I 10 MIGLIORI ALBUM A.O.R.
CAPITOLO 8: WHITESNAKE - "WHITESNAKE" (1987)
Dopo i Magnum rimaniamo ancora in
Gran Bretagna e diamo spazio alla controversa figura di David Coverdale. “Controversa” in realtà per coloro ai quali, più che ai contenuti musicali, interessano i litigi tra rockstar, le polemiche di diversa natura, le diatribe che determinano continui cambi di line-up e un po’ di pruriginoso gossip.
Quindi non a noi di Metal Mirror.
Trattiamo i Whitesnake all’interno della nostra Rassegna semplicemente per un
motivo: se lo meritano. Per gli album pubblicati e per le canzoni in essi
contenute.
Semmai potrebbe lasciar perplessi, per chi bene li conosce, la scelta all’interno della loro discografia
dell’eponimo disco del 1987. Proviamo a motivarla.
Partiamo da un presupposto: è veramente
difficile fare una cernita tra i tanti album rilasciati dal Serpente Bianco
subito dopo la dipartita dai Deep Purple di Coverdale, all’indomani di “Stormbringer” (fine
1974): da “Trouble” a “Love hunter” fino ad arrivare a “Come
an’ get it” i Whitesnake ci hanno deliziato con un hard rock caldo e viscerale,
dalle tinte bluesy. Diciamolo: sulla scia stilistica proprio dei DP. Tanto più
che a dare una grossa mano al singer di Saltburn-by-the-Sea arrivarono subito
dalle viola profondità le Loro Maestà Jon
Lord, prima, e Ian Paice, dopo.
Il che aumentò ancor di più la qualità già elevata delle composizioni presente
su quei full lenght.
Ma tutto questo primo periodo
della carriera dei Whitesnake può essere meglio riassunto nello splendido
doppio “Live…in the heart of the city”
del 1980, suo perfetto compendio. Periodo sì debitore dei numi tutelari DP
e Led Zeppelin (del resto un rocker inglese di fine anni settanta a chi doveva guardare
per ispirarsi??), ma comunque dotato di una personalità invidiabile.
Ma qualcosa dev’essere girato
nella testa dell’istrionico singer perché la scelta che optò da metà decade in
poi fu quella di virare le coordinate sonore su di un hard and
heavy più ruffiano e “paraculato”. Creando musica fortemente album/radio-oriented.
Si, AOR. Ed è per questo che alla fine la nostra scelta ricade su “Whitesnake”,
miglior frutto di questa nuova fase artistica.
E quindi: via in modo pressochè
definitivo gli stilemi blues, ricerca di un sound delle chitarre potente e
d’impatto, melodie di facile presa, chorus anthemici, power ballads
strappalacrime e adesione totale sia a quel tipo di scrittura che a quella produzione “scintillante” dai suoni potenti e definiti ed a tratti laccati che
chi sta seguendo la nostra Rassegna ha imparato a conoscere. Anche il look e l’estetica di Coverdale si adeguano
diventando tipicamente glam: capelli cotonati, sguardi ammiccanti, video
sensuali (in questo darà una grande mano la "notevole" seconda moglie di
Coverdale, Tawny Kitaen che si presterà a sculettare scosciata in ben tre
videoclip, aumentandone rotazione televisiva e successo).
Lo so, sono tutte caratteristiche
queste che potrebbero, a leggerle, farvi venire l’orticaria. In realtà vi assicuriamo che l’ascolto
ripaga ampiamente i nostri padiglioni auricolari perché la band non sbaglia un
colpo, sia nei brani più cadenzati che in quelli più tirati, sapientemente
alternati durante i 43’ di durata. E questo grazie a un Coverdale in stato di
grazia, tecnicamente impeccabile, guidato nelle sue calde interpretazioni dalla
sei-corde di uno dei miei chitarristi rock preferiti, il talentuosissimo John Sykes (di cui MM si è già occupato
trattando sia i Blue Murder che i Thin Lizzy). E’ proprio John, coautore di
sette brani su nove, il valore aggiunto della release (peccato che verrà
licenziato dal bizzoso Coverdale ancor prima di andare in tour a promuovere
l’album…); i suoi fantasiosi fraseggi sono sempre fumanti e la sua chitarra cattura l'attenzione sia nei riff portanti
(sempre vari, trascinanti e incisivi) che negli assolo di gran gusto, tecnici
ma mai "sboroni". L’opener “Cryin in the rain” è il miglior riassunto di quanto
detto, una top song di meraviglioso hard rock, caldo e trascinante nel suo
epico mid-tempo. Se poi alle qualità vocali del biondocrinito singer e a quelle
compositive di Sykes aggiungiamo l’apporto, prezioso ma mai ingombrante, di un mostro delle tastiere come Don Airey, vi sarete finalmente convinti
del perchè della nostra scelta.
Ok, certo: “Whitesnake” non
inventa nulla, non c’è niente di innovativo e avevamo già sentito tutto. Ma è
anche la dimostrazione plastica che quando le doti di musicisti fenomenali si mettono
assieme e lavorano all’unisono si crea dell’ottima musica, capace di
intrattenere ed emozionare.
E quella copertina probabilmente riassume perfettamente tutta la storia del gruppo: un muro crepato da continue rotture e litigi. Ma tenuto assieme da un sigillo. Quello di Coverdale e del suo pitone albino...il white snake...
A cura di Morningrise
A cura di Morningrise