14 nov 2017

THE RUINS OF BEVERAST: QUINTESSENZA DELL'ATMOSPHERIC BLACK METAL



Atmospheric black metal è un'espressione sibillina, a guardar bene tautologica, in quanto il black metal, sia nella sua forma più feroce che in quelle più articolate (sinfoniche, progressive, depressive, sperimentali o come volete voi), è sempre caratterizzato da una buona dose di "atmosfera". Le varie volte che mi sono imbattuto in questa etichetta, non ho dato più di tanto peso al fatto che dietro si celasse un (sotto)genere a sé stante. Cosa potrà mai essere il black metal atmosferico?
Black con tastiere, supponevo, come gli Emperor, i Cradle of Filth, o black lento, come Burzum o Ophthalamia; anzi no, meglio puntare sui prolissi Summoning, o sui folkish Drudkh: costoro saranno sicuramente black atmosferico, pensavo.
Poi mi sono imbattuto in The Ruins of Beverast e il concetto mi si è chiarito all'istante.

Partiamo da una domanda scomoda: c'era bisogno che si parlasse di atmospheric black metal per connotare certe sonorità? In un mondo, intendo, dove non è stato coniato un genere ad hoc per nomi importanti come Nevermore (ma suonano thrash o power?) o Voivodcyber thrash il loro???). In un mondo dove sotto l'ombrello del gothic metal abbiamo accolto di tutto, le asprezze dei primi (ed ultimi) Paradise Lost e My Dying Bride ed al tempo stesso le atmosfere sognanti di Gathering e primi Anathema; sotto di esso ha trovato collocazione anche il goth-rock piacione di Tiamat e Sundown, con tanto di effervescenze electro a fare da contraltare alla eleganza aristocratica dei Theatre of Tragedy. E neppure ci siamo stupiti se accanto al gelo dei norvegesi The 3rd and the Mortal ci siamo scottati con il calore tutto lusitano e con gli umori mediorientali dei Moonspell: tutto finito nel calderone del gothic metal!
Eppure, ad un certo punto, si è sentito la necessità di tirare fuori termini come depressive black metal (come se esistesse un happy black metal), funeral doom (concepito eventualmente per distinguerlo dal party-doom) o blackened death metal, indispensabile per catalogare un pugno di band che ha deciso di suonare un death metal con elementi black, o viceversa (come se poi le due cose fossero scollegate, alla stregua del grind con i neomelodici napoletani..). Ma alla fine voglio essere buono, comprensivo e concedere una ragion d'essere a tutti questi (sotto)generi. Ma l'atmospheric black metal, sinceramente, che senso ha? E' come dire violent hardcore o commercial pop...ma forse sono io il superficiale, vediamo meglio di cosa si tratta.
Come dicevo all'inizio, sulle prime non ho dato molto peso alla definizione, pertanto solo una concatenazione di eventi molto fortuita poteva portarmi ad approfondire questo genere. Dovete sapere, anzitutto, che fra le altre cose sono un appassionato di folk apocalittico: per questo motivo non mi sono certo tirato indietro innanzi alla possibilità di vedere dal vivo, il marzo scorso, i mitici Sol Invictus. Per l'occasione l'armata del buon Tony Wakeford faceva da spalla ai King Dude, cosa strana se si pensa che costoro (che all'epoca conoscevo solo di nome) non hanno molti tratti in comune con l'universo del neo-folk: un movimento principalmente europeo e con una storia più lunga di trenta anni, quando invece il primo parto discografico dei King Dude, americani, risale al 2010. Tirati per i capelli sul carrozzone delle "sonorità oscure", i Nostri si fanno oggi promotori di un folk noir debitore tanto del country di Johnny Cash quanto delle ballate crepuscolari di Nick Cave, con quel pizzico di rock'n'roll e quelle suggestioni western che tradiscono il forte legame con la terra natia (altro che rune!).
Sia quel che sia, il risultato fu un bel concerto, caloroso, emozionante, perfettamente bilanciato fra parti più "hard" ed altre più atmosferiche. Tante e belle furono le emozioni di quella serata che quando il 24 ottobre scorso si è presentata l'occasione di rivedere King Dude dal vivo, non me la sono lasciata certo scappare. I nomi dei gruppi spalla mi erano del tutto ignoti, e quale sorpresa è stata per me, date le premesse, ritrovarmi ad una kermesse di metal estremo!. Evidentemente in questo "nuovo mondo", dove i confini sono sempre più sfumati, è stato possibile ad una realtà ibrida come i King Dude ricoprire il ruolo di protagonisti sia in una serata (dark)folk che per una (dark)metal, fungendo da insospettabile collegamento fra dark-wave ed extreme-metal.
Al penultimo posto in scaletta, ossia appena prima degli headliner, figurava il suggestivo monicker The Ruins of Beverast, che nella mia ignoranza associavo a sonorità dark/rituali (visto che le rovine sono tanto care anche all’Evola che ha saputo ispirare molte realtà del folk apocalittico). Ed è così che gli "a me sconosciuti" King Dude mi condussero agli "a me ancora più sconosciuti" Ruins of Beverast!
Adesso vi racconto le mie emozioni del momento: non più di tanto interessato all'esibizione, e già piuttosto alticcio, noto che molti metallari si erano nel frattempo approssimati al palco, con ghigne che trattenevano a forza smorfie di tronfia soddisfazione. Qualcuno intona una nenia, come se già sapesse come la band avrebbe aperto le danze. Nell'oscurità i sei musicisti (due chitarristi, un bassista, un tastierista, un batterista ed una vocalist - non altro che la cantante dei Dolch, il gruppo precedente) prendono ordinatamente posizione sul palco, mentre una introduzione ambient attira gli applausi del pubblico. Luci blu rischiarano la scena. Irrompe la nenia accennata dal metallaro di prima, riprodotta a pieni polmoni dalla bionda donzella in stile Dead Can Dance: tutto molto suggestivo. Le chitarre fanno il loro ingresso: un ingresso solenne fatto di accordi ancora inesplosi. Una batteria dal passo tribale incalza nel sottofondo per poi imporsi e favorire la deflagrazione degli altri strumenti. Uno dei chitarristi (ma si è capito fin da subito che era il leader - sorta di Steve Von Till di noialtri) si avvicina al microfono e sfodera un growl cavernoso, che presto si impennerà in un raschiante screaming. Quella che seguirà nell'ora successiva sarà l'apocalisse messa in musica. E la mia impressione, nella mia ignoranza, sarà quella di aver assistito ad un gran bel concerto di feroce post-hardcore pervaso da intrusive suggestioni esoteriche.
Ma mi sbagliavo, perché il giorno dopo scoprirò un po' di cose su questi Ruins of Beverast, fra cui che il loro genere prediletto non è il post-hardcore, bensì l'atmospheric black metal
C'è da dire poi che costoro in realtà sono una one-man band, cosa che non si direbbe ascoltando i loro dischi, complessi e ben suonati. Dietro al progetto sta infatti il geniale Alexander von Meilenwald, che dal ‘93 al 2002 aveva militato come batterista nella black metal band tedesca Nagelfar. A seguito del loro scioglimento, il Nostro si getterà anima e corpo in questo suo cammino solista, in cui egli, abbracciando tutti gli strumenti (e con esiti apprezzabili), riverserà tutto il suo talento visionario, espandendo i confini del black metal.
Insomma, non aspettatevi la classica produzione lo-fi, i quattro quarti della drum-machine e i tre accordi in croce di certi blackster in solitaria: è il black metal atmosferico, bellezza!
Mi sono andato così ad ascoltare quello che secondo il parere di molti è il "loro" masterpiece: "Rain upon the Impure" del 2006. Capolavoro, senza se e senza ma!
Partiamo dal presupposto che gli album dei Ruins (cinque in tutto, dell'esordio "Unlock the Shrine" del 2004 al recente "Exuvia" del 2017) sono mazzate che si aggirano intorno ai settanta minuti e che, forti di brani che possono arrivare tranquillamente al quarto d'ora, offrono un ventaglio ampio di sonorità: dalle asperità di certo black metal più rarefatto, alla lentezza esasperante del doom, il tutto ammorbato da un impiego massiccio di tastiere, intermezzi ambient, innesti industriali e raggelanti campionamenti vocali che nell'insieme creano un'aura di misticismo che giustifica la scelta del monicker. Beverast è infatti la storpiatura di Bifröst, ossia il ponte che nella mitologia norrena collega Miðgarðr e Asgarðr. E le sue rovine, metaforicamente parlando, sono la rappresentazione palese dell'impossibilità di unire terreno ed ultra-terreno. Ma ci penserà la musica di von Meilenwald a ricreare questo legame!
Quello che è infatti importante precisare è che i Ruins of Beverast sanno creare atmosfera. Anzi, si può candidamente affermare che qui si va oltre: qui si creano mondi, come una volta faceva Tolkien. E non è necessario chiudere gli occhi, tale è la capacità descrittiva di von Meilenwal. Si parte dal derelitto mondo interiore di Burzum, di Leviathan (che fra l'altro torna alla mente spesso), per “uscire all'aperto”, precipitare in un mondo letteralmente inventato in cui si materializzano, innanzi agli occhi sbigottiti dell'incauto ascoltatore, scenari desolanti che possono evocare un mitico passato quanto un futuro apocalittico. Corridoi labirintici ed architetture contorte, castelli diroccati avvolti in nebbie violacee, cieli color porpora che sovrastano boschi psichedelici in cui brulli sentieri si perdono in traiettorie insensate. Disorientamento e stupore ad ogni piè sospinto, ampi spazi, paesaggi che si estendono a perdifiato: in questo il black metal tradizionale viene superato dalla sua variante atmosferica. 
Si prendono in prestito, a tal fine, ingredienti dall'universo del post-hardcore, del post-metal e dello sludge: elementi che tenderanno ad essere impiegati in maggior misura album dopo album, fino ad occupare spazi considerevoli nell'ultimo "Exuvia. Qui addirittura si ospitano i canti dei nativi americani, ritratti anche in copertina (che brutta copertina, però: a dimostrazione di come è difficile avvicinarsi all'atmospheric black metal - solo per sbaglio è possibile!).
Un gruppo tedesco, quindi, che ricava il nome dalla mitologia norrena e che va a confondersi con i pellerossa d'America? Sembrerebbe un ossimoro. Ma non solo: acuti di soprano, orchestrazioni wagneriane, cornamuse, ritmi tribali, elementi etnici. Pare che nell'atmospheric black metal dei Ruins of Beverast vi sia spazio per tutto: la loro musica procede per ambientazioni, narrazioni, mondi diversi che cozzano violentemente, ma non in modo schizofrenico, balbettante, bensì orchestrati da una oscura armonia che li fa coesistere senza frizioni, fluidamente, passando sovente per fasi di sospensione che non sono altro che portali per accedere ad altri pianeti di fastidio. Un fastidio danzante, quello del progetto di Aquisgrana, ma anche di una bellezza che potremmo definire ultraterrena: un altro ossimoro?
Del resto niente sembra impossibile per uno come von Meilenwald che sembra possedere la bacchetta magica, il dono dell'infallibilità. Perché von Meilenwald è infallibile, lo dico con cognizione di causa in quanto me li sono andati ad ascoltare gli altri album e sono tutti mostruosamente belli: belli, ispirati, visionari ed ovviamente atmosferici.
E allora sì, dai, riconosciamo, approviamo, certifichiamo l’esistenza anche dell’atmosferic black metal!