1 giu 2018

DEPECHE MODE: GUIDA PRATICA PER IL METALLARO


Cosa potranno mai avere in comune In Flames, Lacuna Coil, Moonspell, Samael, Vader, Atrocity, Novembre, Sonata Artica, Deftones, Rammstein, Marilyn Manson, Red Sparrow, Monster Magnet? Ebbene, tutte queste band hanno coverizzato almeno una volta un brano dei Depeche Mode.

Vi sono poi coloro che, senza ricorrere al tributo diretto di una cover, nel corso della loro carriera si sono ispirati più di una volta alle gesta di Gahan e soci (Paradise Lost, Tiamat, The Gathering, Anathema, A Perfect Circle, Ihshan, Ulver sono solo i primi nomi che mi vengono in mente).



Insomma, parrebbe proprio che al truce metallaro piaccia l’electro-pop dei Depeche Mode. A beneficio di coloro che della band inglese hanno una conoscenza superficiale, ecco che come al solito Metal Mirror viene in soccorso con una guida pratica ad uso e consumo del metallaro sprovveduto che in cinque minuti vuole capire come mai i Nostri siano potuti divenire una influenza fondamentale per l’universo metal, pur collocandosi, stilisticamente parlando, ad anni luce di distanza...

Breve cornice cronistorica. L’assetto originario dei Depeche Mode (che si erano formati a Basildon, UK; nel 1980) consisteva in Dave Gahan (voce), Martin Lee Gore (tastiere e chitarre), Andrew Fletcher (tastiere) e Vince Clarke (tastiere, chitarre, drum-machine). Quest'ultimo era anche il compositore principale della band, cosicché la sua dipartita nel 1981 (si sarebbe poi dedicato a tempo pieno ai suoi Yazoo) e il conseguente rimpiazzo con Alan Wilder, ebbe l'effetto di spostare l’asse della scrittura sul solo Gore, il quale si sarebbe dovuto confrontare con l’ego ingombrante di Gahan. Sullo scontro/incontro di queste due personalità (il geniale ma timido compositore, il carismatico ed esuberante front-man) si sarebbe fondata una ascesa irresistibile che avrebbe portato la band ad essere amata proprio da tutti, belli e brutti: dai superficiali frequentatori dell’alta classifica, ai più raffinati intenditori di musica, arrivando persino a toccare il cuore degli integerrimi metallari.

Sugli albori della band, “metalmente” parlando, potremmo anche soprassedere. Non per la mancanza di qualità, anzi: i primi Depeche potevano contare su un solido bagaglio tecnico, una spiccata personalità ed una notevole creatività. Inoltre, come tutti coloro che si sono destreggiati con l’elettronica a cavallo fra anni settanta ed ottanta, i Nostri coltivavano un profondo interesse per la tecnologia che poteva concretizzarsi nell’utilizzo di nuovi strumenti come nella sperimentazione di suoni inediti. Tanto di quello che oggi chiamiamo “pop degli anni ottanta” è indubbiamente dipeso dalla musica dei Depeche Mode.

Soprassediamo perché “Speak & Spell” (1981), “A Broken Frame” (1982) e “Construction Time Again” (1983), approcciati con il paraocchi del metallaro, rimangono irrimediabilmente confinati entro il perimetro del tanto vituperato “pop orecchiabile”. Io stesso, che della band sono un fan assai devoto, non sono mai riuscito ad apprezzare più di tanto i classici di questa prima epoca (“Just Can’t Get Enough”, “The Meaning of Love”, “Everything Counts” ecc.), preferendo episodi come “Photographic”, “Leave in Silence” e “And Then…”, i quali invece facevano presagire trame e sviluppi ben più interessanti rispetto ai beat incalzanti e ai chorus gigioni delle hit sopra citate. Lasciamo dunque da parte questi giovanotti assai bruttocci e dagli improbabili capelli impomatati, e passiamo con serenità al trittico di album successivi.

Some Great Reward” (1984), pur muovendosi lungo la medesima scia dei lavori immediatamente precedenti, mostra una importante maturazione sia a livello compositivo che lirico (e brani come “Something to Do”, “Somebody” e “Blasphemous Rumours” sono lì a certificarlo). Più che altro si conferma (aspetto che poi si rivelerà una costante nella produzione discografica dei Nostri) l'innata capacità di scrivere linee melodiche incredibilmente belle e di saperle abbinare a ritornelli sempre vincenti. Si registra infine un lieve incupimento nei toni, ma il metallaro dovrà ancora inghiottire amaro, e come al solito i singoli (in particolare “People are People” e “Master and Servant”) sono i bocconi più duri da mandare giù…

Decisamente meno fatica richiederà l’ascolto di “Black Celebration” (un titolo un programma), album-capolavoro del 1986 che inaugura l’era dark dei Depeche Mode: esso è un sensuale gioiello nero in cui, in modo definitivo, il synth-pop naïf degli esordi cede il passo a quelle movenze oscure che segneranno la maturità degli album degli anni novanta: la title-track, “Fly on the Windscreen”, “Stripped”, “Dressed in Black” forgiano il nuovo suono dei Depeche, con un Gahan sciamanico (stupenda e magnetica la sua profonda timbrica tenorile) a destreggiarsi fra synth gelidi e scarni rituali di drum-machine.

Music for the Masses” (altro titolo programmatico) segna un brusco ritorno a sonorità smaccatamente radiofoniche, ma gli standard qualitativi raggiunti dalla band sono oramai al di là di ogni possibilità di delusione: i nuovi brani, orchestrati con grande perizia (da sottolineare la riuscita alternanza fra le voci di Gahan e Gore), possono contare su trame sempre più complesse e dinamiche, con le chitarre a guadagnare spazi crescenti e a traghettare il sound dei Nostri verso lidi rock. Nel 1987, anno di uscita di questo masterpiece che ha decretato il definitivo successo della band nelle chart internazionali, gli episodi che possono toccare le corde giuste del metallaro sono effettivamente molti, fra cui “Never Let Me Down Again” (con l'incredibile crescendo finale che in sede live diverrà un must assoluto), “The Things You Said” e “Behind the Wheel”, senza dimenticare i cori apocalittici della strumentale “”Pimpf”.

In “101”, epocale doppio live-album edito nel 1988, potete trovare tutto questo: dal lato pop a quello dark, con una verve ed una grinta degne di una band rock vera e propria (da ricordare che i Nostri, da un certo punto in poi, impiegheranno sul palco batteristi in carne ed ossa). Un live-album epico, fisico, “sudato” che costituisce il compendio ideale per capire cosa sono stati i Depeche Mode nel decennio ottantiano. Ascoltandolo si potrà decidere se approfondire la prima parte della loro carriera o tirare avanti senza tante remore. Ma se non avete tempo da perdere, andatevi ad ascoltare direttamente i capolavori degli anni novanta.

Eccoci finalmente a “Violator” (1990), quello che dalla critica è considerato il capolavoro assoluto della band. Indubbiamente siamo di fronte all’apice creativo dei Depeche Mode, sebbene suoni e sonorità siano ancora debitori della decade appena trascorsa. Eppure, per quanto ancora subdolamente pop (un pop oltre il pop, oserei dire), i brani non suonano mai smaccatamente piacioni, anzi si ammantano di una oscurità, di una spinta introspettiva, di una raffinata ricerca melodica (sempre splendidamente integrata con i pattern elettronici) che li allontana dalla musica commerciale più becera. Brani come “World in my Eyes”, “Sweetest Perfection”, “Waiting for the Night” o la conclusiva “Clean” (di una intensità quasi pinkfloydiana), con il loro incedere ipnotico ed inquieto sembrano riprendere il discorso che era stato interrotto appena dopo “Black Celebration”. Ma è con hit superlative come “Enjoy the Silence” e “Personal Jesus" (epica la prima, incalzante la seconda: entrambe caratterizzate da iconici refrain di chitarra) che viene marcata la superiorità dei quattro rispetto al resto dell’universo pop. Una superiorità riscontrabile a tutti i livelli: compositiva, esecutiva, espressiva e persino sul piano della produzione e degli arrangiamenti. 

Con “Songs of Faith e Devotion” (1993) si farà ancora meglio. Fra dipendenze di varia natura e dissidi interni esce l’album “maledetto” dei Depeche Mode, rappresentato alla perfezione dal nuovo look di Gahan (capelli lunghi e barba). Aperto dal caos e dal riff ossessivo di “I Feel You”, l’album è una sequela spericolata di brani da brividi che, a questo giro, sembrano prediligere la strumentazione rock, la quale conferisce una fisicità senza precedenti al sound dei Nostri. Non è un caso che Gore, senza ovviamente tralasciare le tastiere, sembri volersi ergere a status di chitarrista, ruolo che peraltro ricoprirà a tempo pieno sul palco. Quanto a Gahan, la sua voce tocca qui picchi espressivi inauditi: ascoltare per credere le visionare “Walking in My Shoes” ed “In Your Room” (entrambe ammantate di fulgori apocalittici), o anche la violenta “Rush”, dove il Nostro svela il suo background punk, peraltro mai celato. La dolcissima “Judas” e la drammatica “One Caress” (per soli archi), cantate da un Gore in stato di grazia, fanno da perfetto contraltare alle intemperanze di Gahan, completando un mosaico che vede convivere i tormenti della carne con una profonda spiritualità.

Le lacerazioni fra i due leader, oramai “separati in casa” e messi a dura prova dall’estenuante tour di supporto a “Songs of Faith and Devotion”, daranno alla luce “Ultra” (1997), qualitativamente non all’altezza dei due predecessori, ma forte di guizzi del calibro dell'acidissima “Barrel of a Gun”, della struggente “Home” (altra perla cantautoriale di Gore) e della ruffiana (ma irresistibile) “It’s No Good”: episodi che mostrano quanto la band, ai minimi termini come squadra (nel frattempo anche il provvidenziale Alan Wilder aveva abbandonato), fosse ancora in grado di scrivere grande musica. Non tutto sarà ad altissimi livelli, e qualche cedimento a livello di scrittura è percepibile qua e là, ma a conquistare sono gli umori, le irrequietudini, gli eccessi, l'atmosfera malsana, i suoni sporchi (c’è molta elettricità qua dentro, amici miei), le visioni fuorifuoco e i miasmi veramente creativi (gli ultimi?) di musicisti straordinari alle prese con un difficile post-sbornia…

“Ultra” sarà anche l’ultimo grande lavoro dei Depeche Mode: il successivo “Exciter” (2001), complice la disintossicazione di Gahan, ripulisce il sound dei Nostri, da un lato recuperando il lato più pop e dall’altro accantonando quello più rock, che invece aveva caratterizzato la storia recente della band. Non un brutto album, ma non indispensabile per il metallaro, che invece tenderà a preferire il successivo “Playing the Angel” (2005), che potremmo definire, se mi perdonate l’espressione, il “Black Celebration” del nuovo millennio: se esso certifica un calo di ispirazione oramai consolidato (ma comprensibile dopo così tanti anni di gioie), il ritorno a sonorità più oscure (complice, questa volta, il divorzio di Gore) risulta nel complesso cosa gradita, con un discreto colpo di reni come “Precious” a trainare brani mediamente riusciti.

Sounds of the Universe” (2009), “Delta Machine” (2013) e “Spirit” (2017), con una lieve predilezione per quest’ultimo, sono da giudicare come operazioni di puro mestiere: pur con la professionalità che appartiene di diritto a chi ha alle spalle una carriera di successo lunga quasi quarant’anni, e non privi della classe innata che da sempre contraddistingue la band, questi capitoli discografici ci consegneranno dei Depeche Mode che sono oramai solo l’ombra di quelli che abbiamo tanto amato molti anni prima.

Come per i Cure, che abbiamo recentemente trattato per il loro quarantesimo compleanno, ci restano i grandiosi appuntamenti live dei Depeche Mode: esibizioni molto intense ed ancora ricchissime di energia e passione, con una sequenza di classici che toglie letteralmente il fiato. Non perdeteli finche siete in tempo!     


Playlist Essenziale:

“Blasphemous Rumours” (“Some Great Reward”, 1984)

“Stripped” (“Black Celebration”, 1986)

“Never Let Me Down Again” (Music for the Masses, 1987)

“Enjoy the Silcence” (“Violator”, 1990)

“Personal Jesus” (“Violator”, 1990)

“Walking in my Shoes” (“Songs of Faith and Devotion”, 1993)

“In Your Room” (“Songs of Faith and Devotion”, 1993)

“Home” (“Ultra”, 1997)

“It’s No Good” (“Ultra”, 1997)

“Precious” (“Playing the Angel”, 2005)