23 ago 2017

LEGNO VI: OVERKILL



Ci sono due cose che personalmente non posso sopportare in musica: le band che pubblicano album sempre uguali e le voci di merda.
Se si parla di thrash metal, sono disposto a perdonare il primo aspetto, ma sul secondo non transigo. Nel thrash, si sa, non occorrono cantanti virtuosi, per questo si può essere anche indulgenti. Eppure esiste una voce in particolare che proprio non riesco a sopportare: quella di Bobby "Blitz" Ellsworth. Di conseguenza, se c'è una band che riesce ad incarnare entrambi i mali, essa si chiama Overkill.

Vorrei anzitutto ricordare ai nostri lettori, e in particolare ai fan della band americana, che il nostro discorso è principalmente sociologico (e solo secondariamente artistico), e che la rubrica "Legno" non intende colpire e denigrare band che riteniamo scadenti. Anzi, essa vorrebbe indagare sui motivi per cui band valide non siano riuscite, nelle loro lunghe carriere, ad andare oltre gli apprezzamenti di cerchie ristette di metallari integerrimi.


Come mai la proposta degli Overkill non ha superato la prova del tempo? Come mai la loro musica non è stata rivalutata dalle nuove generazioni? Come mai costoro non riescono ad esercitare appeal su chi del metal non fa una fede in cui credere ciecamente?
Lasciate perdere la mia antipatia nei confronti di Blitz e soci: proprio per questa avversità congenita mi sforzerò di essere il più obiettivo possibile nel capire perché il verde logo degli Overkill è rimasto cucito per sempre sul giacchetto jeans del metallaro degli anni ottanta, invece di finire stampato, per esempio, sulla nuova collezione di H&M, o magari, sotto forma di spilla, sulla borsetta di una ragazza di ventisei anni, che non ascolta neppure metal, ma che magari simpatizza per gli Immortal (i quali sono stati invece rivalutati come fenomeno trash per le loro pose).
Partiamo dai capelli di Bobby Ellsworth (ancora lui!): il riccioluto cantate è l'icona della band, insieme all'elegante teschio con le ali da pipistrello, l'immancabile mascotte figlia di un'epoca in cui ogni gruppo metal degno di tal nome doveva necessariamente sfoggiare il suo Eddie dei poveri. La folta capigliatura del cantante, quei lunghi e sudati ricci con zazzera corta appiccicata sulla fronte, altresì detta "capigliatura scaccia tope", è un'immagine che non può non richiamare il classico puzzo di cane bagnato. Non che gli Immortal siano belli, beninteso, ma almeno il capelli piastrati, lucidati e tinti di nero li fa sembrare nel complesso meno fetenti. Questo da un punto di vista estetico.


Da un punto di vista musicale le cose non migliorano, in quanto non indietreggio né ho timore nel sostenere che quella di Ellsworth è una delle peggiori timbriche vocali che il metal abbia mai conosciuto: voce acuta, stridula, urticante, con quelle modulazioni (sempre uguali) a fine strofa che, più che cattiveria, richiama l'immagine dello stitico al cesso che si inacidisce nello sforzo della defecazione tanto desiderata, ma purtroppo negata. E poi quella incapacità di tirare fuori ritornelli memorabili, quel modo di intercalare fra i cori sfiatati degli altri membri della band (che a quel punto avrebbero potuto scegliere l'opzione "scaricatori di porto", che nel thrash risulta sempre vincente). Ci abbiamo messo così tanto per accettare il grugnito gastritico di Mustaine, la voce a sirena di Belladonna, che farsi piacere anche Ellsworth per molti è stato veramente troppo.
Attenzione, però: il mio discorso rimane sociologico, una riflessione pronta a cogliere gli elementi che rendono gli Overkill impopolari fuori dai salotti più "old school" del metal. E di sicuro la voce di Bobby Blitz è una di questi elementi, perché solo con la benevolenza del metallaro tradizionale possono essere tollerati questi schiamazzi nasali, laddove il profano ha persino imparato ad accettare growl e screaming che, per quanto estreme come tecniche di canto, sembrano possedere oggi una credibilità maggiore rispetto a certi acuti strappatonzille in voga trenta anni fa.
Il metal, tuttavia, ci insegna che, se ne vale la pena, possiamo andare oltre questi ostacoli. Il fatto è che la musica degli Overkill non è poi così irrinunciabile da giustificare un tale sforzo di comprensione: in fondo il loro è un thrash nella media. Gli Overkill sono degli onesti artigiani (falegnami, potremmo precisare): con il loro bel background punk sono riusciti a costruirsi, con cuore, professionalità e dedizione alla causa, un nome nell'ambito del thrash "ignorante" così come si andava configurando nella seconda metà degli anni ottanta.
"Taking Over", per esempio, è proprio un bel lavoro, ancora sospeso fra speed-metal, thrash e heavy classico, figlio bastardo di una fase storica in cui il metal estremo era ancora una vaga nebulosa dai confini incerti (ed in questo prodigioso laboratorio ogni spunto era ben accetto). La voce di Blitz è qui ancora passabile: ruvida, sgraziata, a tratti spiritata, ma con degli spunti qua à la Bruce Dickinson, là à la Eric Adams, che gettano un ponte a forme più classiche del metal (l'anthemica "In Union We Stand" ne è l'esempio più lampante).
Paradossalmente, con gli occhi di oggi, è più interessante vedere i Nostri come precursori dell' U.S. power metal (certe analogie con i Sanctuary sono palesi) che piuttosto come esponenti del thrash coatto della East Coast, retrivi in un periodo (correva l'anno 1987) che era già post "Reign in Blood".


I Nostri, dunque, punteranno sul versante thrash, perdendo certe peculiarità che li avevano distinti agli inizi e normalizzando il loro suono, appiattendosi sui canoni del genere. Creativamente parlando, i Nostri non si sapranno spingere oltre la forma mentis di quel periodo, raggiungendo la maturità compositiva con album come "The Years of Decay" (1989) e "Horrorscope" (1991): opere un po' rigide, ingessate (legnose?) in cui la voce di Blitz era già divenuta insopportabile (a tratti sembrava di sentire un Vince Neil incazzato). Non ci stupiamo quindi se i Nostri non sapranno superare l'impasse di inizio anni novanta, preferendo, in piena fase "post Black Album", rispondere alla "chiamata alle armi", arroccandosi nella nicchia della Tradizione.
E così, anche nei loro momenti di maggiore gloria, i Nostri rimarranno "medi" (attenzione: non mediocri), medi in un mondo che apprezzerà sempre più gli estremi e mostrerà disinteresse per le mezze misure. Non così grandi come i Big Four, non seminali per il metal estremo come la triade teutonica, gli Overkill non hanno dalla loro nemmeno il groove dei “colleghi di costa” Anthrax, né l'album della vita, l'opera epocale da consegnare ai posteri, quel capolavoro che per esempio hanno saputo sfornare altri "medi" come gli Exodus (mi riferisco a "Bonded By Blood"). Spaccano il culo, gli Overkill, ma non con quella geniale e perversa scientificità che è propria degli Slayer; talvolta si concedono delle aperture melodiche e persino si cimentano in semi-ballad, ma non hanno la classe, l’agilità di Metallica e Testament. Non hanno un Marty Friedman, un Alex Skolnick, un Denis D'Amour o un Tommy Vetterli ad illuminare il loro cammino: in una parola, sono legnosi.
Il loro songwriting si basa sulle ruvide pennate di basso di D.D. Verni, che porta con sé un approccio più che altro motorheadiano. E si sa che per queste cose ci sono già i Motorhead, tutt'al più i Sodom. Spingono gli Overkill, ma procedono a testa bassa, come quei giocatori di calcio che, inarrestabili, corrono lungo la fascia per poi perdere la sfera ai limiti dell'area di rigore, perché non hanno una visione ampia del gioco, perché nel momento decisivo non sanno cosa fare, non hanno la spregiudicatezza di concretizzare.
E quindi thrash metal & attitudine, attitudine & thrash metal, e questo oramai da più di trent'anni: lodevole da un lato, futile dall'altro. Eroi per il popolo metal (soprattutto quello di una certa età), ma invisibili per chi guarda al metal con altri occhi: un metal che viene rivalutato, come genere ma anche e soprattutto come carrozzone, e nel quale, per emergere, c'è da essere un po' markettari, kitsch nel modo giusto, portatori di una proposta che abbia una freschezza intrinseca che sappia travalicare le diverse culture e sensibilità musicali (il black metal, aiutato da qualche rogo e qualche coltellata di troppo, ce l'ha questa freschezza).
Io li ho anche visti dal vivo gli Overkill e non nego che il verde logo attira sempre se ben collocato su una locandina. E sicuramente il momento migliore per apprezzarli è proprio la dimensione live, dove a prevalere sono il cuore e il sudore, vessilli di un'epoca che non esiste più. Ed allora te li subisci nel pogo con quelle ritmiche tirate che sanno di punk velocizzato, roba che se c'era uno che ci strillava sopra con voce dilaniata poteva essere appetibile anche per qualche annoiato indie-rocker in cerca di emozioni forti. Ma invece ci canta Paperino e dunque ecco perché gli Overkill sono gli Overkill.
E se qualcuno ha qualcosa da ridire, può appellarsi al sempre verde: "We don't care what you say, Fuck you!".


(vedi le altre puntate di "Legno")