Ci sono due cose che
personalmente non posso sopportare in musica: le band che pubblicano album
sempre uguali e le voci di merda.
Se si parla di thrash metal, sono disposto a perdonare
il primo aspetto, ma sul secondo non transigo. Nel thrash, si sa, non occorrono
cantanti virtuosi, per questo si può essere anche indulgenti. Eppure esiste una
voce in particolare che proprio non riesco a sopportare: quella di Bobby "Blitz" Ellsworth. Di
conseguenza, se c'è una band che riesce ad incarnare entrambi i mali, essa si chiama Overkill.
Vorrei anzitutto ricordare ai
nostri lettori, e in particolare ai fan
della band americana, che il nostro discorso è principalmente sociologico (e
solo secondariamente artistico), e che la rubrica "Legno" non intende colpire e denigrare band che riteniamo
scadenti. Anzi, essa vorrebbe indagare sui motivi per cui band valide non siano
riuscite, nelle loro lunghe carriere, ad andare oltre gli apprezzamenti di
cerchie ristette di metallari integerrimi.
Come
mai la proposta degli Overkill non ha superato la prova del tempo? Come mai la
loro musica non è stata rivalutata dalle nuove generazioni? Come mai costoro
non riescono ad esercitare appeal su chi del metal non fa una fede in cui
credere ciecamente?
Lasciate perdere la mia
antipatia nei confronti di Blitz e soci: proprio per questa avversità congenita
mi sforzerò di essere il più obiettivo possibile nel capire perché il verde logo degli Overkill è rimasto cucito per
sempre sul giacchetto jeans del
metallaro degli anni ottanta, invece di finire stampato, per esempio, sulla
nuova collezione di H&M, o
magari, sotto forma di spilla, sulla borsetta di una ragazza di ventisei anni,
che non ascolta neppure metal, ma che magari simpatizza per gli Immortal (i quali sono stati invece rivalutati
come fenomeno trash per le loro
pose).
Partiamo dai capelli di Bobby Ellsworth (ancora lui!): il riccioluto cantate è
l'icona della band, insieme all'elegante teschio con le ali da pipistrello,
l'immancabile mascotte figlia di un'epoca
in cui ogni gruppo metal degno di tal nome doveva necessariamente sfoggiare il
suo Eddie dei poveri. La folta
capigliatura del cantante, quei lunghi e sudati ricci con zazzera corta
appiccicata sulla fronte, altresì detta "capigliatura scaccia tope",
è un'immagine che non può non richiamare il classico
puzzo di cane bagnato. Non che gli Immortal siano belli, beninteso, ma
almeno il capelli piastrati, lucidati e tinti di nero li fa sembrare nel
complesso meno fetenti. Questo da un punto
di vista estetico.
Da un punto di vista musicale le cose non migliorano, in quanto non
indietreggio né ho timore nel sostenere che quella di Ellsworth è una delle
peggiori timbriche vocali che il metal abbia mai conosciuto: voce acuta,
stridula, urticante, con quelle modulazioni (sempre uguali) a fine strofa che,
più che cattiveria, richiama l'immagine dello stitico al cesso che si inacidisce
nello sforzo della defecazione tanto desiderata, ma purtroppo negata. E poi
quella incapacità di tirare fuori ritornelli memorabili, quel modo di
intercalare fra i cori sfiatati degli altri membri della band (che a quel punto
avrebbero potuto scegliere l'opzione "scaricatori di porto", che nel
thrash risulta sempre vincente). Ci abbiamo messo così tanto per accettare il
grugnito gastritico di Mustaine, la
voce a sirena di Belladonna, che
farsi piacere anche Ellsworth per molti è stato veramente troppo.
Attenzione, però: il mio
discorso rimane sociologico, una riflessione pronta a cogliere gli elementi che
rendono gli Overkill impopolari fuori dai salotti più "old
school" del metal. E di sicuro la voce di Bobby Blitz è una di
questi elementi, perché solo con la benevolenza del metallaro tradizionale
possono essere tollerati questi schiamazzi nasali, laddove il profano ha
persino imparato ad accettare growl e
screaming che, per quanto estreme
come tecniche di canto, sembrano possedere oggi una credibilità maggiore
rispetto a certi acuti strappatonzille
in voga trenta anni fa.
Il metal, tuttavia, ci insegna
che, se ne vale la pena, possiamo andare oltre questi ostacoli. Il fatto è che
la musica degli Overkill non è poi così irrinunciabile da giustificare un tale
sforzo di comprensione: in fondo il loro è un thrash nella media. Gli
Overkill sono degli onesti artigiani (falegnami, potremmo precisare): con il
loro bel background punk sono riusciti a costruirsi, con
cuore, professionalità e dedizione alla causa, un nome nell'ambito del thrash "ignorante" così come
si andava configurando nella seconda metà degli anni ottanta.
"Taking Over", per esempio, è proprio un bel lavoro, ancora
sospeso fra speed-metal, thrash e heavy classico, figlio bastardo di una fase
storica in cui il metal estremo era ancora una vaga nebulosa dai confini
incerti (ed in questo prodigioso laboratorio ogni spunto era ben accetto). La
voce di Blitz è qui ancora passabile: ruvida, sgraziata, a tratti spiritata, ma
con degli spunti qua à la Bruce Dickinson, là à la Eric Adams, che gettano un ponte a forme più classiche del metal (l'anthemica "In Union We Stand" ne è l'esempio più lampante).
Paradossalmente, con gli occhi
di oggi, è più interessante vedere i Nostri come precursori dell' U.S. power metal (certe analogie con i Sanctuary sono palesi) che piuttosto
come esponenti del thrash coatto della
East Coast, retrivi in un periodo (correva l'anno 1987) che era già post "Reign
in Blood".
I Nostri, dunque, punteranno
sul versante thrash, perdendo certe peculiarità che li avevano distinti agli inizi
e normalizzando il loro suono, appiattendosi sui canoni del genere.
Creativamente parlando, i Nostri non si sapranno spingere oltre la forma mentis
di quel periodo, raggiungendo la maturità compositiva con album come "The Years of Decay" (1989) e
"Horrorscope" (1991):
opere un po' rigide, ingessate (legnose?)
in cui la voce di Blitz era già divenuta insopportabile (a tratti sembrava di
sentire un Vince Neil incazzato).
Non ci stupiamo quindi se i Nostri non sapranno superare l'impasse di inizio anni novanta, preferendo, in piena fase
"post Black Album",
rispondere alla "chiamata alle armi", arroccandosi nella nicchia
della Tradizione.
E così, anche nei loro momenti
di maggiore gloria, i Nostri rimarranno "medi" (attenzione: non
mediocri), medi in un mondo che
apprezzerà sempre più gli estremi e mostrerà disinteresse per le mezze misure.
Non così grandi come i Big Four, non seminali per il metal
estremo come la triade teutonica,
gli Overkill non hanno dalla loro nemmeno il groove dei “colleghi di costa” Anthrax,
né l'album della vita, l'opera epocale da consegnare ai posteri, quel
capolavoro che per esempio hanno saputo sfornare altri "medi" come
gli Exodus (mi riferisco a "Bonded By Blood"). Spaccano il
culo, gli Overkill, ma non con quella geniale e perversa scientificità che è
propria degli Slayer; talvolta si
concedono delle aperture melodiche e persino si cimentano in semi-ballad, ma non hanno la classe, l’agilità
di Metallica e Testament. Non hanno un Marty
Friedman, un Alex Skolnick, un Denis D'Amour o un Tommy Vetterli ad illuminare il loro cammino: in una parola, sono legnosi.
Il loro songwriting si basa sulle ruvide pennate di basso di D.D. Verni, che porta con sé un approccio
più che altro motorheadiano. E si sa
che per queste cose ci sono già i Motorhead,
tutt'al più i Sodom. Spingono gli
Overkill, ma procedono a testa bassa, come quei giocatori di calcio che,
inarrestabili, corrono lungo la fascia per poi perdere la sfera ai limiti dell'area
di rigore, perché non hanno una visione ampia del gioco, perché nel momento
decisivo non sanno cosa fare, non hanno la spregiudicatezza di concretizzare.
E quindi thrash metal & attitudine, attitudine
& thrash metal, e questo oramai da più di trent'anni: lodevole da un
lato, futile dall'altro. Eroi per il popolo metal (soprattutto quello di una
certa età), ma invisibili per chi guarda al metal con altri occhi: un metal che
viene rivalutato, come genere ma anche e soprattutto come carrozzone, e nel
quale, per emergere, c'è da essere un po' markettari,
kitsch nel modo giusto, portatori di
una proposta che abbia una freschezza intrinseca che sappia travalicare le
diverse culture e sensibilità musicali (il black metal, aiutato da qualche rogo e qualche coltellata di troppo, ce l'ha
questa freschezza).
Io li ho anche visti dal vivo
gli Overkill e non nego che il verde logo attira sempre se ben collocato su una
locandina. E sicuramente il momento migliore per apprezzarli è proprio la
dimensione live, dove a prevalere
sono il cuore e il sudore, vessilli di un'epoca che non esiste più. Ed allora
te li subisci nel pogo con quelle ritmiche tirate che sanno di punk
velocizzato, roba che se c'era uno che ci strillava sopra con voce dilaniata
poteva essere appetibile anche per qualche annoiato indie-rocker in cerca di emozioni forti. Ma invece ci canta Paperino e dunque ecco perché gli Overkill sono gli Overkill.
E se qualcuno ha qualcosa da
ridire, può appellarsi al sempre verde: "We
don't care what you say, Fuck you!".
(vedi le altre puntate di "Legno")
(vedi le altre puntate di "Legno")