Cosa
può avermi spinto ad assistere ad un concerto dei Primordial?
Anzitutto l'aver assistito ad
un concerto degli Epica: bravi & belli quanto volete, ma
troppo miele nelle mie malefiche orecchie. Avevo dunque bisogno di tornare a
casa, avevo bisogno di black metal.
E se i Primordial non suonano più black metal, ci avrebbero pensato gli altri
nomi nel bill a soddisfarmi: i
tedeschi Der Veg Einer Freiheit,
realtà che seguo con interesse da diversi anni, e i Moonsorrow, che certo non hanno bisogno di presentazioni.
Vi è infine un legame di
eterno rispetto che mi unisce ad Alan
Nemtheanga, il quale mi ha regalato immense gioie "donando la
voce" ai Void of Silence in
quello che reputo uno dei miei album preferiti di sempre: "Human Antithesis". Senza contare
che sono un insospettabile fan della
prima ora dei Primordial: nel lontano 1995 acquistai fiducioso il trascurabile
debutto "Imrama", che poi
sarebbe rimasto l'unico loro CD nella mia collezione. Nonostante il cammino
degli irlandesi non mi abbia mai conquistato veramente, per onestà intellettuale
non mi sono potuto esimere dal seguirne i passi perlomeno da lontano. E dunque
eccomi qua all’Islington Assembly Hall ancora
una volta…
E' quasi un peccato gettare all'ortiche un
raro pomeriggio di sole a Londra per introdursi in un antro oscuro ad ascoltare
metal estremo, ma quando il dovere chiama non è possibile tirarsi indietro. Con
il black metal l'asticella del disagio sociale si alza di una tacca: attorno a
me vedo una brutta gioventù, via via condita da scampoli di una vecchiaia
ancora più brutta. Se con i Batuschka
potetti sperare in qualche personaggio più eccentrico e in frotte di procaci dark-lady, stasera il target sembra essere più basico che mai,
con esseri dalle forme strane, oserei dire quasi aliene. Immergendomi in questo
degrado ho come l'impressione di comportarmi alla stregua di quegli annoiati
aristocratici ottocenteschi che amavano, in incognito, calarsi nei bassifondi
dei quartieri più malfamati per ubriacarsi e giocare d'azzardo. Seguitemi
dunque in questa mia discesa negli inferi...
Girone
I: "Ma quanto è bello il black metal"
Un notturno di Chopin è la migliore "chiamata
alle armi" che i Der Weg Einer
Freiheit potessero concepire per radunare i propri adepti intorno al palco.
Attivi discograficamente dal 2009 e con all'attivo quattro pregevoli full-lenght, i tedeschi offrono una
vincente miscela fra sonorità classiche e derivazioni post, vedendo come punto
di riferimento fondamentale i primi impetuosi Emperor. Per questo motivo ci piacciono molto i Der Weg Einer
Freiheit: nello spazio di cinque brani (tutti molto lunghi e variegati) il
quartetto tedesco offre una panoramica del loro estro, fatto di velocità,
dinamismo e talento melodico. I suoni nitidi aiutano a valorizzare i singoli
passaggi ed anche nei momenti più incandescenti i Nostri non sembrano mai
perdere il controllo, continuando ad operare con estrema precisione.
A piacerci più di ogni altra
cosa è l'umanità che emerge da queste
note e che trapela anche dal modo con cui i Nostri si atteggiano e si muovono
sul palco: niente face-painting,
niente lingue di fuori, niente fuochi d'artificio. E' questo il black metal che
vogliamo vedere nel 2018: un black metal dimesso, timido, sincero, umano. E da fan del genere posso candidamente affermare
che non vi è momento migliore in musica di quando un chitarrista black metal
rimane da solo a riffeggiare prima
della immancabile sfuriata finale: cosa che abbiamo puntualmente vissuto con
"Zeichen", i cui ultimi
tre minuti auguro a chiunque di poter ascoltare almeno una volta nella vita (a
chi fosse interessato ad approfondire, consiglio quel gioiello che risponde al
nome di "Unstille", a
parere di chi scrive il lavoro più riuscito del combo teutonico). Ma ancora
migliori saranno i minuti finali della conclusiva "Aufbruch": quando in particolare spunterà la voce pulita ed
essa verrà squarciata da fendenti di abrasivo screaming (momenti di pura estasi sonora che evocano la mitica
"I am the Black Wizards")
potremo sostenere di aver vissuto non solo il miglior momento del set, ma, con il senno di poi,
dell'intera serata.
Girone
II: "Finlandesità"
Va detto che i Moonsorrow
è meglio ascoltarli che guardarli. Che si sta parlando di artisti di
caratura superiore lo si capisce dalla sicurezza, dal sound solido, dall'intelligenza compositiva che contraddistingue
molti dei loro passaggi: in una parola, quella capacità rara di risultare
semplici e complessi, monolitici e vari al tempo stesso. Eppure a guardare come
sono conciati molta della poesia di cui è impregnata la loro musica va
francamente a puttane. Già il fatto che Ville
Sorvali si presenti sul palco berciando al pubblico ed impugnando una
lattina di birra non è il massimo, ma a far cadere le palle è il look adottato dai cinque: una specie di face-painting striato di rosso (con
effetto fra l'horror e lo splatter)
che fa sembrare i Nostri un gruppo di mendicanti malmenati.
Tolto questo aspetto, il set dei finlandesi fila liscio che è una
bellezza, forte di un sound
fieramente bathoriano, ma che porta
con sé quel gusto progressivo che ha saputo animare i lunghi brani di Opeth e primi Katatonia. Il tutto pervaso da un forte spirito finlandese che accomuna i Nostri a tutti i loro conterranei.
Devo ammetterlo: a me non è
mai piaciuta nel metal questa finlandesità, che descriverei come
una sorta di circolarità saltellante
che potrebbe scaturire dalla tradizione folcloristica locale come dalla innata
indole alla baldoria, dato che bere in Finlandia è lo sport nazionale. Eppure
la Finlandia, quando vuole, sa essere fottutamente oscura, torva, misteriosa,
più di quanto riescano ad essere le cugine Norvegia e Svezia (vedasi il profilare
di realtà funeral-doom nelle lande di Babbo Natale): boh, saranno le
lunghissime notti invernali, sarà la tundra, sarà per il fatto che come paese è
più isolato rispetto al resto dell'Europa.
Sei infinite-song (di cui tre tratte dall'ultimo nato "Jumalten Aika") per un flusso di
emozioni inarrestabile che ha visto il prevalere delle peculiarità di questa
band unica nel panorama estremo. Apertura e chiusura sono affidate a pezzi da
novanta come "Pimea" (da
"Verisakeet") e "Kuolleiden Maa" (da "Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa"):
se con la prima i Nostri mettono in chiaro le cose con un sound belligerante determinato da spietati mid-tempo, riff quadrati
e il continuo alternarsi dello screaming
belluino del front-man/bassista ed i
cori odinici delle due asce Henri
Sorvali e Mitja Harvilahti, con
la seconda (un quarto d'ora di intuizioni melodiche vincenti) si svela il lato
più malinconico dei finlandesi, dove le orchestrazioni ad opera di Lord Euren non ricoprono affatto un
ruolo secondario.
Ma le gioie più grandi vengono
inaspettatamente da un episodio dell'ultimo album, "Mimisbrunn", presentata come un "pezzo lento". In
effetti, dopo una evocativa introduzione acustica, tutta la prima parte incanta
per ispirati arpeggi elettrificati e tempi fluidi; a stregarci definitivamente,
tuttavia, è stata la seconda parte, ben più dinamica e con un paio di
accelerazioni al cardiopalma (da lacrime il finale sparatissimo che ha impegnato tutti i musicisti in un forsennato tour de force che ha svelato lo spirito
più autenticamente black metal della band).
Insomma, per chi non lo avesse
capito è stato un gran concerto quello dei Moonsorrow, peccato solo che quello
stronzo davanti a me che mi ha occluso la visuale tutto il tempo con il
cellulare e che infine ha tentato di surfare
sulle nostre teste non si sia rotto l'osso del collo quando alla fine è cascato
impietosamente a terra…e non abbia, nella caduta, smarrito il fottuto cellulare
(ritrovato in extremis grazie a qualche anima pia). Del resto non si può avere
tutto dalla vita…
Girone
III: "Monday Bloody Monday"
(Da
notare che il 16 aprile era lunedì – da qui il brillante (…ehm) gioco di parole
con la nota hit degli U2) Se per i Der Veg Einer Freiheit abbiamo
citato gli Emperor e per i Moonsorrow abbiamo scomodato Bathory, per i Primordial il nome da tirare fuori è
niente meno che quello dei connazionali U2!
Non so come spiegarlo, ma c'è nella musica degli irlandesi una sorta di carica
epica, uno slancio libertario, un impeto rivoluzionario che si respirava nei
primi lavori degli U2. Chissà, saranno le chitarre in delay, le percussioni trottanti, le continue declamazioni
dell'infaticabile Alan Nemtheanga,
trascinatore come pochi se n'è visti in giro.
Insomma, il suono è vibrante e ciò supplisce in
parte una generale approssimazione esecutiva che penalizza la resa sonora
complessiva. Non aiutano i suoni rimbombanti e riverberati. Il volume inoltre
parrebbe troppo alto (o saranno le
orecchie fuse, visto che siamo al terzo concerto della serata?) e questo fa
sì che dagli amplificatori esca un amalgama terribilmente pastoso, con le due
chitarre a duellare in perduranti dissonanze e il rimbombo del basso in
sottofondo. In questo caos spicca il buon Alan che senza tregua corre in avanti
e indietro, si inginocchia e si rialza, gesticola ed agita continuamente l'asta
del microfono, incalza il pubblico ed interagisce direttamente con gli
spettatori delle prime file: non si può certo dire che il Nostro si sia
risparmiato per le due ore abbondanti di concerto. Quanto alla prestazione
vocale, essa non sembrerebbe risentire più di tanto da tutto questo dimenarsi
(un plauso alla resistenza fisica!), ma nel passaggio da disco a palco qualcosa
indubbiamente si perde.
Chiariamoci: Nemtheanga è un
grande, uno che avrebbe potuto figurare tranquillamente nella nostra classifica dei dieci migliori cantanti delmetal estremo, ma dal vivo la sua voce suona piatta, uniforme, le sue
capacità interpretative sbiadite rispetto a quanto è possibile udire su disco. E perché poi conciarsi come un pagliaccio?
Face-painting e stracci lo fanno
sembrare un miscuglio fra un beduino ed un reduce dalla guerra in Afghanistan:
tutto ciò, inoltre, cozza con quel fare dimesso, con quell'umanità, con quella
sincerità che avevamo apprezzato poco prima nei Der Veg Einer Freiheit. No,
Alan, non mi fai sentire a casa: è colpa mia, non tua, perché è da più di venti
anni che sei a giro e dai ancora il massimo, ma sei troppo esagitato stasera
per le mie coronarie.
Quanto ai brani proposti,
viene dato comprensibile risalto all'ultima fatica discografica ("Exile Amongst the Ruins", da cui
sono riproposti ben cinque episodi, fra cui risalta la bellissima ballata
"Stolen Years"), con un
occhio di riguardo per il capolavoro "To
the Nameless Dead", che con i suoi tre estratti viene eletto dalla
band stessa come album più importante della carriera: e proprio ad esso viene conferito
l'onore di chiudere le danze tramite la travolgente "Empire Falls", cantata con esaltazione dal pubblico intero nel
momento più concitato ed esaltante della esibizione.
Da segnalare inoltre le convincenti
esecuzioni di "God to Godness"
e "The Coffin Ships", gli
episodi che più di tutti si spingono nel passato della band (rispettivamente da
"Spirit the Earth Aflame",
2000, e "The Gathering Wilderness",
2005) e che con i loro saliscendi emotivi rappresentano la genesi di quella
cifra stilistica che avrebbe poi caratterizzato la mirabile evoluzione melodica
degli irlandesi.
Scendere troppo nel dettaglio
è tuttavia inutile, in quanto, come si diceva, i Primordial hanno eseguito la
loro "lunga canzone" di due ore, qua scossa da furibonde sparate
memori di un passato estremo, là declinata in momenti di grande pathos (quasi
da accendino, oserei dire se non fossimo nell'era degli smartphone), ma sempre
cavalcando quella vena epica che, paradossalmente, riconduce gli irlandesi a
territori prossimi a quelli del metal classico (con vocalità non lontane ad un Warrel Dane ipervitaminizzato).
Si, perché è di questo che
stiamo parlando: se non vi fosse quella ispirazione melodica che guarda ancora
alla tradizione del black metal degli anni novanta (stagione che i Nostri hanno
vissuto direttamente, questo va ricordato), la musica oggi suonata dalla band
potrebbe essere definita come una sorta di epicmetal sui generis che non trova molti riferimenti al di fuori della storia
della band, cosa che ovviamente le fa onore.
Sebbene negli album i
Primordial suonino indubbiamente meglio (più tonici, più brillanti), il
bilancio di stasera è indubbiamente positivo.
Il black metal è sempre il black metal, anche quando fa di tutto per non esserlo…