I più amati? No, non lo si può di certo affermare.
I più influenti? Neppure; quest’etichetta spetta di diritto
a Iommy & co.
Allora i più popolari?! Menchemeno.
I Deep Purple e i Led Zeppelin, da questo punto di vista, li hanno surclassati…
E allora come li possiamo
definire, e che ruolo hanno avuto nella storia del Rock e del proto-metal, i Blue Öyster Cult?
Per chi scrive i BÖC sono stati
semplicemente i più immaginifici, i più destabilizzanti e al tempo stesso, ingiustamente,
i meno acclamati tra i padri fondatori
dell’heavy metal.
Se a trattare la Jimi Hendrix
Experience mi erano tremati i polsi, affrontare la redazione di uno scritto sui BÖC mi suscita sensazioni ancora “peggiori”. Forse perché tutto sommato la J.H.E.
aveva pubblicato appena 3 dischi e, con metodo, si poteva scriverne in sintesi
e al contempo provare a risultare esaurienti.
Con i BÖC no. I BÖC sono un mondo
a sé; un universo a sé; un universo enorme, stratificato. Pieno di “non detti”
e di sottintesi. Carico di sfumature. E questo anche perchè parliamo di una
carriera lunga una ventina di dischi (tra studio e live, senza contare raccolte
e “best of”), ricca di colpi di scena, di cambi di formazione. Ma soprattutto di una musica
talmente pregna di senso e culturalmente innovativa da influenzare gli stili di
band appartenenti agli ambiti più svariati: dal metal classico (Iron) al thrash
(Metallica); dal power americano (Iced Earth) al prog più elegante (Fates
Warning); dal Glam (Twisted Sisters, Ratt) al grunge (Alice in Chains,
Mudhoney); dai gruppi doom post- Sabbath (Candlemass, Saint Vitus, Trouble),
fino allo stoner e al metal più vario e raffinato degli Opeth.
Da dove cominciare quindi? Beh, partiamo da lui allora. Dall’uomo
da cui tutto prese piede. E della cui morte oggi ricorre il secondo
anniversario. Si, proprio il 26 luglio del 2016, a causa di problemi polmonari,
moriva Sandy Pearlman. Sandy era una
sorta di “tuttologo”: critico prima e produttore musicale poi; ma anche
professore, poeta, scrittore, manager e giornalista. E qualcos’altro mi
dimentico sicuramente.
Non musicista però; musicista no. Ma per Pearlman questo non fu un
limite: ho una miriade di idee, scrivo musica e testi ma non ho una band mia? Poco
male…ne fondo una! E così: mette assieme un po’ di musicisti di Long Island,
gli procura un contratto con una casa discografica, gli scrive i testi per le
canzoni. E li fa diventare i BÖC. Di fatto una risposta americana allo
strapotere hard rock/heavy inglese.
Com’è nello stile di MM, ci dovremo
dare una sorta di limite nonché una metodologia su cui impostare la nostra
Retrospettiva, che vuole essere sì celebrazione e ricordo di una delle più
grandi rock band di sempre, ma anche la consueta Guida pratica per il metallaro che non li avesse mai conosciuti o
approfonditi. E che magari si è limitato a incrociarli solo per vie traverse (chi
ha detto la cover di “Astronomy” dei Metallica su “Garace inc.”?). Ci
soffermeremo quindi solo sull’essenziale, su quella prima fase di carriera
corrispondente alla prima metà degli anni settanta che di fatto ha
rappresentato un allucinante e oscuro viaggio sempre in bilico tra rigore
compositivo, colti riferimenti musicali e letterari, e anarchica distruzione
sonora…
Partiamo perciò dall’inizio.
Partiamo da…
“Blue Öyster
Cult” (1972)
Del nucleo originario di Long
island reclutato da Pearlman nel 1967, in questo debut ne rimasero solo tre
quinti: Donald Roeser (il celeberrimo chitarrista “Black Dharma”), il batterista Albert
Bouchard e il tastierista Allan
Lanier. A questi, si aggiunsero gli ultimi due membri del quintetto delle
meraviglie: Eric Bloom (chitarra
ritmica e voce) e il fratello di Albert, Joe
Bouchard al basso. Tutti grandi musicisti, e tutti, ad eccezione di Lanier,
anche cantanti (anche se le linee vocali preminenti saranno sempre quelle di
Bloom).
Per capire che ci si trovava di
fronte ad unicum musicale, bastava osservare la straniante copertina di questo
debut omonimo: dei binari ferroviari che si dirigono verso l’infinito siderale,
affiancati a sinistra e a destra da pareti (?) di finestre chiuse, anch’esse
dirette verso il medesimo orizzonte fatto di una miriade di fredde stelle. E il primo contatto con la musica
degli americani non è meno shockante: “Transmaniacon MC” è una bordata nei
denti da far paura. Signori, questo è già heavy metal a tutti gli effetti, un
brano che è già manifesto sia della band che di quell’hard rock che era già,
appunto, proto-metal. Sinuosa nei suoi saliscendi, cattiva e a tratti brutale
(da notare l’incredibile lavoro di Albert dietro le pelli), il pezzo, guidato
dalle vocals luciferine di Bloom e da riff portanti super incisivi, è un
condensato, nei suoi 200” di durata, di rock malato e originale, gemma da
accostare a quella “Fireball” dei Deep Purple che appena sei mesi prima aveva
costruito un mattoncino miliare del nostro genere preferito.
“I’m on the lamb but I ain’t no sheep” poi è
un hard rock blues fumante, che non avrebbe stonato in un album di fine ’60 dei
Cream, impreziosito da un assolo centrale al fulmicotone e da un testo
originale e irriverente. Ma è la produzione di Pearlman, pulita ed essenziale,
a far risaltare ogni brano per la qualità di un songwriting di caratura
superiore. E la struggente, meravigliosa “Then came the last days of may” (da
pianti il testo) ne è un fulgido esempio.
Per carità, l’album nel suo
complesso non è perfetto nè ancora completamente a fuoco, seppur senza filler
e/o cadute particolari. Diciamo che vengono miscelati e alternati diversi stili,
tra rimandi come sopra accennato all’hard blues dei Cream (“Before the kiss, a
redcap”) fino alla psichedelia più stralunata (l’accoppiata “Screams” – “She’s
as beautiful as a foot”); dal rock ispirato e per certi verso rozzo della
meravigliosa “Cities on flame with rock and roll” (con una coda deep-purpleiana
spettacolare) fino a brani tipicamente obliqui, visionari e oscuri come
“Workshop of the telescope” (le cui strutture verranno perfezionate in futuro)
fino alla conclusiva, countreggiante, “Redeemed”, venduta alla band dal
cantautore Harry Farcas.
Voto: 7,5