Quante volte vi sarà capitato
di parlare con qualcuno più anziano di voi che si è vantato, solo per ragioni
anagrafiche, di aver assistito di persona all'uscita di questa o a quella opera
seminale. Quel classico borioso che acquistò "Powerslave" o "Master
of Puppets" quando furono pubblicati, magari rincarando la dose con un
immancabile "quelli sì che erano tempi...".
Eppure quest'anno, io e quelli
della mia generazione, oltre a piangere Chris Cornell (un eroe dei nostri tempi), possiamo celebrare il ventennale di
"OK Computer" dei Radiohead, potendo dire: "Noi c'eravamo!".
Oggi "OK Computer" è considerato
all'unanimità una pietra miliare del rock. Fiumi di parole sono state spese al
riguardo ed in particolare in questi ultimi giorni per via della pubblicazione
di "KONOTOK", cofanetto
celebrativo che offre il remix
dell'album originale + un bonus disc
di brani inediti registrati nelle medesime sessioni, ma poi scartati.
Onde non ripetere cose già
dette, ci limiteremo a dire che l'operazione non è un prodotto utile solo al fan completista: da un lato infatti il
lavoro di remixaggio mette in bella
mostra la ricercatezza degli arrangiamenti ed una serie di dettagli che un po'
scomparivano nella versione originale, arricchendola di nuove sfumature;
dall'altro la bellezza dei brani "sacrificati" rende onore al rigore
di artisti che hanno saputo "lasciare in panchina" brani di altissimo
valore solo per esigenze di coerenza, di aderenza all'impianto concettuale
dell'opera. Aspetto non affatto secondario, visto che "OK Computer"
non è solo una sequenza mozzafiato di
brani ispirati (certi dei quali divenuti leggendari), ma un capolavoro di suoni e di umori che si
legano ed intrecciano fra loro costituendo un insieme unico ed inscindibile.
Per quanto riguarda il lascito che questa opera avrà sulla
musica "popolare" del terzo millennio, possiamo serenamente affermare
che si tratterà di una eredità di
proporzioni immani, riportando l'attenzione ad un approccio di ricerca che
era proprio del miglior rock progressivo degli anni settanta, in chiave però
intimista ed aggiornata ai "tempi moderni", con quelle velleità sociologiche che varranno alla
band lo status di portavoce di un'epoca intera.
Già nel corso dei primi anni
novanta il grunge aveva riportato in
auge sonorità settantiane, il brivido dell'elettricità, l'istinto, la rabbia
del punk primordiale e il disagio giovanile, opponendosi alle forme gelide e
patinate degli anni ottanta. Il brit-pop,
di seguito, aveva se non altro consolidato questa necessità di ritorno ad una
forma più fisica del rock, seppur in un'ottica più commerciale, e non è un caso
che i primi Radiohead (già additati come la nuova next big thing) fossero ricondotti a questo fenomeno.
Con "OK Computer"
tutto cambiò nuovamente: il passaggio concettuale fu che la critica, la
denuncia, l'avversione al mondo sociale non avveniva più tramite un approccio
di rivolta/ribellione (da sempre nel DNA del rock), ma tramite un processo di
immedesimazione in cui l'arte andava a rappresentare la voce (o meglio, il lamento)
di un individuo-monade, atomizzato, sottomesso al sistema e vittima delle sue
contraddizioni. Una concezione che si sgancia totalmente da un'idea di
collettività, e se vi vengono in mente i Talking
Head, non siete affatto fuori strada, considerato che il monicker "Radiohead" trae
ispirazione proprio dal titolo di una canzone delle Teste Parlanti. Dimenticate però l’ironia e il fare scanzonato di David Byrne, perché stilisticamente,
per i Radiohead, il tutto si traduceva nel recupero di un intimismo che era tipico dei cantautori più isolazionisti con
intorno costruzioni sonore tendenti al minimalismo, ambientazioni desolanti e
che non disdegnavano certa psichedelia pinkfloydiana (ovviamente aggiornata
a nuovi canoni di alienazione) e persino un uso misurato di elettronica. La band, settandosi sullo standard della ballata introspettiva, mostrava ancora il desiderio di comunicare
alle moltitudini (e infatti l'album si rivelò un gran successo commerciale), ma
"OK Computer" indubbiamente avrebbe costituito il primo passo deciso
verso un approccio sperimentale che
porterà i Nostri agli osticismi di capolavori
quali "Kid A" ed "Amnesiac", già ampiamente fuori i
confini del rock. E così, a venti anni
di distanza da “OK Computer”, i Radiohead rimangono probabilmente l'ultima band
che abbia saputo, su vasta scala, dire qualcosa di nuovo ed apportare, da sola,
significativi cambiamenti nel panorama rock tutto. E di riflesso anche nel metal.
Il metal, come abbiamo avuto
modo di vedere più volte, ha nel corso dei primi anni novanta attraversato una
fase di crisi per via dell'esplosione del grunge (che stravolse i canoni
classici del genere), ma ha mostrato una grande capacità di reazione,
sfoderando le unghie ed abbracciando sonorità alternative, approdando così al groove-metal, allo stoner, all'industrial-metal
ed al crossover in generale (e
poi successivamente al nu-metal, al post-hardcore ed al post-metal).
Nel 1997, quando uscì "OK Computer", il metal godeva tutto
sommato di buona salute, ma soffriva di una inaridente conflittualità interna
che vedeva innovatori da un lato e difensori dell'ortodossia dall'altra: una
dialettica che turbò la libera evoluzione artistica, conducendo ad una
polarizzazione artificiale che imponeva sperimentazioni azzardate da un lato e
fiero immobilismo dall'altro. In ogni caso non c'era percezione di decadenza,
perché i grandi nomi rimanevano in auge e di nuovi se ne stavano formando,
dando l'impressione di trovarsi semplicemente innanzi ad un fisiologico cambio
generazionale e non alle porte di una crisi
che avrebbe condotto al totale sovvertimento di tutte le regole conosciute,
artistiche e non. Complice di questa crisi, infatti, sarà lo stravolgimento drastico delle dinamiche dell'industria discografica,
che presto avrebbe visto la fine non solo del vecchio vinile, ma anche del CD
ed infine dei negozi di dischi. E oggi possiamo dirlo, del formato album (e sì,
le playlist di Spotify ci riportano,
paradossalmente, ad un modo di fruire musica che è simile a quello dei 45 giri
e dei jukebox degli anni cinquanta e sessanta).
Venti anni fa, tuttavia, il
metal sembrava ancora un organismo sano, capace di rigenerarsi ed eventualmente
adattarsi alle circostanze/avversità esterne. Soprattutto: si poteva vivere
ancora di solo metal. Chi voleva guardar fuori era ancora attratto dai Pink Floyd, dai Depeche Mode e dalle forme oscure del rock. E certo "OK
Computer", con le sue arie spettrali, con il suo disagio non filtrato, fu
attraente per qualche raffinata anima "metallica" che certo non
poteva rimanere indifferente alla bellezza di brani come "Paranoid Android" e "Karma Police".
Io stesso ne fui attratto per
gli umori bigi, persino eccessivi per una band che passava in heavy rotation su MTV. Nell'oscuro
incipit di chitarra e in certi passaggi successivi di "Airbag" (l'opener di "OK Computer") percepivo un vago sentore black
metal. E i cori apocalittici di "Exit
Music (for a Film)" mi parevano degni dei My Dying Bride di "Turn
Loose the Swans”. Ma se Yorke e soci certamente non si sono ispirati al
black metal delle band scandinave o al gothic-doom delle brughiere d'Albione
(entrambi fenomeni germogliati nel corso degli anni precedenti), le sonorità promosse
da “OK Computer” erano sicuramente quanto di più fosco il circuito mainstream potesse all'epoca offrire.
Era evidente tuttavia che ciò
non poteva bastare al metallaro medio, ancorato alle sue esigenze. Un fatto
curioso che vorrei ricordare fu una recensione di "OK Computer" su
una rivista metal (non mi ricordo bene se Flash o Metal Shock) che, dopo aver
liquidato l'album come appena sufficiente, si chiudeva più o meno: non so francamente quanto la gente possa essere
interessata alle lagne esistenziali di Thom Yorke. Uno di quegli sfondoni
epocali che potrebbe rivaleggiare con il giudizio “lungimirante” di quel
discografico che, a dei giovanissimi Rolling
Stones, disse "potete anche funzionare, ma dovete cambiare
cantante", riferendosi a Mick
Jagger.
Al di là della pochezza e la
miopia di chi scrisse quella recensione (perché chiunque dotato di gusto,
apertura mentale e un minimo di cultura musicale poteva capire che stava
accadendo "qualcosa di grosso"), da queste parole si evince la
spocchia e la sicurezza del mondo metallico nel considerare gli stimoli fuori
dal metal. I Radiohead, nonostante il loro fascino, erano ancora troppo
"mosci" per il metallaro del 1997 e in effetti l'uscita di "OK
Computer" non comportò particolari sconvolgimenti nel mondo nel metal.
Nel 1998 usciva "Judgement" degli Anathema. L'album risentiva molto
dell'influsso di "OK Computer", ma nessuno diede importanza alla
cosa: primo, perché la band già da tempo aveva dimostrato di volersi smarcare
dagli stilemi del metal e in molti l’avevano abbandonata; secondo, perché gli
inglesi erano stati seguaci dei Pink
Floyd e i fan superstiti non
trovarono affatto strano che i fratelli Cavanagh guardassero con interesse ai Radiohead, che da molti sono stati
considerati gli eredi dei Pink Floyd stessi. Seguirono "A Fine Day to Exit" e "A Natural Disaster", album che
trasferirono il mood malinconico del
gothic metal che fu su un piano differente: un rock introspettivo che non
disdegnava né l'elettronica, né le distorsioni vocali, né momenti più rarefatti
e tendenti al minimalismo. Tuttavia gli Anathema erano e rimangono un fenomeno
isolato, perché il metal per molto tempo continuerà ad ignorare la rivoluzione radioheadiana.
Affinché i Radiohead
penetrassero in modo più consistente nell'inespugnabile Regno del Metallo ci vorrà l'azione congiunta di altre due entità mediatrici capaci di gettare
un ponte fra Radiohead e collettività metal.
La prima entità è
rappresentata dai Porcupine Tree di sir Steven Wilson. In tempi non sospetti, quando i Porcospini
erano una band di nicchia e non ci azzeccavano ancora niente con il metal,
Wilson, senza mai dichiararlo apertamente, subì in modo evidente l'influenza di
“OK Computer”. E non a caso, nel 1999, con "Stupid Dream" si allontanava da una scrittura che vedeva nella
sontuosa suite psichedelica di
matrice pinkfloydiana il modulo
principale, per spostarsi su un piano più intimo. In questo nuovo corso, la
magniloquenza della musica cedeva il passo a brani brevi e dallo sviluppo
lineare, che, pur non rinunciando ad una certa attitudine progressiva, preferivano
indugiare sull'interiorità di chi scriveva i pezzi: un insieme di elementi che
sicuramente germogliava facilitato dal background
"culturale" introdotto dalla rivoluzione di "OK Computer".
Nel frattempo, di pari passo con una scrittura che prediligeva fragilità e
malinconia, il crooning etereo di
Wilson si era fatto nella sostanza "lamento yorkiano" (ascoltare "Don't Hate Me" per farsi un'idea).
Siamo ancora lontani dal
metal, ma è anche noto come presto Wilson, con il rinsaldarsi dell'amicizia con
Mikael Akerfeldt degli Opeth, avrebbe prima accettato e poi
annesso in modo crescente stilemi metal nella propria visione artistica (vedasi
"In Absentia", 2002). Con
il crescere dell'importanza della figura di Wilson come musicista e come
produttore, nonché come spirito guida del movimento
neo-progressive che animerà gli anni dieci, egli finirà per sedurre ed
influenzare il metal con la sua ricetta eclettica a base di tradizione e
modernismi, di rock ed elettronica, il tutto baciato da un approccio
esistenziale che, da un certo punto in poi, fra atmosfere algide e fughe
nell'interiorità, si è elevato a visione del mondo. Proprio come avevano
suggerito i Radiohead molti anni prima.
Cosa
passerà di tutto questo nel tritacarne del metallo?
Ovviamente il fronte più impattato sarà quello del progressive-metal: fra partiture rocciose e funambolismi, si farà
spazio un'attitudine più oscura e minimale, venata talvolta di elettronica,
caratterizzata da una maggiore attenzione all'atmosfera (spesso plumbea ed
alienante) e talvolta condita da voci fievoli e lamentevoli (un esempio di
tutto questo possono essere i Riverside,
ma anche, in misura minore, gli Hacken).
E' come se il prog divenisse ad un tratto adulto e, cullato dalle visioni
fantastiche di un sogno durato decenni, si risvegliasse in una squallida stanza
infestata dai fantasmi di una società e di un mondo ostili.
Effetti analoghi li ha portati
una seconda entità, i Muse, nati
come discepoli (se non addirittura come cloni) dei Radiohead, proprio sull'onda
del successo di "OK Computer". Bellamy
e soci, tuttavia, presto si sarebbero allontanati dalla fonte della loro
ispirazione, aiutati dalla deriva "ermetica" dei loro maestri,
facendosi portatori di una proposta massimalista che lì avrebbe avvicinati per
paradosso al rock pomposo e barocco dei Queen.
Questa scelta stilistica non solo procurerà alla band un successo commerciale
strepitoso, ma attirerà l'attenzione di certe frange del metallo, ancora una
volta quelle progressive (Dream Theater
in testa); ma del resto abbiamo già detto come il cosiddetto neo-progressive ha
caratterizzato e sta caratterizzando il metal degli ultimi dieci anni. Anche
tramite questo canale certi stilemi dei Radiohead (in particolare un'attitudine vocale svenevole e melodie
struggenti che esprimono una iperbolica
espressione dell'interiorità) entreranno nel metal.
Ma al di là di questi esempi
(difficile definire con precisione le concatenazioni di causa-effetto
nell'intricato panorama delle tendenze musicali contemporanee), forse è più
corretto dire che, semplicemente, nel corso degli ultimi anni il metal ha subito
di riflesso le pesanti ripercussioni che la visione artistica dei Radiohead ha
esercitato sul rock in generale. Atmosfere
deprimenti (non gotiche, mi raccomando), ambientazioni minimali, una ricerca
più concettuale, un intimismo più marcato, più che gli specifici
tratti stilistici (sebbene l'uso del vocoder
fatto da certe band è decisamente radiohediano):
tutto questo ha sicuramente supportato l'ascesa dei generi più sperimentali nel
metal come il depressive black metal
o la drone-music.
O, ancora più semplicemente, grazie
ai Radiohead il mondo si è approssimato agli umori che sono sempre stati cari
al metal, ancora prima dell’avvento dei Radiohead stessi. Sia come sia: buon compleanno "OK Computer"!