DIECI ALBUM (PIU' UNO) PER CAPIRE DEVIN TOWNSEND - Cap. I
Antica Tracia, la terra che diede i natali a Spartaco, il gladiatore-ribelle più famoso della Storia. I Romani
la governarono a partire dal I sec. d.C. per quasi mezzo millennio.
Numerosissime le testimonianze storiche dell’Impero, tra cui il meraviglioso Anfiteatro di Trimontium, attuale Plovdiv, Bulgaria centrale. In questo
suggestivo scenario, negli ultimi anni, molti artisti Metal hanno scelto di ambientare
un proprio live, da immortalare, e poi commercializzare, poi su DVD.
Recentemente gli Anathema, con il
loro splendido “Universal” del 2013. E nel settembre 2017, per festeggiare i 20
anni dalla nascita del suo percorso
solista, anche l’immenso Devin
Townsend.
Lo stesso Devin ha definito
questo concerto come un punto di arrivo, la “fine di un’era”, la celebrazione
di un percorso ad oggi composto da 16
album in studio, 6 live ed
altrettante raccolte (senza contare i singoli, i progetti paralleli, le
partecipazioni varie e la rinomata produzione sotto marchio Strapping Young Lad). Insomma un
materiale talmente ampio e di qualità da essere difficilmente completo anche
nelle discografie dei suoi fan più accaniti.
Invece di scrivere una semplice
recensione di “Ocean Machine – Live at
the Ancient Roman Theatre”, abbiamo pensato bene di prendere spunto
da questo bellissimo concerto (di cui comunque consigliamo caldamente l’acquisto)
per raccogliere i fili di questi due decenni e, come nostra abitudine,
raccontarveli in una Rassegna composta da 10
album essenziali (più uno), senza i quali non si può davvero dire di
conoscere il Genio di Vancouver. E, visto che il mese prossimo, uscirà il suo nuovo full lenght, "Empath", quale migliore occasione per un riordino della sua intera discografia?
Townsend, Devin; The Devin
Townsend Band; Devin Townsend Project…difficile districarsi in tanti monicker e
tante release, ma per fortuna c’è Metal Mirror che, come di consueto, vi potrà
guidare, in una sola settimana, alla scoperta di ogni sfaccettatura di colui
che, attualmente, è tra gli artisti più poliedrici, e tra i più apprezzati da critica e pubblico, in circolazione nel mondo
del Rock.
Caratterizzato da un approccio
sincretico e a 360 gradi, il metal townsendiano è moderno, onnivoro, capace di
introiettare le lezioni del passato (heavy classico, thrash, groove, prog) così
come le tendenze più moderne (djent, elettronica, noise, ambient). E coniugando
questo mix, già di per sé iper-saporito, con stilemi più soft, che guardano
all’hard rock più raffinato (di quel tipo che molto critica definisce “art
rock”). Una visione musicale personalissima, che rende ogni sua produzione unica
e immediatamente riconoscibile, completa il quadro. Anzi no, non lo completa.
Lo completa la sua voce: fenomenale, potentissima, capace di andare dallo
screaming più acuto e affilato a tonalità calde e sensuali.
La metodologia che abbiamo deciso
di adottare per la Rassegna non è meramente classificatoria (del tipo: i primi
10 dischi in ordine decrescente), ma volta a individuare quei dieci full
lenght, non necessariamente i migliori qualitativamente, capaci di illustrare
al meglio le diverse “anime” di Devin.
E allora, via si parte, con…
10. TRANSCENDENCE (2016) – IL “SINFONICO”
Iniziamo con…la fine! “Transcendence”
è l’ultimo album in studio del Devin Townsend Project ed è per certi versi uno
dei più “semplici”, “abbordabili” per i neofiti. Coeso, fluido, epicamente
solare, luminoso; una delle opere più risolte e mature del genio canadese (che
già da tempo stava trasportando in musica questo suo approccio “positivo”). E
il primo a non essere il parto di un’unica mente. Certo, le redini rimangono
saldamente in mano a Devin ma ormai è evidente che il D.T. Project sia
diventata una band a tutti gli effetti. E una band, tecnicamente parlando, con
i controrazzi. Alla pelata di Devin si affiancano, ormai da tanti anni, gli altri tre fidi pelatoni: i barbuti Dave Young (chitarra) e Brian Waddell (basso) + quel fenomeno
tentacolare che risponde all’impronunciabile nome di Ryan Van Poederooyen (batteria). Ma un ruolo di primo piano l’ha
ormai anche il 5° e più giovane elemento del progetto, quel Mike St. Jean che si ritaglia con le
sue tastiere enormi spazi, tanto da risultare co-autore assieme ai compagni di
ben 5 dei 10 brani.
Trascendenza e spiritualità orientaleggiante trovano spazio
nelle liriche (sublimandosi negli 8’ della conclusiva, rilassata “From the
heart”, che presenta un memorabile chorus in hindi) ma è il suo essere
classicamente moderno (e mai modernista) a far di “Transcendence” un album da
avere. Pur suonando DTP al 101%, Devin inserisce nel songwriting robuste e
inusuali dosi di sinfonia, cori e orchestrazioni (e senza l’utilizzo di
un’orchestra…) non rinunciando alla stratificazione dei suoni, ai delays e a
quel wall of sound ormai suo marchio di fabbrica da sempre. Arrivando a
confezionare una sorta di symphonic prog che, e questo è un grande merito, non
risulta mai essere barocco o pomposo. E, per aggiungere gloria alla gloria,
troviamo anche Anneke van Giesbergen, ormai costante collaboratrice di Devin
dai tempi di “Addicted”. La Divina limita i propri inserimenti al minimo ma
quando lo fa, i brani si rivestono di eleganza e di un’emozionalità da brividi
che solo la sua voce ci sa donare.
Niente stravolgimenti quindi, ma una crescita matura accompagnata da
intelligenti variazioni sul tema. E dopo vent’anni di continue produzioni,
scusate se è poco…
Voto: 8,5
9. OCEAN MACHINE – BIOMECH (1997) - IL “RACCOGLITORE”
Facciamo subito un po’ d’ordine e,
dopo l’ultimo nato, torniamo ai primi vagiti della produzione solista di Townsend. Pronti
e via e Devin si presenta così, tanto per gradire, con un albumone. Nello
stesso anno in cui, con gli Strapping, si imponeva all’attenzione mondiale con
il capolavoro “City”, Devin (ri)esordisce duplicemente: con la sua etichetta
indipendente HevyDevy Rec. e il suo
primo disco solista, che raccoglie
diverso materiale che il Nostro andava componendo da diversi anni a quella
parte. Evitato agilmente l’effetto dispersività, rischio esistente visto l’iter
di nascita, il disco è già a livelli ottimi, 74’ che, sa va san dir, non
annoiano mai. Ispiratissimi, i brani si susseguono fluidamente, lasciando
ognuno qualcosa di diverso alle orecchie ed al cuore dell’ascoltatore. Ma
soprattutto evidenzia una cosa: che da qui non si torna indietro. I SYL d’ora
in poi diventeranno il passatempo di Townsend che per il futuro avrà come focus
questa carriera solista che si muoverà tra moderni stilemi progressive, largo
utilizzo delle tastiere, alternanza di tempi veloci e medi, pesantezza groove,
parti acustiche e/o ambient (“Sister” – “3 A.M.”), melodie pronunciate (la
seconda song “Life”, che diventerà cavallo di battaglia nei live, è
programmatica in tal senso). Insomma, un mix difficile da tenere insieme in modo
credibile se non sei Devin Townsend, appunto…Ma Devin è Devin e se a fine
disco, con “The death of music”, si vuole permettere addirittura un esperimento
di 12’ industrial-ambient, con risultati peraltro ragguardevoli, nessuno gli
può dire alcunchè.
E se questo è solo l’inizio…sti
cazzi!
Voto: 7,5
Voto: 7,5
A cura di Morningrise
(continua...)
8. PHYSICIST (2000) – IL’”DIRETTO”
Paradossale: la maggior parte
della critica lo considera una mezza schifezza, con una produzione
orribile, un mixaggio ancor peggiore e con canzoni che sembrano buttate lì a
casaccio. Ma soprattutto è lo stesso Devin che lo considera di gran lunga il suo album peggiore.
E allora?!? Mi ci metto io a riabilitarlo? Beh…si!
Nato come progetto ancor più
estremo dei SYL (tanto da essere senza dubbio l’album più diretto e senza
fronzoli dell’intera discografia solista di Townsend), e concepito in comune
con Jason Newsted (che abbandonò la cosa perché ostracizzato da quel
simpaticone di Ulrich), “Physicist” venne proseguito e ultimato dal solo Devin,
con la chiamata in studio di tutta la line up dei SYL (Stroud, Simon, Hoglan).
Sparato a mille all’ora, tanto da
durare appena 40’ (un’inezia per gli standard del Nostro), Devin getta in questo
disco idee validissime sempre in bilico tra devastazione industrial-thrash (con
puntate death, come nella sconvolgente, appunto, “Death”) e l’eleganza, vocale e
melodica, che era già emersa nei due anni precedenti con “Ocean machine” e
“Infinity”. Tutta la
track list è composta da brani che durano poco meno o poco più di 3’, ad
eccezione di due perle di rara bellezza: “Kingdom” (che ritroveremo, cantata
dalla Divina Anneke, anche in “Epicloud”) e gli undici minuti della finale
“Planet rain”, uno degli esempi più alti dell’extreme prog metal townsendiano.
When words have gone away / Remember NAMASTE!
A cura di Morningrise
(continua...)