4 feb 2019

UNA SETTIMANA IN COMPAGNIA DI DEVIN - Parte I


DIECI ALBUM (PIU' UNO) PER CAPIRE DEVIN TOWNSEND - Cap. I

Antica Tracia, la terra che diede i natali a Spartaco, il gladiatore-ribelle più famoso della Storia. I Romani la governarono a partire dal I sec. d.C. per quasi mezzo millennio. Numerosissime le testimonianze storiche dell’Impero, tra cui il meraviglioso Anfiteatro di Trimontium, attuale Plovdiv, Bulgaria centrale. In questo suggestivo scenario, negli ultimi anni, molti artisti Metal hanno scelto di ambientare un proprio live, da immortalare, e poi commercializzare, poi su DVD.
Recentemente gli Anathema, con il loro splendido “Universal” del 2013. E nel settembre 2017, per festeggiare i 20 anni dalla nascita del suo percorso solista, anche l’immenso Devin Townsend.


Lo stesso Devin ha definito questo concerto come un punto di arrivo, la “fine di un’era”, la celebrazione di un percorso ad oggi composto da 16 album in studio, 6 live ed altrettante raccolte (senza contare i singoli, i progetti paralleli, le partecipazioni varie e la rinomata produzione sotto marchio Strapping Young Lad). Insomma un materiale talmente ampio e di qualità da essere difficilmente completo anche nelle discografie dei suoi fan più accaniti.

Invece di scrivere una semplice recensione di “Ocean Machine – Live at the Ancient Roman Theatre”, abbiamo pensato bene di prendere spunto da questo bellissimo concerto (di cui comunque consigliamo caldamente l’acquisto) per raccogliere i fili di questi due decenni e, come nostra abitudine, raccontarveli in una Rassegna composta da 10 album essenziali (più uno), senza i quali non si può davvero dire di conoscere il Genio di Vancouver. E, visto che il mese prossimo, uscirà il suo nuovo full lenght, "Empath", quale migliore occasione per un riordino della sua intera discografia?

Townsend, Devin; The Devin Townsend Band; Devin Townsend Project…difficile districarsi in tanti monicker e tante release, ma per fortuna c’è Metal Mirror che, come di consueto, vi potrà guidare, in una sola settimana, alla scoperta di ogni sfaccettatura di colui che, attualmente, è tra gli artisti più poliedrici, e tra i più apprezzati da critica e pubblico, in circolazione nel mondo del Rock.

Caratterizzato da un approccio sincretico e a 360 gradi, il metal townsendiano è moderno, onnivoro, capace di introiettare le lezioni del passato (heavy classico, thrash, groove, prog) così come le tendenze più moderne (djent, elettronica, noise, ambient). E coniugando questo mix, già di per sé iper-saporito, con stilemi più soft, che guardano all’hard rock più raffinato (di quel tipo che molto critica definisce “art rock”). Una visione musicale personalissima, che rende ogni sua produzione unica e immediatamente riconoscibile, completa il quadro. Anzi no, non lo completa. Lo completa la sua voce: fenomenale, potentissima, capace di andare dallo screaming più acuto e affilato a tonalità calde e sensuali.

La metodologia che abbiamo deciso di adottare per la Rassegna non è meramente classificatoria (del tipo: i primi 10 dischi in ordine decrescente), ma volta a individuare quei dieci full lenght, non necessariamente i migliori qualitativamente, capaci di illustrare al meglio le diverse “anime” di Devin.

E allora, via si parte, con…

10. TRANSCENDENCE (2016) – IL “SINFONICO

Iniziamo con…la fine! “Transcendence” è l’ultimo album in studio del Devin Townsend Project ed è per certi versi uno dei più “semplici”, “abbordabili” per i neofiti. Coeso, fluido, epicamente solare, luminoso; una delle opere più risolte e mature del genio canadese (che già da tempo stava trasportando in musica questo suo approccio “positivo”). E il primo a non essere il parto di un’unica mente. Certo, le redini rimangono saldamente in mano a Devin ma ormai è evidente che il D.T. Project sia diventata una band a tutti gli effetti. E una band, tecnicamente parlando, con i controrazzi. Alla pelata di Devin si affiancano, ormai da tanti anni, gli altri tre fidi pelatoni: i barbuti Dave Young (chitarra) e Brian Waddell (basso) + quel fenomeno tentacolare che risponde all’impronunciabile nome di Ryan Van Poederooyen (batteria). Ma un ruolo di primo piano l’ha ormai anche il 5° e più giovane elemento del progetto, quel Mike St. Jean che si ritaglia con le sue tastiere enormi spazi, tanto da risultare co-autore assieme ai compagni di ben 5 dei 10 brani. 

Trascendenza e spiritualità orientaleggiante trovano spazio nelle liriche (sublimandosi negli 8’ della conclusiva, rilassata “From the heart”, che presenta un memorabile chorus in hindi) ma è il suo essere classicamente moderno (e mai modernista) a far di “Transcendence” un album da avere. Pur suonando DTP al 101%, Devin inserisce nel songwriting robuste e inusuali dosi di sinfonia, cori e orchestrazioni (e senza l’utilizzo di un’orchestra…) non rinunciando alla stratificazione dei suoni, ai delays e a quel wall of sound ormai suo marchio di fabbrica da sempre. Arrivando a confezionare una sorta di symphonic prog che, e questo è un grande merito, non risulta mai essere barocco o pomposo. E, per aggiungere gloria alla gloria, troviamo anche Anneke van Giesbergen, ormai costante collaboratrice di Devin dai tempi di “Addicted”. La Divina limita i propri inserimenti al minimo ma quando lo fa, i brani si rivestono di eleganza e di un’emozionalità da brividi che solo la sua voce ci sa donare.

Niente stravolgimenti quindi, ma una crescita matura accompagnata da intelligenti variazioni sul tema. E dopo vent’anni di continue produzioni, scusate se è poco…  

Voto: 8,5

9. OCEAN MACHINE – BIOMECH (1997) - IL “RACCOGLITORE

Facciamo subito un po’ d’ordine e, dopo l’ultimo nato, torniamo ai primi vagiti della produzione solista di Townsend. Pronti e via e Devin si presenta così, tanto per gradire, con un albumone. Nello stesso anno in cui, con gli Strapping, si imponeva all’attenzione mondiale con il capolavoro “City”, Devin (ri)esordisce duplicemente: con la sua etichetta indipendente HevyDevy Rec. e il suo primo disco solista, che raccoglie diverso materiale che il Nostro andava componendo da diversi anni a quella parte. Evitato agilmente l’effetto dispersività, rischio esistente visto l’iter di nascita, il disco è già a livelli ottimi, 74’ che, sa va san dir, non annoiano mai. Ispiratissimi, i brani si susseguono fluidamente, lasciando ognuno qualcosa di diverso alle orecchie ed al cuore dell’ascoltatore. Ma soprattutto evidenzia una cosa: che da qui non si torna indietro. I SYL d’ora in poi diventeranno il passatempo di Townsend che per il futuro avrà come focus questa carriera solista che si muoverà tra moderni stilemi progressive, largo utilizzo delle tastiere, alternanza di tempi veloci e medi, pesantezza groove, parti acustiche e/o ambient (“Sister” – “3 A.M.”), melodie pronunciate (la seconda song “Life”, che diventerà cavallo di battaglia nei live, è programmatica in tal senso). Insomma, un mix difficile da tenere insieme in modo credibile se non sei Devin Townsend, appunto…Ma Devin è Devin e se a fine disco, con “The death of music”, si vuole permettere addirittura un esperimento di 12’ industrial-ambient, con risultati peraltro ragguardevoli, nessuno gli può dire alcunchè.

E se questo è solo l’inizio…sti cazzi!

Voto: 7,5


8. PHYSICIST (2000) – IL’”DIRETTO

Paradossale: la maggior parte della critica lo considera una mezza schifezza, con una produzione orribile, un mixaggio ancor peggiore e con canzoni che sembrano buttate lì a casaccio. Ma soprattutto è lo stesso Devin che lo considera di gran lunga il suo album peggiore.

E allora?!? Mi ci metto io a riabilitarlo? Beh…si!

Nato come progetto ancor più estremo dei SYL (tanto da essere senza dubbio l’album più diretto e senza fronzoli dell’intera discografia solista di Townsend), e concepito in comune con Jason Newsted (che abbandonò la cosa perché ostracizzato da quel simpaticone di Ulrich), “Physicist” venne proseguito e ultimato dal solo Devin, con la chiamata in studio di tutta la line up dei SYL (Stroud, Simon, Hoglan).

Sparato a mille all’ora, tanto da durare appena 40’ (un’inezia per gli standard del Nostro), Devin getta in questo disco idee validissime sempre in bilico tra devastazione industrial-thrash (con puntate death, come nella sconvolgente, appunto, “Death”) e l’eleganza, vocale e melodica, che era già emersa nei due anni precedenti con “Ocean machine” e “Infinity”. Tutta la track list è composta da brani che durano poco meno o poco più di 3’, ad eccezione di due perle di rara bellezza: “Kingdom” (che ritroveremo, cantata dalla Divina Anneke, anche in “Epicloud”) e gli undici minuti della finale “Planet rain”, uno degli esempi più alti dell’extreme prog metal townsendiano.

When words have gone away / Remember NAMASTE!

Voto: 7,5

A cura di Morningrise

(continua...)