25 lug 2017

RECENSIONE: "DUST AND DISQUIET" (CASPIAN)


In un genere come il post-rock in cui è così difficile dire qualcosa di nuovo dopo praticamente trent’anni dalla sua nascita, Metal Mirror si sente oggi di consigliare a tutto il popolo metallico l’ascolto di “Dust And Disquiet” (2015) dei Caspian, la band del Massachusetts che già avevamo entusiasticamente citato, seppur di sfuggita, qualche tempo fa sul nostro Blog.

Se “Waking Season” aveva clamorosamente raggiunto le corde del nostro freddo cuore metallico, DAD lo folgora letteralmente. Perché i Caspian, giunti al quarto album in studio, non hanno la minima intenzione di ripetersi e si mettono in discussione con un disco diverso, segno di un’evoluzione importante e coraggiosa.
Coraggiosa perché compiuta in senso “contrario” rispetto a quello che ci si poteva “naturalmente” aspettare. Mi spiego: chi, nel grande calderone post-rock, ha cercato di evolversi e di non ripetersi è approdato per lo più ai lidi del minimalismo e del cantautorato rock.

I Caspian decidono di andare in direzione opposta: pur non rinnegando gli elementi cardine del genere, e pagando il giusto e personale tributo ai maestri del passato, i Nostri innervano negli stilemi post-rock robuste dosi di sano metal, di distorsioni potenti, di percussioni martellanti, consentendo grandi spazi di manovra a basso e batteria, messi in risalto da una produzione impeccabile. Non che i Caspian siano totalmente nuovi a questo tipo di soluzioni (pensiamo alla splendida “Procellous” o alla coda di “Hickory ‘54” da “Waking season”) ma il discorso su questo DAD viene portato su un livello decisamente diverso.

Piccola premessa - Metal Mirror lo aveva detto in tempi non sospetti, attraverso la penna del nostro Mementomori, e precisamente in occasione del post sui Bachi da Pietra (non a caso titolato “L’evoluzione al contrario”) dove il collega chiosava il pezzo con queste illuminanti parole: No, l’heavy metal non è più una vergogna: sono finiti i salottini bene dove si ascoltava solo jazz e/o il cantautorato militante di una Joan Baez. Da tutti i fronti, negli ultimi anni, la musica pensante si sta facendo sempre più pesante. […]. Metal is cool: ma non come lo era negli anni novanta con il Black Album e i video dei Guns n’ Roses. No, oggi il Metal, spogliato dei suoi clichè più superficiali ed irritanti (moto, birra e pupe), e compreso nella sua metodologia, nella sua autenticità artistica, rivalutato in questa sorta di evoluzione al contrario che porta verso la brutalità e non viceversa, il metal, si diceva, sta diventando oggetto di interesse anche per l’ascoltatore più raffinato, che finalmente riesce a vedere il metal non più come rumore, musica per bifolchi, ma anche e soprattutto come veicolo espressivo in grado di trasmettere meglio di atri certe tipologie di messaggi.

Teniamo a mente queste parole e passiamo ai Caspian del 2015, che, attenzione, non rinunciano a brani leggiadri e ai tipici “crescendo” del post-rock: l’uno-due iniziale, “Separation No.2” e “Rioseco”, in tal senso è sensazionale grazie al certosino lavoro delle tre chitarre che flirtano dolcemente con sezioni di archi e strumenti a fiato, toccando vette di emozionalità elevatissime, che non scadono mai nella trappola del manierismo.
Ma se già nella coda della seconda ci troviamo di fronte a una sezione di stampo metal, dove i volumi aumentano di intensità e la distorsione delle chitarre si fa decisamente violenta, sarà con la successiva accoppiata “Arcs of command” e “Echo and Abyss” (ma che bei titoli!!) che i Caspian cominceranno a sbalordirci, distruggendo piacevolmente le nostre aspettative, menando di brutto, spingendo all’estremo il brivido elettrico, usando persino, loro band fondamentalmente strumentale, disturbanti harsh vocals e copulando allegramente col post-metal di stampo isis-iano e di altre band di quell’ampio “alveo musicale” (vengono in mente, ad esempio, i Pelican).

A spezzare la tensione, enorme, accumulata in questi primi 25’ del platter, i Caspian intelligentemente ci fanno respirare con una song, “Run dry”, asciutta, pacata, cantautoriale; con l’obiettivo, riuscito, di spalmare balsamo sulle ferite inferte dalle canzoni precedenti.

Il prosieguo del disco sarà un continuo alternarsi di queste due anime, l’una più “classicamente” post-rock (“Sad heart of mine”, l’unico brano forse meno riuscito dell’intero); e l’altra più metallicamente contaminata (“Darkfield” è una bomba inattesa in tal senso).

La title track finale, nei suoi 11’ e rotti di durata, è uno splendido compendio e sintesi di questo caleidoscopio di influenze e "anime". Dalle quali in ogni caso emana in ogni stante una grande emozionalità, mai stucchevole e sempre ispirata.

Ma la cosa goduriosa per noi ascoltatori è che DAD non è un approdo, ma è decisamente un punto di partenza. Talmente tanti sono gli spunti che offre, gli elementi toccati in questi 57’ (dal prog allo shoegaze; dall’elettronica al folk, dal jazz all’ambient, e molto altro ancora), che non riusciamo davvero immaginare cosa potranno proporre nella prossima uscita.

E neppure ci interessa immaginare qualcosa. Certi che ci sapranno emozionare e spiazzare ancora.

Voto: 9

A cura di Morningrise