Nel rock come nel metal ad occupare la scena
sono spesso front-man e chitarrista, e non a caso, nel
rock come nel metal, il simbolo è il più delle volte una chitarra elettrica o,
talvolta, un parruccone dietro al microfono.
Eppure l'ascoltatore più attento si renderà presto conto
dell'importanza della figura del batterista nella definizione di un
determinato sound, o nella buona riuscita di una composizione, nel rock
come nel metal. Degli esempi eclatanti sono sicuramente John Bonham (Led
Zeppelin), Ian Paice (Deep Purple), Keith Moon (The
Who), Ginger Baker (Cream), Mitch Michell (Jimi
Hendrix Experience), non contando i "mostri" del progressive come
Carl Palmer (Emerson, Lake & Palmer), John Bruford (Yes,
King Crimson), Phil Collins (Genesis), Robert Wyatt (Soft
Machine) e molti altri: tutti nomi di diritto finiti nell'Olimpo del
Rock.
Il metal non è certo da meno quanto a "braccia che
pestano", ma quello che faremo oggi non sarà soffermarci sui più grandi
batteristi del metal (e ve ne sono di prodigiosi!), bensì sulle dieci figure
più significative all'interno delle frange estreme del metallo, per
dimostrare (anche se non ce n'è più bisogno) che la prerogativa di un
batterista in contesti quali thrash (duro), death, black e grind non si limita
a "picchiare e basta".
Attenzione però!, ci scusino i nostri lettori
batteristi: non siamo noi musicisti, quindi il nostro non sarà un commento
tecnico, bensì solo il frutto delle nostre impressioni da incompetenti amanti
della musica quali siamo...
10) Nicholas Barker
Se il symphonic black metal ascenderà
prepotentemente nel corso della seconda metà degli anni novanta, lo si deve
anche al drumming dinamico e fantasioso di questo corpulento inglesone,
capace di gestire, con egual disinvoltura e fluidità, parti serrate come
momenti più atmosferici. Le sue prestazioni nelle file dei Cradle of Filth
(suonò nei primi album, quelli più belli) furono seminali per lo sviluppo, in
termini di complessità compositiva, di un black metal che ammettesse, accanto
alla velocità ed alle trottate epiche, sfumature progressive e continui cambi
di ambientazione. Ascoltatevi un "Dusk and Her Embrace" e vi
renderete conto di come solo un batterista dotato tecnicamente e con una
"visione ampia del campo da gioco" come Barker può riuscire
nell'impresa di coniugare brutalità e romanticismo, picchiare duro da un lato e
dall'altro accompagnare, con solennità ed eleganza, quei sinfonismi maestosi
che hanno fatto la fortuna del genere. E di fatto il suo talento verrà subito
apprezzato, tanto che lo troveremo presto nei prestigiosi Dimmu Borgir,
ma anche a flirtare con il grind tout court nei super-gruppi Brujeria
e Locked Up: possente in tutti i sensi!
9) Sean Reinert
Ho sempre avuto un debole per Sean Reinert, lo devo
ammettere. Conosciuto ai tempi di "Human" dei Death, mi
innamorai definitivamente di lui quando i miei padiglioni auricolari entrarono
in contatto con quell'album meraviglioso che è "Focus" dei Cynic,
dove il Nostro si abbandonava definitivamente al verbo del jazz e della fusion,
dopo gli azzardi in quella direzione già tentati ai tempi dei Death. Per me fu
una rivelazione e Reinart divenne l'argomentazione tipica da impiegare contro
chi sosteneva che nel metal non si sapesse suonare. Sia nelle vesti di
picchiatore death metal (micidiale la doppia-cassa, prodigiosi i
cambi di tempo, maestose le accelerazioni) che in quelle del raffinato jazzista
(un controllo strepitoso del tom, con in più gradite incursioni di drum-machine
a conferire sfumature spaziali al suono spirituale dei Cynic), Reinart rimane
ad oggi una degli esponenti più brillanti del metal più raffinato, audace e
sperimentale.
8) Tomas Haake
Il batterista dei Meshuggah è un esemplare più unico
che raro nel metal, come del resto è unica ed inimitabile la band in cui suona:
la preparazione da jazzista, il calore del jazzista, vengono letteralmente occultati dalla
freddezza delle partiture matematiche che caratterizzano il genere interpretato
dal combo svedese, il djent. Fra assalti thrash, tempi dispari ed
architetture progressive, il tentacolare batterista sa coniugare, in un
connubio che ha del miracoloso, potenza esecutiva, tecnica sopraffina,
precisione chirurgica e ricerca concettuale (nell'album "Catch 33"
si permetterà persino di campionare i suoni della sua batteria e riprogrammarla
con il software Drumkit from Hell, che lui stesso ha contribuito a
sviluppare). Molte band inseriranno elementi "meshugghiani" nel loro sound,
ma nessun batterista riuscirà a ripetere lo stile (lo definirei quasi "autistico")
di questo straordinario musicista. Irraggiungibile.
7) Brann Dailor
Ecco la grande rivelazione dei nostri tempi (classe 1975, è
attivo dalle scene dal 1992 con i Lethargy): l'artista che rappresenta
più di altri una nuova generazione di musicisti che tutto possono in una
musica che non ammette confini. Già ci eravamo accorti di lui ai tempi
dei terribili Today is the Day (era in formazione nel tostissimo "In
the Eyes of God"), in cui il Nostro si distingueva per una prova
superlativa che sapeva coniugare velocità e tecnica, tanto che a tratti pareva
che avesse sei braccia. Ma sarà con i fenomenali Mastodon che egli
raggiungerà la consacrazione definitiva, dimostrandosi in grado di
destreggiarsi in mezzo ad un maelstrom metallico in cui convivono
post-hardcore, progressive, psichedelia, stoner, hard
& heavy sounds. E Dailor (all'occorrenza pure cantante!) è il collante
insostituibile di questo collage, nonché il motore irrefrenabile di un
flusso energetico che rappresenta certamente il metal nella sua forma poi evoluta:
un drumming di cuore e tecnico al tempo stesso (come solo le generazioni
formatesi nel corso degli anni novanta, piene di inventiva e dalle vedute
aperte, sanno esprimere) che sa mettere insieme mondi distantissimi in spazi
ristrettissimi, cosa che indubbiamente non è alla portata di tutti.
6) Igor Cavalera
Poniamo il buon Igor al di sopra di questi professionisti delle bacchette per la storicità, perché il suo drumming tribale farà la storia del metal, in particolare nelle sue derivazioni nu, alternative e post. Uno stile caldo, energico, viscerale, più dettato dalle emozioni che dagli impulsi del cervello, che si pone come perfetto crocevia fra furia hardcore e pragmatismo thrash/death. E di certo lo spirito brasilero aiuta! Non solo a conferire quel calore tipicamente sudamericano che dona fluidità, dinamismo e vitalità alle composizioni, ma anche a livello squisitamente stilistico: saranno i crescenti innesti etnici del folclore delle tribù dell'Amazzonia (che in "Roots" raggiungeranno i loro apice di intensità) a caratterizzare la cifra stilistica del brasiliano, abilissimo nel dettare l'andamento dei brani adrenalinici dei suoi Sepultura e nell'infarcirli di una riottosa verve percussiva che farà letteralmente scuola. Un caposaldo del "batterismo post-lombardiano".
6) Igor Cavalera
Poniamo il buon Igor al di sopra di questi professionisti delle bacchette per la storicità, perché il suo drumming tribale farà la storia del metal, in particolare nelle sue derivazioni nu, alternative e post. Uno stile caldo, energico, viscerale, più dettato dalle emozioni che dagli impulsi del cervello, che si pone come perfetto crocevia fra furia hardcore e pragmatismo thrash/death. E di certo lo spirito brasilero aiuta! Non solo a conferire quel calore tipicamente sudamericano che dona fluidità, dinamismo e vitalità alle composizioni, ma anche a livello squisitamente stilistico: saranno i crescenti innesti etnici del folclore delle tribù dell'Amazzonia (che in "Roots" raggiungeranno i loro apice di intensità) a caratterizzare la cifra stilistica del brasiliano, abilissimo nel dettare l'andamento dei brani adrenalinici dei suoi Sepultura e nell'infarcirli di una riottosa verve percussiva che farà letteralmente scuola. Un caposaldo del "batterismo post-lombardiano".
5) Hellhammer
Il black metal non è certo una scuderia di batteristi impeccabili e la cosa vale ancora di più per quello fiorito in terra norvegese, considerato il minimalismo e lo spazio, che in queste lande, è dato alle emozioni, a scapito della tecnica. Eppure, tanto è prodigiosa la Norvegia del black metal, che di buoni esemplari ne troviamo anche qui, basti citare Faust (negli Emperor nel loro imperdibile debutto "Inthe Nightside Eclipse"), Trym (prima negli Enslaved, poi negli stessi Emperor al posto di Faust), Frost (storico compagno di viaggio di Satyr nei Satyricon) ed aggiungerei alla lista anche il buon vecchio Abbath che in certi album degli Immortal ha saputo sfoderare prestazioni di grande efficacia, fra potenza e cuore, come tutti i batteristi che si rispettino nel black metal scandinavo. Ma il trono spetta sicuramente ad un signore di nome Jan Axel Blomberg, in arte Hellhammer: un batterista prodigioso, unico nell'intero panorama del metal estremo, dotato di una versatilità straordinaria che lo renderà uno dei musicisti più richiesti, dentro e fuori il recinto del black metal. Il batterista dei Mayhem (questa la sua incarnazione più celebre) sa essere veloce e cronometrico senza perdere di vista variazioni e sfumature (e il lavoro svolto in "De Mysteriis dom Sathanas" parla chiaro), ma su richiesta sa anche districarsi fra partiture più complesse (si guardi agli album degli Arcturus, dove il Nostro si confronterà anche con escursioni squisitamente progressive e persino con fumose ambientazioni trip-hop). Dimmu Borgir, Shining, Winds, The Kovenant sono solo le più note delle sue collaborazioni, ed ogni suo intervento sarà impeccabile, se non memorabile, segnato da uno stile sempre riconoscibilissimo, nonostante la diversità degli ambiti di applicazione.
Il black metal non è certo una scuderia di batteristi impeccabili e la cosa vale ancora di più per quello fiorito in terra norvegese, considerato il minimalismo e lo spazio, che in queste lande, è dato alle emozioni, a scapito della tecnica. Eppure, tanto è prodigiosa la Norvegia del black metal, che di buoni esemplari ne troviamo anche qui, basti citare Faust (negli Emperor nel loro imperdibile debutto "Inthe Nightside Eclipse"), Trym (prima negli Enslaved, poi negli stessi Emperor al posto di Faust), Frost (storico compagno di viaggio di Satyr nei Satyricon) ed aggiungerei alla lista anche il buon vecchio Abbath che in certi album degli Immortal ha saputo sfoderare prestazioni di grande efficacia, fra potenza e cuore, come tutti i batteristi che si rispettino nel black metal scandinavo. Ma il trono spetta sicuramente ad un signore di nome Jan Axel Blomberg, in arte Hellhammer: un batterista prodigioso, unico nell'intero panorama del metal estremo, dotato di una versatilità straordinaria che lo renderà uno dei musicisti più richiesti, dentro e fuori il recinto del black metal. Il batterista dei Mayhem (questa la sua incarnazione più celebre) sa essere veloce e cronometrico senza perdere di vista variazioni e sfumature (e il lavoro svolto in "De Mysteriis dom Sathanas" parla chiaro), ma su richiesta sa anche districarsi fra partiture più complesse (si guardi agli album degli Arcturus, dove il Nostro si confronterà anche con escursioni squisitamente progressive e persino con fumose ambientazioni trip-hop). Dimmu Borgir, Shining, Winds, The Kovenant sono solo le più note delle sue collaborazioni, ed ogni suo intervento sarà impeccabile, se non memorabile, segnato da uno stile sempre riconoscibilissimo, nonostante la diversità degli ambiti di applicazione.
4) Gene Hoglan
Per certi aspetti è il migliore di tutti: tecnica, potenza, fantasia, precisione, il tutto filtrato da una personalità forte ed uno stile immediatamente riconoscibile. Un insieme di cose che nel tempo gli varrà l'eloquente soprannome di "Atomic Clock". Non ci stupiamo se, dopo essersi distinto nei Dark Angel (ove, oltre che come batterista, figurava come compositore principale e saltuario chitarrista), l'abbia voluto alla sua corte il grande Chuck Schuldiner. E sarà proprio in seno ai Death che Hoglan offrirà le sue prestazioni migliori, basti analizzare album come "Individual Thought Patterns" e "Symbolic", dove il Nostro supporterà egregiamente le complesse composizioni del buon Chuck, il quale all'epoca viveva la sua piena maturità come autore. Quel drumming intricato, chirurgico e continuamente pervaso da preziosismi (fra tempi impossibili e virtuose danze di piatti), sempre ragionato e curato nel dettaglio (forse un po' freddo, se vogliamo proprio trovare un difetto), adempirà alla perfezione al delicato compito (in seguito svolto con pari disinvoltura dall'altrettanto valido Richard Christy) di scandire i tempi dell'esistenzialismo schuldineriano. Esperienza, questa, che gli conferirà ulteriore visibilità sul mercato e che gli varrà lo status di session-man di lusso (Strapping Young Lad, Devin Townsend, Testament, Fear Factory le sue ospitate di maggior pregio).
Per certi aspetti è il migliore di tutti: tecnica, potenza, fantasia, precisione, il tutto filtrato da una personalità forte ed uno stile immediatamente riconoscibile. Un insieme di cose che nel tempo gli varrà l'eloquente soprannome di "Atomic Clock". Non ci stupiamo se, dopo essersi distinto nei Dark Angel (ove, oltre che come batterista, figurava come compositore principale e saltuario chitarrista), l'abbia voluto alla sua corte il grande Chuck Schuldiner. E sarà proprio in seno ai Death che Hoglan offrirà le sue prestazioni migliori, basti analizzare album come "Individual Thought Patterns" e "Symbolic", dove il Nostro supporterà egregiamente le complesse composizioni del buon Chuck, il quale all'epoca viveva la sua piena maturità come autore. Quel drumming intricato, chirurgico e continuamente pervaso da preziosismi (fra tempi impossibili e virtuose danze di piatti), sempre ragionato e curato nel dettaglio (forse un po' freddo, se vogliamo proprio trovare un difetto), adempirà alla perfezione al delicato compito (in seguito svolto con pari disinvoltura dall'altrettanto valido Richard Christy) di scandire i tempi dell'esistenzialismo schuldineriano. Esperienza, questa, che gli conferirà ulteriore visibilità sul mercato e che gli varrà lo status di session-man di lusso (Strapping Young Lad, Devin Townsend, Testament, Fear Factory le sue ospitate di maggior pregio).
3) Pete Sandoval
Sebbene la carriera dello storico batterista dei Morbid
Angel abbia avuto origine nel grind (sedendo dietro alle pelli nel
mitico debutto dei Terrorizer), il Nostro risulterà seminale per death
e black: il suo stile secco e nervoso, pervaso da una irrazionalità
esecutiva (saranno le origini sud americane?), è uno dei più
personali mai riscontrati nel metal e rimarrà, nel corso degli anni,
riconoscibile al primissimo contatto. Le basi derivano dalle lezioni del
sempiterno Lombardo (in particolare per l'uso-abuso della doppia
cassa, caratteristica qui ulteriormente esasperata: il doppio-pedale lanciato a
velocità vertiginose sarà uno dei tratti caratteristici del salvadoregno), ma
l'incedere singhiozzante e contorto, gli spiazzanti/urticanti stop & go,
gli improvvisi blast-beat, gli implacabili contro-tempi, la doppia-cassa
"carro armato" e il vigore ferocemente marziale (non a caso meritò il
soprannome di "Commando"), gli varranno le simpatie di molte
formazioni black metal, interessate da sempre al lato più morboso e battagliero
delle cose.
2) Mick Harris
Perché mettere al secondo posto un personaggio come Mick
Harris? Perché dopo Lombardo (di cui egli, come tutti, è stato debitore),
viene Harris, fra i massimi teorici del grindcore, da vedere (il grind) non
tanto come il genere canonizzato con i suoi stilemi e con i suoi limiti, ma
come quel laboratorio di avanguardie in fatto di terrorismo sonoro che esso era
in principio e di cui i Napalm Death sono stati i primi e più importanti
esponenti. Harris non fa che estremizzare le lezioni di Lombardo, definendo uno
stile che mantiene la sua credibilità nonostante la velocità sovrumana. A lui
va la paternità (spartita con il già citato Sandoval) della tecnica del blast-beat,
ossia del battito a velocità supersoniche sui tom che, unito al fruscio
dei piatti, genera un effetto straniante, dove l'elemento ritmico,
paradossalmente, si annulla nella velocità, diventando di fatto un suono
continuo nel sottofondo: una tecnica che diverrà fondamentale per grind e black
metal, ma anche per le forme più efferate di death. Con Harris il blast-beat
diverrà un nuovo standard: se anche altri batteristi ne facevano uso,
Harris lo porrà al centro della sua visione artistica. Ma solo un musicista
tecnico e fantasioso come Harris poteva rendere coinvolgente questo modo di
suonare senza compromessi, applicando, dove possibile, l'armamentario di
soluzioni, oramai istituzionalizzato, messo a disposizione da thrash e hardcore
(siamo pur sempre nel 1987!): cambi di tempo fulminanti, variazioni epilettiche,
rullate velocissime e accelerazioni improvvise. In un certo senso l'inglese,
analizzando i concetti di Limite e di Estremo, ed alzando
ulteriormente l'asticella del Consentito, supera Lombardo sul versante
concettuale e questa sua aspirazione gli varrà l'approdo al mondo del jazz e
dell'avanguardia tout court con artisti del calibro di John
Zorn. Harris, infatti, si stancherà presto della musica del Napalm Death
(che dopo di lui si appiattiranno su un grind ordinario e fortemente
influenzato dal death floridiano) e si dirigerà verso nuovi lidi, finendo per
dismettere i panni del batterista e sedendosi dietro ad una consolle con
il suo progetto personale Scorn, che dai foschi scenari industrial-metal
(post-grind?) transiteranno, con coerenza, all'elettronica e all'ambient.
1) Dave Lombardo
Ed in testa alla classifica non poteva che esserci lui, Dave
Lombardo: colui che ha letteralmente inventato la batteria del metal
estremo. Qui non è questione di tecnica o di feeling, ma di genio
creativo. All'inizio degli anni ottanta essere estremi significava ancora
fare baccano e spaccare tutto, e, coerentemente, suonare la batteria era una
questione di mera velocità e picchiar duro. In questo contesto di fracassoni,
Lombardo coniò un nuovo linguaggio che nobilitò, dallo status di pentolaio,
il batterista estremo: un approccio scientifico, metodico, finalizzato a
massimizzare l'effetto. Il risultato fu qualcosa di incredibilmente innovativo
ed efficace che presto divenne standard: la doppia cassa protratta
sistematicamente per tutta la durata del brano, un uso sapiente dei piatti atto
a conferire accenti e sfumature in un contesto di velocità sostenute ed
accelerazioni repentine (chiamate a rincarare la dose quando meno te lo
aspetti). E poi possenti e velocissime rullate a sottolineare i cambi di tempo,
micidiali mid-tempo a dare un po' di respiro ai brani, ma senza mai allentare
la tensione. Tensione: forse è questo il termine più adatto per
descrivere lo stile di Lombardo, uno stile muscolare, ma anche calibrato ed
attento al dettaglio, alla precisione ed all'impiego delle energie, affinché
nulla vada sprecato. Questo era il Lombardo degli Slayer di "Reign
in Blood" (ascoltate "Angel of Death" per farvi
un’idea) e questo sarà più o meno lo stile adottato dai batteristi dell'intero
globo in ambito estremo, dal thrash al death al black e al
grind (con le dovute differenziazioni stilistiche dettate dai singoli
generi). Va detto anche che il Nostro, all'indomani della sua uscita dagli
Slayer, sarà in grado di mantenere la fama del suo nome, prima con un progetto
proprio, i Grip Inc., poi prestando le braccia ad act storici alle
prese con le loro resurrezioni come Testament e Suicidal
Tendencies. Da grande artista quale è, non si farà mancare escursioni nell'avanguardia
(si vedano, su tutto, le esperienze maturate in seno a Fantomas, John
Zorn e Philm) e persino nella musica classica (collaborando con gli Apocalyptica
e dando vita al progetto "Vivaldi: The Meeting") Ma sebbene
egli si difenderà con onore anche in questi ambiti, la sua importanza storica
risiede tutta nei suoi primi anni di militanza negli Slayer, ossia nell'"Anno Zero" dell'Estremo.