17 lug 2017

RETROSPETTIVE - I BEYOND TWILIGHT



Se dovessimo compilare la classifica dei migliori album delle cult band degli "anni zero" del Terzo Millennio, così come abbiamo già fatto per gli anni '80 e '90, inseriremmo senza dubbio i danesi Beyond Twilight. Nati dalle ceneri dei Twilight, i BT sono stati la creatura esclusiva dell’estroverso Finn Zierler. Classe ’72, il Nostro è un tastierista sì virtuoso, ma nè sborone keyboards-centrico. Elementi questi che renderanno la sua band diversa da altre del panorama prog dell’epoca (lo so, data la provenienza avrete pensato subito ai Royal Hunt…)

No, i BT non sono una brutta copia del buon Andrè Andersen. Suonano diversi. Prog si, senza dubbio. Ma molto più pesanti, più heavy. E decisamente più dark. Oltre al fatto non trascurabile che non si ripeteranno mai, sfornando sempre nuove soluzioni ad ogni pubblicazione. Pubblicazioni che per la verità rimarranno solo tre (più la prima discreta demo del ’99, “Lurking fantasia”).

L’esperienza negli anni novanta con i Twilight si rivelerà comunque utile per Zierler il quale, dopo il loro split, fonderà appunto i BT (evviva la fantasia…), portandosi dietro una delle carte vincenti del passato (e come vedremo anche del futuro) progetto, cioè l’ottimo batterista svedese Tomas Freden. Segnatevi questo nome perché siamo davanti davvero a un talento puro del drum-kit. Eppure di lui non vi è traccia (ad eccezione di una sporadica collaborazione nel 2003 con il leader dei Candlemass Leif Edling) né prima né dopo i lavori con Zierler. Si sarà rotto i coglioni di suonare evidentemente…

Ad ogni modo, MM vuole rendere omaggio con la presente retrospettiva a questa band ormai di culto, sparita quasi dieci anni fa. E allora, partiamo!

“The Devil’s Hall of Fame” (2001)

Vero esordio sulla lunga distanza per la band e primo colpo sensazionale: a scrivere a quattro mani con Zierler tutti i testi per i brani del disco, ma soprattutto alla voce, troviamo nientepopodimenoche Sua Maestà Prezzemolino, alias Jorn Lande. Difficile effettuare una valutazione del disco a prescindere dalla voce del corpulento singer norvegese. La sua ugola e il suo carisma sono talmente ingombranti che rischiano di coprire il resto. Tutti i 45’ del platter infatti si reggono, oltre che sulle linee dettate dalla tastiera di Zierler, sulla super-voce del frontman il quale non risparmia le corde vocali neppure per un secondo. Tirata, a tratti sofferta, sempre carica di pathos, la sua interpretazione dona al mood del disco una credibilità di grande impatto.

Sul fronte del songwriting invece il biondo tastierista danese punta sempre su tempi medio-lenti, oscuri, a volte monolitici. Forse troppo monolitici. Lande suda, si sbatte e sbuffa tutto il tempo riuscendo a tenere alta l’attenzione dell’ascoltatore. Attenzione che rischierebbe di cedere e sfociare in noia, che a tratti fa capolino. L’accoppiata iniziale “Hellfire” – “Godless and wicked”, con le loro reminiscenze cyber-industrial, e la conclusiva, pachidermica “Perfect Dark” rendono bene quanto detto. Nella parte centrale invece il combo dà il meglio di sé con due pezzi che da soli valgono l’intero ascolto: “Shadowland” e “Crying” due top-songs, con un chorus da brividi la prima che ti si stampa subito in testa; mentre la seconda, nei suoi sette minuti, è il brano forse più sperimentale nel quale chitarra, tastiera e i vocalizzi caldi e profondi di Lande (unici momenti in cui Jorn usa un tono più pacato e dolce) si fondono alla perfezione con un intelligente approccio prog.

C’è poi la title track, il brano più lungo del lotto: in oltre 8 minuti Zierler guida la band in un viaggio infernale nei profondi recessi degli inferi a rispecchiare il titolo del disco. E’ un brano dalla profondissima vena doom, molto ispirato. Quasi una colonna sonora per un film dell’orrore. E il vocalizzo di Lande, lungo dieci secondi, al minuto 5 e 25” fa accapponare la pelle…

Ma al di là di questa perla, in generale l’idea che ci si fa è che quando Zierler decide di rilassarsi e aprire ad ariose soluzioni melodiche forse è più ficcante di quando vuole fare il metal progster duro e cazzuto. Ad ogni modo non si può negare che la stoffa c’è, eccome. La tecnica pure. Bisogna solo affinare e focalizzare la proposta...

Voto: 7

“Section X” (2005)

Passano quattro anni e i cambiamenti apportati alla band dal mastermind Zierler non sono da poco: come prima cosa fuori Lande e dentro un altro cantante, tale Kelly Carpenter, singer statunitense davvero dotato, capace di passare da acuti lancinanti a parti più raschiate e gutturali, ad altre potentemente cavernose vicine allo stesso Lande. Finn assolda anche un secondo chitarrista, il connazionale Jacob Hansen. Il sound risulta immediatamente più complesso, articolato, pieno zeppo di tempi dispari. Sinfonismi mai stucchevoli, partiture classiche, reminiscenze operistiche; e poi heavy, doom, riffoni al limite del death…c’è di tutto in “Section X” (compresa una cover splendida, inquietante e suggestiva).  

Il mood oscuro del debut rimane intatto e l’opener “The path of darkness” è il miglior biglietto da visita possibile dopo un attesa lunga quattro anni. E’ probabilmente la top song del disco, dove nel finale troviamo addirittura piacevoli cori a-la-Shadow Gallery.
L’album va ascoltato più volte per essere metabolizzato e colto nelle sue innumerevoli sfumature. Ma il puzzle generale tiene alla grande; Zierler dimostra in fase di scrittura di aver compiuto quel salto di maturità che auspicavamo. Non mancano, riviste e metabolizzate, le lezioni d’oltreoceano di Dream Theater e, soprattutto, Symphony X ma sono distanti deja-vu che non disturbano l’ascolto. Finn continua a privilegiare tempi medi e lenti, ma questa volta non disdegna accelerazioni, guidate dalla doppia cassa del sempre ottimo Freden; ma è soprattutto la scelta di Carpenter che non solo si rivela vincente, ma addirittura ha una resa superiore a quella data da Lande nel debut. Se è vero che un paio di brani (“Shadow self”, “The dark side”) sono “solamente” buoni è altrettanto vero che gli ultimi sedici minuti dell’accoppiata “Ecstasy arise”- “Section X” sono di livello assoluto. In particolare la title track presenta uno dei chorus più catartici mai ascoltati.

Decisamente il loro capolavoro.

Voto: 8

“For the love of Art and the Making” (2006)

Altro giro altro regalo! Cioè...altro cantante! Fuori il fenomenale Carpenter (talmente bravo che Zierler se lo porterà dietro anche con la sua futura omonima band) e dentro lo svedese Bjorn Jansson. Mossa azzardata (non so se voluta o necessaria). Ma al di là di questo cambio, sicuramente non marginale, quello che ci si aspettava era il raggiungimento della famosa “quadra”: dopo lo splendido “Section X” era lecito attendersi una maggiore messa a fuoco, una definizione ancora più matura della proposta. Il definitivo salto verso il disco della consacrazione definitiva. 
Quindi, il punto era: cosa vorranno fare da grandi i Beyond Twilight?

Ecco, non si capisce. 

Un epico coro da chiesa su base sinfonica ci accoglie in questa terza release che si compone di…43-dico-43 movimenti per 37’ (trentasette!) minuti di durata…roba che manco gli Anal Cunt. Ovviamente si tratta di una suddivisione fittizia nel senso che siamo di fronte ad un’unica composizione, con temi che ritornano e un’unica storia narrata come la migliore tradizione prog ci ha fatto conoscere. Ma qua si va ben oltre gli esperimenti (ad esempio dei Fates Warning di "A pleasant shade of gray"). Decisamente oltre. Perché il platter è fottutamente spiazzante, del tutto incommentabile. Zierler non rinuncia alla sua solita pesantezza e alle chitarre possenti, supportate dall’encomiabile lavoro di Freden. Ma stavolta la pomposità e la pretenziosità del tutto lasciano davvero interdetti. Le idee ci sono, la qualità esecutiva pure; Jansson cerca di non far rimpiangere Lande e Carpenter e la sua ugola, tecnicamente, c’è tutta. Ma l’interpretazione è spesso sopra le righe. E considerando che musicalmente ci troviamo già davanti a qualcosa di decisamente sopra le righe, il risultato è che è tutto troppotroppo! E il troppo, come si suol dire, stroppia. Non ti riesci ad abituare un attimo al tema di un pezzo che, nel giro di venti/trenta secondi, questo stacca e comincia qualcos’altro; sei nel bel mezzo di un potente pezzo al limite del thrash e il tutto si interrompe per leggiadre note di solo pianoforte…e via così fino al finale (peraltro bellissimo, va detto).

Sinfonico, pomposo, ironico, giocoso, cattivo, sperimentale, ermetico. Si potrebbero spendere mille aggettivi e non cogliere nulla di questi assurdi, bislacchi, teatrali 37 minuti di musica. Minuti che sono, a detta degli autori,  “scomponibili” nei suoi 43 movimenti e ascoltabili addirittura in ordine diverso dalla track list ufficiale.

Uno dei dischi più ambiziosi e originali del terzo millennio metallico.

Voto: senza voto

In conclusione, per rispondere alla domanda iniziale: i BT da grandi hanno voluto essere liberi; liberi da ogni regola e da ogni canone musicale. E la troppa libertà, si sa, a volte può portare alla "morte". Forse dopo quest’album la band non aveva scelta; come evolversi ancora dopo un disco del genere? E così, dopo “For the love…”, lo split, la fine. 

Zierler tenterà la sorte sei anni dopo (!!), con lo Zierler Project: poco egocentrico il ragazzo…talmente poco che toglierà dal monicker pure il termine “project” per lasciare solo Zierler con i quali pubblicherà il misconosciuto “ESC” (2015).

A noi rimangono due cose: l’amarezza per non aver visto proseguire uno degli act più originali e preziosi degli anni duemila; e la soddisfazione per goderci il loro lascito: tre dischi difficili da dimenticare.

A cura di Morningrise