark (a cui la band guarderà in futuro con crescente interesse) e che al tempo stesso tenta le prime contaminazioni in direzione industrial (le quali, vedremo, verranno esplorate con maggiore convinzione in seguito). Gioiranno i fan della prima ora, in quanto l'album, ispirato alle dottrine di Aleister Crowley e sorretto da una formazione a sei totalmente rivoluzionata e che vede l'ingresso del virtuoso tastierista Oleg Smirnoff (ex Eldritch), si mostra meno “laccato” del suo predecessore, recuperando le atmosfere solforose degli esordi e mettendo a segno tre dei migliori colpi della carriera dei Nostri: "Baron Samedi" (irrobustita da percussioni tribali in stile rito voodoo), "Scarlet Woman" (bella gothic-song che trasuda romanticismo da ogni poro) e la power-ballad "The Serpent Rainbow", con tanto di solismi pinkfloydiani e controcanti femminili. Un ritorno di sostanza.
Voto: 8

Panic", 2000.
Le sperimentazioni elettroniche tentate nel predecessore troveranno completa attuazione in "Panic", album della "svolta" che vede anche un drastico cambio di look, di taglio hi-tech, che sembrerebbe richiamare l'immaginario post-apocalittico della saga di Mad Max. Un groove modernista che richiama act quali Marilyn Manson e White Zombie si impadronisce della musica dei Death SS, cosa che coincide con l'importanza assunta, in sede di scrittura, dal tastierista Oleg Smirnoff. Sebbene i presupposti abbiano sicuramente lasciato perplessi molti fan, lo spirito della band rimane immutato e l'album, nel complesso, si mostra fresco ed ispirato, con brani sensazionali come "Let the Sabbath Begin", "Hi-tec Jesus"' "Lady of Babylon", "Ishtar" e la title-track. L'album funziona grazie anche ad una vena glam che torna ad emergere con prepotenza, nonostante la voce di Sylvester non arrivi più in alto come una volta. Da segnalare la collaborazione illustre con Alejandro Jodorowsky, voce narrante in intro e outro, nonché teorico del teatro panico, ispiratore dell'intera opera.
Voto: 8,5

"Humanomalies", 2002.
Il coraggioso "Humanomalies" rappresenta l’evoluzione di "Panic": in questo nuovo album le sperimentazioni elettroniche non vengono rinnegate, ma portate su un fronte ulteriormente avanzato, compensate da riff belli grassi e chitarre ribassate dal piglio nu-metal. Suoni perfetti ed un'ottima integrazione fra elettricità ed elettronica supportano una scrittura che, nonostante il passare degli anni, continua a mantenersi su livelli più che dignitosi. Forse non avremo brani da consegnare alla storia, ma il "circo freak" allestito da Sylvester e soci, mai così istrionici e capaci di spaziare fra i generi (fin dalla copertina si cita il maestro Alice Cooper di "Welcome to my Nightmare") si conferma l'ennesimo lavoro ben fatto licenziato da una band che non ha mai rilasciato due dischi uguali.
Voto: 7

"The Seventh Seal", 2006.
Il settimo album della saga dei Death SS viene concepito come la fine di un ciclo. Di lì a poco la band si sarebbe sciolta e la stanchezza compositiva si fa già sentire fra le pieghe di questo fiacco ultimo atto, non solo poco ispirato, ma anche incerto in merito alla via da intraprendere. Esso infatti si compone per lo più di brani sempliciotti che da un lato non vorrebbero rinunciare al groove ed alla carica anthemica degli album appena precedenti, ma dall’altro lato pretenderanno di fare a meno delle valide sperimentazioni in essi compiute: insomma, un mezzo passo indietro che non recupera la brillantezza che aveva caratterizzato il periodo più metal della band e che va a certificare, ad oggi, l'unico vero flop artistico nella carriera dei Nostri. Si salva solamente la coinvolgente title-track, suite di oltre otto minuti che si fregia del flauto traverso e del sax del mitico Clive Jones dei Black Widow, da sempre fra i maggiori ispiratori del "dark sound" dei Nostri.
Voto: 5

"Resurrection", 2013.
Sette anni di pausa hanno evidentemente fatto bene alla vena creativa di Steve Sylvester, che nel frattempo si è rigenerato attraverso altri progetti e collaborazioni persino cinematografiche. I dodici brani che compongono l'album del ritorno per i Death SS sono stati composti e realizzati in circostanze e momenti diversi nel corso degli anni precedenti, ma l'insieme non sembra risentire di questo modus operandi, anzi, l'album, perfetto compendio di un'intera carriera, suona tonico e più compatto che mai, grazie alla perfetta alternanza fra brani potenti e di facile presa, e momenti più articolati ed atmosferici. Autocelebrativo fin dal titolo, l’album forse pecca di qualche momento di autoreferenzialità (comunque comprensibile considerata la storia della band), ma è innegabile che il tutto funziona dannatamente bene: un miracoloso equilibrio fra quel groove modernista che ha caratterizzato la seconda metà della carriera della band e le finezze di stampo classico che guardano al metal degli esordi, con un redivivo Freddy Delirio a pompare goticità con le sue tastiere e le prodezze tecniche di Al De Noble, la cui chitarra trasuda old school da ogni poro. Ad oggi non è lecito sapere se questo album costituirà l'inizio di un nuovo corso, ma fa piacere ritrovare i Death SS così in forma dopo più di trent'anni dalla loro fondazione.
Voto: 8