"Sunset of
Age", "A Dying Wish",
"Eternity Part II", “Eternity Part III", "Lost Control", "Deep", "One Last Goodbye", "Pressure",
"Panic", "A Natural Disaster", "Flying", "Angels Walk Among Us", "A Simple Mistake", “The Storm Before the Calm", "Anathema". Attenzione:
non sono queste le mie canzoni preferite degli Anathema, ma canzoni che sono state in passato eseguite dal vivo e
che, in certi casi, per un certo periodo, hanno rappresentato dei veri cavalli
di battaglia per la band inglese. Questi brani hanno anche un'altra
caratteristica in comune, non sono stati eseguiti stasera all'O2 Shepherd's Bush Empire: sono tutti
pezzi di una meravigliosa storia che, uno dopo l'altro, sono andati persi per
la strada. E, a sentire Vincent, la prossima a saltare sarà "Fragile Dreams".
Chi conosce gli Anathema non
si stupisce, perché sa che i Nostri amano focalizzarsi sul presente, esprimere
le emozioni che spingono con maggiore urgenza e non seguire le classiche
dinamiche da band normale. Vediamo
dunque se con una scaletta incentrata quasi esclusivamente sugli ultimi quattro
album e che scherzosamente definiamo un "rest of", i fratelli
Cavanagh sapranno comunque entusiasmarci.
Durante il soundcheck viene diffusa nell'ambiente
incalzante musica techno e in questo è già possibile percepire un "tocco
Anathema" nell'architettare un insolito (ma efficace) climax per la loro
entrata in scena. Si smorzano le luci e il pulsare house si stempera in una
versione remixata di "San Francisco", che conserva il beat elettronico. Le luci si spengono
definitivamente adombrando l'ingresso dei musicisti, accolti dagli applausi
calorosi del pubblico. "3,2,1...", si conclude il conto
all'arrovescia e sullo schermo si materializzano le onde di quella spiaggia in
cui si era conclusa (apparentemente) la vicenda del protagonista di "A Fine Day to Exit". Ma si fa
subito notte: sono i fari dell’automobile che sfreccia per le "strade
esistenziali" raccontate nel sequel
"The Optimist", che
ovviamente stasera riceverà un trattamento particolare in quanto "ultimo
nato" in casa Anathema. Nel sottofondo c'è ancora "San
Francisco" (sempre su nastro, versione originale questa volta) che
progressivamente si trasforma, mano a mano che i musicisti impugnano gli
strumenti, in "Untouchable part 1".
Non è mia intenzioni tediarvi
con una cronaca minuto per minuto del concerto, ma semplicemente sottolineare
il fatto che ci troviamo finalmente innanzi ad uno Show (con la S maiuscola) degli Anathema, uno show solo loro. "Untouchable part 1", tuttavia, non
convince appieno nemmeno questa volta: quella che a parere di chi scrive è una
delle migliori canzoni di sempre degli Anathema (e loro lo sanno), viene
riproposta regolarmente in apertura di concerto, ma forse i motori sono ancora
troppo freddi per "gestire cotanta bellezza", e magari sarebbe più
opportuno collocarla più avanti in scaletta, quando di solito i Nostri danno il
loro meglio.
Le cose migliorano nettamente
con "Untouchable part. 2"
e, più in generale, laddove verrà dato rilievo all'ugola dalla brava Lee Douglas. Non è certo una front-woman, né la presenza l'aiuta (è
così "ragazza normale", così provinciale con il suo "vestito
della domenica"), ma dal vivo, come su disco, si sta trasformando sempre
di più nella vera marcia in più della band, come solista ovviamente, ma anche ai
controcanti a sorreggere un Vincent sempre più spento dietro al microfono.
Il ghiaccio è comunque rotto,
arriva il momento di "The Optmist", subito rappresentato da un triplete niente male: "Can't Let Go", "Endless Ways" e la title-track.
I nuovi pezzi non sfigurano innanzi a quelli del passato recente, ma forse solo
“Endless Ways” potrà ambire a sopravvivere nelle scalette del futuro. La "Magia", tuttavia, non è ancora
giunta: qualcosa continua a non funzionare. La voce di Vincent: le incertezze
mostrate su disco si confermano anche sul palco, la sua voce non è più quella
di una volta. I suoni: gli strumenti non sono perfettamente integrati, il
suono, così stupendamente definito in studio, perde sul palco profondità e
sfumature. L'impiego di due batteristi porta solo maggiore confusione, non costituendo
affatto un valore aggiunto, visto che l'operato di Daniel Cardoso basta ed avanza (ma si sa che ormai i Nostri si
portano dietro John Douglas solo per
amicizia). La scelta di fare a meno di un tastierista in carne ed ossa, infine,
non si rivelerà anch'essa vincente, costringendo Daniel a fare i salti mortali
fra le "sei corde" (un po' trascurate) e i "tasti d'avorio (che
sembrano rappresentare più che mai il presente artistico del rosso crinito).
Gli indugi vengono finalmente
rotti con "Thin Air", che
dal vivo è sempre un bel sentire, in particolare adesso che la band pare aver
scelto il crescendo post rock come
modalità espressiva privilegiata. Si apre così la porzione più intensa
dell'esibizione: "Lightning Song",
che vede ancora la Lee protagonista, si rivela inaspettatamente uno dei momenti
migliori della serata, a scapito delle sue movenze “pop”; è poi la volta di
"Dreaming Light", con il
suo ritornello corale che coinvolge tutta la platea, e della stupenda "The Beginning and the End", che si
afferma senza ombra di dubbio come la legittima erede dell'emozionante "One Last Goodbye". In questa
circostanza anche Vincent (più che mai vicino a Jeff Buckley) finisce per convincere, ma tutti gli applausi sono
per il bellissimo assolo di Daniel, che con grazia gilmouriana (da pelle d'oca il cambio di sfondo, che dalla
copertina di "Weather Systems"
si tramuta nella suggestiva immagine del mare di "We're Here Because We're Here") confluisce
nei toni pacati (stupendamente pinkfloydiani)
di "Universal", altro highlight della serata.
Si inizia a percepire il
"flusso", la "Magia"
ed è con un certo struggimento ed ansia che accolgo le note di "Closer", che in genere è deputata
a chiudere le danze. I ritmi incalzanti e la voce vocoderizzata di Vincent trasformano l'O2 Shepherd's Bush Empire in
una scatenata pista da ballo: sullo schermo pulsano immagini psichedeliche e il
pubblico batte le mani a tempo, continuamente aizzato da Daniel, vero mattatore
della serata.
Le luci si riaccendono,
sfrutto dunque la pausa prima dei bis per prendermi un'altra bevuta, perché chi
ci legge sa che per la redazione di Metal
Mirror la preoccupazione maggiore ad un concerto è garantirsi un
approvvigionamento costante di alcool. In questo tragitto si apre anche
un'altra serie di riflessioni. Anzitutto gli Anathema chiacchierano troppo:
apprezzo l'affetto e la devozione che riservano al loro pubblico, la volontà
costante di cercare un contatto con esso, però i discorsi fra un brano e
l'altro, i siparietti dei fratelli, le grida di Daniel per coinvolgere il
pubblico anche durante l'esecuzione dei pezzi stessi tolgono poesia ad una
musica che andrebbe contemplata in religioso silenzio. I Nostri appaiono a
tratti come dei dilettanti alla sagra del paese e non dei professionisti con
più di venti anni di carriera ed album fantastici alle spalle.
Mentre sono in fila al bar,
dal quale fra l'altro c'è una visuale niente male, assisto all'irrompere (dopo
un'introduzione atmosferica) dei beat
elettronici di "Distant Satellites",
divenuta anch'essa un appuntamento irrinunciabile dal vivo, con Vincent al
centro del palco a dare una mano alle percussioni. Se "Closer" era
stata la "Everything in Its Right
Place" degli Anathema, "Distant Satellite" è la loro "Idioteque": è l'anima
radiohediana che raccoglie il testimone ceduto dai Pink Floyd.
Decido con il mio bicchiere di
tornare nella mischia, sarà la terza o la quarta volta che lo faccio, e noto
che è più faticoso del solito avanzare in mezzo a questa strana folla immobile:
è gente piantata per terra, quasi delle sagome cartonate, gente che esprime
entusiasmo in modo statico, scoordinato (chi ondeggia la testa, chi chiude gli
occhi, chi si accarezza il mento concentrato, chi tutt'al più batte le mani o
salta fuori tempo).
Attira la mia attenzione, non
so perché, il ricorrere delle magliette dei Marillion. C'è da dare atto che l'etichetta di band neo-prog (sebbene gli Anathema non
suonino progressive rock, almeno nell'accezione tradizionale del termine) si è
rivelata da un punto di vista del marketing utile ai Nostri, che in questo modo
hanno potuto attirare l'attenzione di tanti patiti del prog, orfani da molti
anni del loro genere preferito. Un ulteriore filone si è così aggiunto al
variegato popolo degli Anathema, che ancora contempla metallari, ma che in
ampia parte si compone oramai di nerd
con occhiali, hipster con barba, seducenti
darkettone, cultori di musica
"sofisticata" in generale, gente normale e normalissima dagli
indefiniti gusti musicali.
Mentre mi rendo conto che è
impossibile avvicinarsi ulteriormente al palco, osservo meglio questa variegata
fauna
umana, carpendo dettagli che prima mi erano sfuggiti: il metallaro è
più pettinato e profumato del solito; il vecchio e calvo progster non porta con sé il fascino degli anni settanta, ma la
tristezza di uno che sta chino sul grammofono inarcando il sopracciglio ogni
volta che i volumi impennano. Le ragazze, dal look alternativo ed elaborato, hanno un non-so-che di fanciullesco, sebbene certe di esse abbiano una età
considerevole; trasmettono un senso di fragilità preservato nella campana di
cristallo di una vita "protetta" trascorsa a superare con grande
fatica psicologica una gioventù difficile fatta di scherno e pernacchie. Appena
si rivolge loro una parola, o si fa un commento, anche quelle più
"audacemente dark" si tirano indietro irrigidite o persino intimorite
(ma forse sono io ad essere brutale nell'approccio, nda).
Capisco all'improvviso che c'è
una cosa che accomuna tutta questa gente
perbene, questa brava gente: sono
tutte persone che da anni si sono costruite una comfort zone fatta di frequentazioni amichevoli, di situazioni non
ostili, di dinamiche concilianti, a costo di impoverirsi evitando il conflitto
ed appiattendosi con persone poco brillanti. Alzo la testa e vedo Daniel
Cavanagh, ingrassato, senza capelli, senza collo, con le cuffie sulla testa,
che sembra Danny De Vito; Douglas
Lee vestita da domenica; Jamie Cavanagh
che pare aver ingoiato in un sol boccone Duncan
Patterson. E capisco che anche gli Anathema hanno deciso di rinchiudersi
nella loro comfort zone, coltivando,
insieme alle loro innegabili virtù, anche tutte le loro debolezze, contenti di
non dover affrontare conflitti, rotture di coglioni, gente che ti risponde male
o ti ferisce.
"Springfield" non è male dal vivo, questo sì sapeva, ma ecco
che proprio nel momento in cui mi sarei aspettato un brano storico (in altre
date era stata eseguita "Lost
Control", mannaggia la
miseria!), spunta a sorpresa "Back
to the Start", sempre da "The Optmist". Vincent introduce il
brano con un bel discorso ("Se state male, non vi isolate, l'aiuto è
fuori, l'aiuto è in ognuno") e, con i suoi toni distesi, complice la
sentita partecipazione del pubblico nell'intonare i cori nel finale, questo
brano atipico per la band, così positivo e speranzoso, si rivelerà un altro
momento di grande suggestione della serata così ricca di emozioni.
Finale
ideale, no? Ed invece no, perché il buon Daniel tira fuori
dal cilindro "Shine on you Crazy
Diamond" (ben più di un accenno) e a questo punto inizio seriamente a
pensare che si andrà avanti per tutta la notte: sarà per i toni colloquiali,
sarà che la band che è entrata finalmente in palla, ma mi sento veramente a
casa (cosa non frequente a Londra). "Shine on you Crazy Diamond" si
trasforma con un gioco di prestigio (l'ennesimo!) in "Fragile Dreams", che stasera suona meglio del solito, meno
impastata, più anthemica, con la voce
del pubblico fusa a quella di Vincent.
Con quello che oramai da molti
anni a questa parte costituisce il sigillo finale dei concerti dei Nostri, mi
rassegno al fatto che tutto sia finito. Ed invece ecco che rientrano Daniel e
la Lee, lui alle tastiere, lei alla voce: è il momento di "Glory Box" dei Portishead, cover non imprescindibile, ma comunque ben eseguita (ma perché,
però, togliere spazio ad una "A Natural
Disaster"?). Rimasto solo, l’instancabile Daniel annuncia un ultimo
pezzo che accende l'entusiasmo di molti, ma che sinceramente non riconosco
(apprenderò poi che si tratta di "The
Exorcist", antipazione del primo album solista dello stesso Daniel Cavanagh, prossimo alla pubblicazione): ottima l'interpretazione
vocale del chitarrista, per una ballata pianistica che mi ha sinceramente
emozionato. Che questi due brani siano indicativi sul futuro prossimo della
band? (Ossia un trip-hop bristoliano
con al centro la voce della Lee, o addirittura una pausa riflessiva colmata
dagli sforzi solisti di un incontenibile Daniel?).
Fatto sta che adesso è davvero
finita. Me ne posso andare soddisfatto, sebbene la “Magia” si sia palesata ad
intermittenza e in fondo rimanga il rammarico all'idea che con qualche classico
in più avremmo potuto sfiorare per davvero il nirvana...