26 set 2017

WHITESNAKE, IL SERPENTE HA IL SANGUE CALDO


I 10 MIGLIORI ALBUM A.O.R.

CAPITOLO 8: WHITESNAKE - "WHITESNAKE" (1987)

Dopo i Magnum rimaniamo ancora in Gran Bretagna e diamo spazio alla controversa figura di David Coverdale. “Controversa” in realtà per coloro ai quali, più che ai contenuti musicali, interessano i litigi tra rockstar, le polemiche di diversa natura, le diatribe che determinano continui cambi di line-up e un po’ di pruriginoso gossip.  

Quindi non a noi di Metal Mirror.

Trattiamo i Whitesnake all’interno della nostra Rassegna semplicemente per un motivo: se lo meritano. Per gli album pubblicati e per le canzoni in essi contenute.

Semmai potrebbe lasciar perplessi, per chi bene li conosce, la scelta all’interno della loro discografia dell’eponimo disco del 1987. Proviamo a motivarla.

Partiamo da un presupposto: è veramente difficile fare una cernita tra i tanti album rilasciati dal Serpente Bianco subito dopo la dipartita dai Deep Purple di Coverdale, all’indomani di “Stormbringer” (fine 1974): da “Trouble” a “Love hunter” fino ad arrivare a “Come an’ get it” i Whitesnake ci hanno deliziato con un hard rock caldo e viscerale, dalle tinte bluesy. Diciamolo: sulla scia stilistica proprio dei DP. Tanto più che a dare una grossa mano al singer di Saltburn-by-the-Sea arrivarono subito dalle viola profondità le Loro Maestà Jon Lord, prima, e Ian Paice, dopo. Il che aumentò ancor di più la qualità già elevata delle composizioni presente su quei full lenght.

Ma tutto questo primo periodo della carriera dei Whitesnake può essere meglio riassunto nello splendido doppio “Live…in the heart of the city” del 1980, suo perfetto compendio. Periodo sì debitore dei numi tutelari DP e Led Zeppelin (del resto un rocker inglese di fine anni settanta a chi doveva guardare per ispirarsi??), ma comunque dotato di una personalità invidiabile.

Ma qualcosa dev’essere girato nella testa dell’istrionico singer perché la scelta che optò da metà decade in poi fu quella di virare le coordinate sonore su di un hard and heavy più ruffiano e “paraculato”. Creando musica fortemente album/radio-oriented. Si, AOR. Ed è per questo che alla fine la nostra scelta ricade su “Whitesnake”, miglior frutto di questa nuova fase artistica.

E quindi: via in modo pressochè definitivo gli stilemi blues, ricerca di un sound delle chitarre potente e d’impatto, melodie di facile presa, chorus anthemici, power ballads strappalacrime e adesione totale sia a quel tipo di scrittura che a quella produzione “scintillante” dai suoni potenti e definiti ed a tratti laccati che chi sta seguendo la nostra Rassegna ha imparato a conoscere. Anche il look e l’estetica di Coverdale si adeguano diventando tipicamente glam: capelli cotonati, sguardi ammiccanti, video sensuali (in questo darà una grande mano la "notevole" seconda moglie di Coverdale, Tawny Kitaen che si presterà a sculettare scosciata in ben tre videoclip, aumentandone rotazione televisiva e successo).

Lo so, sono tutte caratteristiche queste che potrebbero, a leggerle, farvi venire l’orticaria. In realtà vi assicuriamo che l’ascolto ripaga ampiamente i nostri padiglioni auricolari perché la band non sbaglia un colpo, sia nei brani più cadenzati che in quelli più tirati, sapientemente alternati durante i 43’ di durata. E questo grazie a un Coverdale in stato di grazia, tecnicamente impeccabile, guidato nelle sue calde interpretazioni dalla sei-corde di uno dei miei chitarristi rock preferiti, il talentuosissimo John Sykes (di cui MM si è già occupato trattando sia i Blue Murder che i Thin Lizzy). E’ proprio John, coautore di sette brani su nove, il valore aggiunto della release (peccato che verrà licenziato dal bizzoso Coverdale ancor prima di andare in tour a promuovere l’album…); i suoi fantasiosi fraseggi sono sempre fumanti e la sua chitarra cattura l'attenzione sia nei riff portanti (sempre vari, trascinanti e incisivi) che negli assolo di gran gusto, tecnici ma mai "sboroni". L’opener “Cryin in the rain” è il miglior riassunto di quanto detto, una top song di meraviglioso hard rock, caldo e trascinante nel suo epico mid-tempo. Se poi alle qualità vocali del biondocrinito singer e a quelle compositive di Sykes aggiungiamo l’apporto, prezioso ma mai ingombrante, di un mostro delle tastiere come Don Airey, vi sarete finalmente convinti del perchè della nostra scelta. 

Ok, certo: “Whitesnake” non inventa nulla, non c’è niente di innovativo e avevamo già sentito tutto. Ma è anche la dimostrazione plastica che quando le doti di musicisti fenomenali si mettono assieme e lavorano all’unisono si crea dell’ottima musica, capace di intrattenere ed emozionare.

E quella copertina probabilmente riassume perfettamente tutta la storia del gruppo: un muro crepato da continue rotture e litigi. Ma tenuto assieme da un sigillo. Quello di Coverdale e del suo pitone albino...il white snake...

A cura di Morningrise