"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

29 apr 2017

I MIGLIORI DIECI BATTERISTI DEL METAL ESTREMO



Nel rock come nel metal ad occupare la scena sono spesso front-man e chitarrista, e non a caso, nel rock come nel metal, il simbolo è il più delle volte una chitarra elettrica o, talvolta, un parruccone dietro al microfono.

Eppure l'ascoltatore più attento si renderà presto conto dell'importanza della figura del batterista nella definizione di un determinato sound, o nella buona riuscita di una composizione, nel rock come nel metal. Degli esempi eclatanti sono sicuramente John Bonham (Led Zeppelin), Ian Paice (Deep Purple), Keith Moon (The Who), Ginger Baker (Cream), Mitch Michell (Jimi Hendrix Experience), non contando i "mostri" del progressive come Carl Palmer (Emerson, Lake & Palmer), John Bruford (Yes, King Crimson), Phil Collins (Genesis), Robert Wyatt (Soft Machine) e molti altri: tutti nomi di diritto finiti nell'Olimpo del Rock.

Il metal non è certo da meno quanto a "braccia che pestano", ma quello che faremo oggi non sarà soffermarci sui più grandi batteristi del metal (e ve ne sono di prodigiosi!), bensì sulle dieci figure più significative all'interno delle frange estreme del metallo, per dimostrare (anche se non ce n'è più bisogno) che la prerogativa di un batterista in contesti quali thrash (duro), death, black e grind non si limita a "picchiare e basta".

Attenzione però!, ci scusino i nostri lettori batteristi: non siamo noi musicisti, quindi il nostro non sarà un commento tecnico, bensì solo il frutto delle nostre impressioni da incompetenti amanti della musica quali siamo...

10) Nicholas Barker
Se il symphonic black metal ascenderà prepotentemente nel corso della seconda metà degli anni novanta, lo si deve anche al drumming dinamico e fantasioso di questo corpulento inglesone, capace di gestire, con egual disinvoltura e fluidità, parti serrate come momenti più atmosferici. Le sue prestazioni nelle file dei Cradle of Filth (suonò nei primi album, quelli più belli) furono seminali per lo sviluppo, in termini di complessità compositiva, di un black metal che ammettesse, accanto alla velocità ed alle trottate epiche, sfumature progressive e continui cambi di ambientazione. Ascoltatevi un "Dusk and Her Embrace" e vi renderete conto di come solo un batterista dotato tecnicamente e con una "visione ampia del campo da gioco" come Barker può riuscire nell'impresa di coniugare brutalità e romanticismo, picchiare duro da un lato e dall'altro accompagnare, con solennità ed eleganza, quei sinfonismi maestosi che hanno fatto la fortuna del genere. E di fatto il suo talento verrà subito apprezzato, tanto che lo troveremo presto nei prestigiosi Dimmu Borgir, ma anche a flirtare con il grind tout court nei super-gruppi Brujeria e Locked Up: possente in tutti i sensi!

9) Sean Reinert
Ho sempre avuto un debole per Sean Reinert, lo devo ammettere. Conosciuto ai tempi di "Human" dei Death, mi innamorai definitivamente di lui quando i miei padiglioni auricolari entrarono in contatto con quell'album meraviglioso che è "Focus" dei Cynic, dove il Nostro si abbandonava definitivamente al verbo del jazz e della fusion, dopo gli azzardi in quella direzione già tentati ai tempi dei Death. Per me fu una rivelazione e Reinart divenne l'argomentazione tipica da impiegare contro chi sosteneva che nel metal non si sapesse suonare. Sia nelle vesti di picchiatore death metal (micidiale la doppia-cassa, prodigiosi i cambi di tempo, maestose le accelerazioni) che in quelle del raffinato jazzista (un controllo strepitoso del tom, con in più gradite incursioni di drum-machine a conferire sfumature spaziali al suono spirituale dei Cynic), Reinart rimane ad oggi una degli esponenti più brillanti del metal più raffinato, audace e sperimentale.

8) Tomas Haake
Il batterista dei Meshuggah è un esemplare più unico che raro nel metal, come del resto è unica ed inimitabile la band in cui suona: la preparazione da jazzista, il calore del jazzista,  vengono letteralmente occultati dalla freddezza delle partiture matematiche che caratterizzano il genere interpretato dal combo svedese, il djent. Fra assalti thrash, tempi dispari ed architetture progressive, il tentacolare batterista sa coniugare, in un connubio che ha del miracoloso, potenza esecutiva, tecnica sopraffina, precisione chirurgica e ricerca concettuale (nell'album "Catch 33" si permetterà persino di campionare i suoni della sua batteria e riprogrammarla con il software Drumkit from Hell, che lui stesso ha contribuito a sviluppare). Molte band inseriranno elementi "meshugghiani" nel loro sound, ma nessun batterista riuscirà a ripetere lo stile (lo definirei quasi "autistico") di questo straordinario musicista. Irraggiungibile.

7) Brann Dailor
Ecco la grande rivelazione dei nostri tempi (classe 1975, è attivo dalle scene dal 1992 con i Lethargy): l'artista che rappresenta più di altri una nuova generazione di musicisti che tutto possono in una musica che non ammette confini. Già ci eravamo accorti di lui ai tempi dei terribili Today is the Day (era in formazione nel tostissimo "In the Eyes of God"), in cui il Nostro si distingueva per una prova superlativa che sapeva coniugare velocità e tecnica, tanto che a tratti pareva che avesse sei braccia. Ma sarà con i fenomenali Mastodon che egli raggiungerà la consacrazione definitiva, dimostrandosi in grado di destreggiarsi in mezzo ad un maelstrom metallico in cui convivono post-hardcore, progressive, psichedelia, stoner, hard & heavy sounds. E Dailor (all'occorrenza pure cantante!) è il collante insostituibile di questo collage, nonché il motore irrefrenabile di un flusso energetico che rappresenta certamente il metal nella sua forma poi evoluta: un drumming di cuore e tecnico al tempo stesso (come solo le generazioni formatesi nel corso degli anni novanta, piene di inventiva e dalle vedute aperte, sanno esprimere) che sa mettere insieme mondi distantissimi in spazi ristrettissimi, cosa che indubbiamente non è alla portata di tutti.

6) Igor Cavalera
Poniamo il buon Igor al di sopra di questi professionisti delle bacchette per la storicità, perché il suo drumming tribale farà la storia del metal, in particolare nelle sue derivazioni nu, alternative e post. Uno stile caldo, energico, viscerale, più dettato dalle emozioni che dagli impulsi del cervello, che si pone come perfetto crocevia fra furia hardcore e pragmatismo thrash/death. E di certo lo spirito brasilero aiuta! Non solo a conferire quel calore tipicamente sudamericano che dona fluidità, dinamismo e vitalità alle composizioni, ma anche a livello squisitamente stilistico: saranno i crescenti innesti etnici del folclore delle tribù dell'Amazzonia (che in "Roots" raggiungeranno i loro apice di intensità) a caratterizzare la cifra stilistica del brasiliano, abilissimo nel dettare l'andamento dei brani adrenalinici dei suoi Sepultura e nell'infarcirli di una riottosa verve percussiva che farà letteralmente scuola. Un caposaldo del "batterismo post-lombardiano".

5) Hellhammer
Il black metal non è certo una scuderia di batteristi impeccabili e la cosa vale ancora di più per quello fiorito in terra norvegese, considerato il minimalismo e lo spazio, che in queste lande, è dato alle emozioni, a scapito della tecnica. Eppure, tanto è prodigiosa la Norvegia del black metal, che di buoni esemplari ne troviamo anche qui, basti citare Faust (negli Emperor nel loro imperdibile debutto "Inthe Nightside Eclipse"), Trym (prima negli Enslaved, poi negli stessi Emperor al posto di Faust), Frost (storico compagno di viaggio di Satyr nei Satyricon) ed aggiungerei alla lista anche il buon vecchio Abbath che in certi album degli Immortal ha saputo sfoderare prestazioni di grande efficacia, fra  potenza e cuore, come tutti i batteristi che si rispettino nel black metal scandinavo. Ma il trono spetta sicuramente ad un signore di nome Jan Axel Blomberg, in arte Hellhammer: un batterista prodigioso, unico nell'intero panorama del metal estremo, dotato di una versatilità straordinaria che lo renderà uno dei musicisti più richiesti, dentro e fuori il recinto del black metal. Il batterista dei Mayhem (questa la sua incarnazione più celebre) sa essere veloce e cronometrico senza perdere di vista variazioni e sfumature (e il lavoro svolto in "De Mysteriis dom Sathanas" parla chiaro), ma su richiesta sa anche districarsi fra partiture più complesse (si guardi agli album degli Arcturus, dove il Nostro si confronterà anche con escursioni squisitamente progressive e persino con fumose ambientazioni trip-hop). Dimmu Borgir, Shining, Winds, The Kovenant sono solo le più note delle sue collaborazioni, ed ogni suo intervento sarà impeccabile, se non memorabile, segnato da uno stile sempre riconoscibilissimo, nonostante la diversità degli ambiti di applicazione.

4) Gene Hoglan
Per certi aspetti è il migliore di tutti: tecnica, potenza, fantasia, precisione, il tutto filtrato da una personalità forte ed uno stile immediatamente riconoscibile. Un insieme di cose che nel tempo gli varrà l'eloquente soprannome di "Atomic Clock". Non ci stupiamo se, dopo essersi distinto nei Dark Angel (ove, oltre che come batterista, figurava come compositore principale e saltuario chitarrista), l'abbia voluto alla sua corte il grande Chuck Schuldiner. E sarà proprio in seno ai Death che Hoglan offrirà le sue prestazioni migliori, basti analizzare album come "Individual Thought Patterns" e "Symbolic", dove il Nostro supporterà egregiamente le complesse composizioni del buon Chuck, il quale all'epoca viveva la sua piena maturità come autore. Quel drumming intricato, chirurgico e continuamente pervaso da preziosismi (fra tempi impossibili e virtuose danze di piatti), sempre ragionato e curato nel dettaglio (forse un po' freddo, se vogliamo proprio trovare un difetto), adempirà alla perfezione al delicato compito (in seguito svolto con pari disinvoltura dall'altrettanto valido Richard Christy) di scandire i tempi dell'esistenzialismo schuldineriano. Esperienza, questa, che gli conferirà ulteriore visibilità sul mercato e che gli varrà lo status di session-man di lusso (Strapping Young Lad, Devin Townsend, Testament, Fear Factory le sue ospitate di maggior pregio).

3) Pete Sandoval 
Sebbene la carriera dello storico batterista dei Morbid Angel abbia avuto origine nel grind (sedendo dietro alle pelli nel mitico debutto dei Terrorizer), il Nostro risulterà seminale per death e black: il suo stile secco e nervoso, pervaso da una irrazionalità esecutiva (saranno le origini sud americane?), è uno dei più personali mai riscontrati nel metal e rimarrà, nel corso degli anni, riconoscibile al primissimo contatto. Le basi derivano dalle lezioni del sempiterno Lombardo (in particolare per l'uso-abuso della doppia cassa, caratteristica qui ulteriormente esasperata: il doppio-pedale lanciato a velocità vertiginose sarà uno dei tratti caratteristici del salvadoregno), ma l'incedere singhiozzante e contorto, gli spiazzanti/urticanti stop & go, gli improvvisi blast-beat, gli implacabili contro-tempi, la doppia-cassa "carro armato" e il vigore ferocemente marziale (non a caso meritò il soprannome di "Commando"), gli varranno le simpatie di molte formazioni black metal, interessate da sempre al lato più morboso e battagliero delle cose.

2) Mick Harris
Perché mettere al secondo posto un personaggio come Mick Harris? Perché dopo Lombardo (di cui egli, come tutti, è stato debitore), viene Harris, fra i massimi teorici del grindcore, da vedere (il grind) non tanto come il genere canonizzato con i suoi stilemi e con i suoi limiti, ma come quel laboratorio di avanguardie in fatto di terrorismo sonoro che esso era in principio e di cui i Napalm Death sono stati i primi e più importanti esponenti. Harris non fa che estremizzare le lezioni di Lombardo, definendo uno stile che mantiene la sua credibilità nonostante la velocità sovrumana. A lui va la paternità (spartita con il già citato Sandoval) della tecnica del blast-beat, ossia del battito a velocità supersoniche sui tom che, unito al fruscio dei piatti, genera un effetto straniante, dove l'elemento ritmico, paradossalmente, si annulla nella velocità, diventando di fatto un suono continuo nel sottofondo: una tecnica che diverrà fondamentale per grind e black metal, ma anche per le forme più efferate di death. Con Harris il blast-beat diverrà un nuovo standard: se anche altri batteristi ne facevano uso, Harris lo porrà al centro della sua visione artistica. Ma solo un musicista tecnico e fantasioso come Harris poteva rendere coinvolgente questo modo di suonare senza compromessi, applicando, dove possibile, l'armamentario di soluzioni, oramai istituzionalizzato, messo a disposizione da thrash e hardcore (siamo pur sempre nel 1987!): cambi di tempo fulminanti, variazioni epilettiche, rullate velocissime e accelerazioni improvvise. In un certo senso l'inglese, analizzando i concetti di Limite e di Estremo, ed alzando ulteriormente l'asticella del Consentito, supera Lombardo sul versante concettuale e questa sua aspirazione gli varrà l'approdo al mondo del jazz e dell'avanguardia tout court con artisti del calibro di John Zorn. Harris, infatti, si stancherà presto della musica del Napalm Death (che dopo di lui si appiattiranno su un grind ordinario e fortemente influenzato dal death floridiano) e si dirigerà verso nuovi lidi, finendo per dismettere i panni del batterista e sedendosi dietro ad una consolle con il suo progetto personale Scorn, che dai foschi scenari industrial-metal (post-grind?) transiteranno, con coerenza, all'elettronica e all'ambient.

1) Dave Lombardo
Ed in testa alla classifica non poteva che esserci lui, Dave Lombardo: colui che ha letteralmente inventato la batteria del metal estremo. Qui non è questione di tecnica o di feeling, ma di genio creativo. All'inizio degli anni ottanta essere estremi significava ancora fare baccano e spaccare tutto, e, coerentemente, suonare la batteria era una questione di mera velocità e picchiar duro. In questo contesto di fracassoni, Lombardo coniò un nuovo linguaggio che nobilitò, dallo status di pentolaio, il batterista estremo: un approccio scientifico, metodico, finalizzato a massimizzare l'effetto. Il risultato fu qualcosa di incredibilmente innovativo ed efficace che presto divenne standard: la doppia cassa protratta sistematicamente per tutta la durata del brano, un uso sapiente dei piatti atto a conferire accenti e sfumature in un contesto di velocità sostenute ed accelerazioni repentine (chiamate a rincarare la dose quando meno te lo aspetti). E poi possenti e velocissime rullate a sottolineare i cambi di tempo, micidiali mid-tempo a dare un po' di respiro ai brani, ma senza mai allentare la tensione. Tensione: forse è questo il termine più adatto per descrivere lo stile di Lombardo, uno stile muscolare, ma anche calibrato ed attento al dettaglio, alla precisione ed all'impiego delle energie, affinché nulla vada sprecato. Questo era il Lombardo degli Slayer di "Reign in Blood" (ascoltate "Angel of Death" per farvi un’idea) e questo sarà più o meno lo stile adottato dai batteristi dell'intero globo in ambito estremo, dal thrash al death al black e al grind (con le dovute differenziazioni stilistiche dettate dai singoli generi). Va detto anche che il Nostro, all'indomani della sua uscita dagli Slayer, sarà in grado di mantenere la fama del suo nome, prima con un progetto proprio, i Grip Inc., poi prestando le braccia ad act storici alle prese con le loro resurrezioni come Testament e Suicidal Tendencies. Da grande artista quale è, non si farà mancare escursioni nell'avanguardia (si vedano, su tutto, le esperienze maturate in seno a Fantomas, John Zorn e Philm) e persino nella musica classica (collaborando con gli Apocalyptica e dando vita al progetto "Vivaldi: The Meeting") Ma sebbene egli si difenderà con onore anche in questi ambiti, la sua importanza storica risiede tutta nei suoi primi anni di militanza negli Slayer, ossia nell'"Anno Zero" dell'Estremo.