Una volta un mio amico si era infatuato di una tipa di cui non ricordava neanche di preciso le sembianze, incontrata una sola volta. La ricontattò e la volle incontrare perché si era innamorato del nome (non ricordo, qualcosa tipo Erika) . Credo che gli sia andata pure bene.
E così può accadere
anche al metallaro. Innamorarsi di un nome. Non di una copertina, o
di un logo, o di una foto promozionale. Proprio di un nome, senza
sapere neanche (e senza interessarsene) chi c'è dietro.
A me è capitato così
con i Mouth of the Architect, che mi sono capitati per le mani mentre
spulciavo
un po' di doom in rete. Il nome mi ha colpito per il legame
con il film “La Chiesa” di Soavi, allievo di Argento. Ho passato
anni a evitare di approfondire il vero senso del nome, perché mi
piaceva immaginare che avesse un legame proprio con quel film,
suggestioni incluse. E invece oggi che mi accingo a scrivere questo
pezzo scopro che è proprio così, si sono proprio ispirati a quel
film. Follia pura che unisce l'Italia a Dayton, Ohio.
Il film narra di una
Chiesa costruita su una fossa comune in cui furono sepolti degli
eretici massacrati dai Templari, e che fu eretta sigillo del male. Il
male tornerà a fuoriuscire dalla viscere della Chiesa, con la
consueta ambiguità, il Bene come menzogna e copertura “santificata”,
e il Male come autenticità umana “demonizzata”. Il segreto del
massacro degli eretici, e l'origine della costruzione della Chiesa, era nota solo agli autori e all'Architetto, che fu a sua volta ucciso
dai suoi committenti per evitare che parlasse. Simbolicamente, la
struttura portante dell'intero scheletro della Chiesa, la cosiddetta
“chiave di volta”, fu fissata con una grossa vite che trapassava
il cranio dell'architetto attraverso la bocca.
Sarà una suggestione, ma
i MOTA (no, acronimo pessimo, i Mouth of the Architect), hanno
parti vocali intervallate da lunghi momenti di silenzio vocale, con
gli strumenti a spadroneggiare in un moto perpetuo che li accomuna
più al depressive black che ad altri generi. Un movimento sinuoso,
circolare, ipnotico, e quindi anche doom/sludge. L'elemento doom è
presente, e ricordo che la peculiarità del doom non è la lentezza,
che comunque non modifica la durata percepita di un brano, ma il
rallentamento, che invece lo fa. Sono a 6 minuti e troverei giusto
che il disco fosse quasi finito, anche piacendomi per carità. Mi
sembrano ore che sono cullato da queste note.
La circolarità dei Mouth
previene derive progressive, che altrimenti potrebbero essere date
dalla loro attitudine a cercare la variazione, o il cambiamento di
registro. E la circolarità li riconduce all'interno del metal,
piuttosto che altrove, perché è quell'elemento di chiusura, di
disinteresse al dialogo con l'esterno, di autismo quindi, che
personalmente amo come connotato del genere. Circolare come il
movimento della chiave di volta, una vite che più gira e più si
conficca.
In questo senso il
movimento dei Mouth ripercorre, filogeneticamente, anche la storia
stessa del metal, che inizia sì come movimento involutivo, chiuso,
che cerca dentro se stesso. Ma almeno fino a inizio anni '90 riesce a
comunicare con gli altri generi tramite le sue propaggini più
rockettare, o quelle che giocano la carta del progressivo o della
fusione. Dopo il crollo delle certezze, dei generi originari, il
metal entra in un tunnel di definitiva incomunicabilità. Si fonde
con altri generi, li esplora ancora più a fondo, ma come tappa di
una ulteriore ricerca interna, e desiste dall'idea di dire qualcosa
alle masse. Come la bocca dell'architetto, il segreto del metal è
inchiodato quale pietra angolare di una struttura che arriva ormai a
nasconderlo. O meglio a rivelarlo.
Basta una strofa, e poi i
Mouth restano con le parole strozzate in gola. Tra la commozione per
un pensiero e il dolore che ne cola subito dopo. E così procedono
tra vibrazioni e rumorismi come una perplessità che torna su se
stessa. E torna ciclicamente a far gridare.
Le metafore della bocca,
della parola, e della terra che le copre sono decisamente ricorrenti
nei loro testi. La bocca dell'architetto è un'allegoria della
condanna a vivere di mancanza, di vuoto, di incompiuto e di
impossibile, un sentimento tragico. La tragicità è data non tanto
dell'inevitabilità del dolore, ma da quella forza che dal dolore fa
rinascere, e crea ciclicamente nuove illusioni di felicità, fino al
paradosso del “volere la morte” per riavere la vita.
“La verità deve
essere detta. Niente ho voluto tranne la mia fine. E dobbiamo
inciderla nel cielo, per liberare la luce”
E
analogamente in un altro passo: “Le nostre teste hanno
resistito ai dolori del tempo per trovare la voglia di andare avanti.
Stira la mia pelle per avvolgere il cielo. Lascia che la luce mi
sanguini attraverso”
La
poetica parla innanzitutto dei classici temi funeral doom e
depressive.
“Questi denti
rigidamente chiusi parlano apertamente della perdita”
C'è un elemento di
rimprovero al mondo, sentimento d'abbandono.
“Le nostre teste
pendono verso il basso, così in basso... Nessuno ha voluto fermarsi
qui”
Eppure, con queste
premesse irrimediabili, c'è spazio invece per una prospettiva,
secondo l'eterno ritorno di cui parlavamo sopra:
“Trattieni il respiro
e tutto cambierà. Il seme vivrà”
Passando
dall'esistenziale alla questione topa, che tante vittime miete anche
nel metal più recondito, la metafora dell'amore perduto si svolge,
ugualmente, in una sorta di doppia fase sovrapposta di sconfitta e
ritorno, come se alla fine non fosse l'abbandono a far male, ma fosse
l'amore in sé a produrre struggimento e lacrime, per il suo destino
eternamente incompiuto, di caducità.
Non posso salvarti
Non è rimasto niente
dentro di me
Sono disperso in mezzo
al mare, la tua memoria ha affogato i miei polmoni
Vai via da me, non
troverai niente
La verità ha sepolto
il suo fuoco in fondo al tuo bacio
E bruciato via lo
sporco da ogni cosa
Il mio onore trattiene
le ceneri mentre la luce mostra
il rimpianto nei miei
occhi
I Mouth predicano la
condanna al ritorno della speranza, come nel mito di Prometeo:
l'aquila gli divora il fegato, ma il fegato ogni volta ricresce, solo
perché l'aquila possa tornare a tormentarlo ancora. Così l'amore,
così la vita. Così la loro musica suona come la ricerca di una via
d'uscita da questo ciclo, come trovare l'ingranaggio piantato tra le
fauci dell'architetto e girarlo per far crollare tutto. In “The
path of eight” i nostri dipingono il percorso dell'anima che torna
alla fonte, identificata con un il caos dell'inesistenza che
risiede fuori dalla spirale dei pensieri e delle memorie in cui
ciascun'anima gira e rigira all'infinito.
La vita è un ciclo
futile, come si dice in chimica. Una sequenza di trasformazioni che
ritorna sul substrato iniziale dopo aver prodotto un bilancio
energetico pari a zero. La morte rimette in gioco l'energia.
Ecco spiegato il criptico “trattieni il respiro e tutto cambierà: il seme vivrà”.
Ecco spiegato il criptico “trattieni il respiro e tutto cambierà: il seme vivrà”.
A cura del Dottore