Del Libano, con le sue
prerogative geografiche, sociali, interculturali e inter-religiose, si ha uno
splendido spaccato in “Insciallah”, uno dei migliori libri di Oriana Fallaci
(1990), ambientato durante la terribile Guerra Civile che ha devastato il piccolo
Paese a inizio anni ‘80.
Democratica Repubblica Parlamentare
(ed è già una notizia parlando di un paese arabo del Vicino Oriente), il Paese
dei Cedri (cedri che ormai scarseggiano a causa delle deforestazioni a fini industriali), oltre ad annoverare numerose meraviglie storico-architettoniche,
ha sempre potuto vantare una consistente, e qualitativamente importante,
produzione letteraria e teatrale. Nonchè una solida tradizione musicale.
Che il Metal, all’interno di
questa tradizione, sia minoritario va da sé. Ma non tanto da non permettere la
realizzazione a Beirut di un Metal Fest,
di cui l’ultima edizione ha visto come co-headliner addirittura Destruction e i
campioni polacchi del tech-death metal Decapitated (rooster Nuclear Blast). Complessivamente,
negli ultimi vent’anni circa, parliamo di qualcosa come una 50ina di band. Certo, di queste, circa ¼ si sono sciolte,
altre si sono riciclate e di altre se ne sono perse le tracce. Ma ad ogni modo
circa una ventina sono tutt’ora in azione. Che per un paese di 6 mln di
abitanti, con un reddito pro-capite medio-basso, non è male.
Non tutti gli artisti rock/metal
libanesi però hanno trovato fortuna in patria e sono stati quindi costretti ad
espatriare, come ad esempio il guitar hero Alan
Azar, emigrato negli States e fautore di un prog-metal strumentale
pregevole, che sa spaziare tra diversi generi, dal blues all’heavy classico,
utilizzando uno shredding moderno e con influenze a tratti djent.
Chi rimane in Libano invece pare
prediligere il veicolo del Black nelle sue più svariate declinazioni
(symphonic, depressive, ambiental, melodic). Di qualità, seppur non innovativo,
quello di stampo celestial proposto dagli Auriga
che si cimentano, con una produzione volutamente lo-fi, in brani di oltre 10
minuti tra furiosi blast-beat e parti più cadenzate, con chitarre fruscianti che ricreano un bell’effetto bufera di vento.
Rimanendo in ambito black, concettualmente
ci vanno giù pesanti gli Ayat, già a
partire dai geniali nicknames dei suoi due componenti: Mullah Sadogoat (sic!) e Reverend
Filthy Fuck (meraviglia…). Giurano di non essere anti-islamici ma contro
ogni forma di establishment religioso. Ad ogni modo sono già riusciti a
pubblicare due full-lenght, di cui l’ultimo, Vai avanti, carogna! (“Carry on,
carrion!”, titolo agghiacciante) presenta una sorta di black-grind non particolarmente
innovativo. Se non per i titoli, uno più spassoso dell’altro tra cui si segnala
il lunghissimo “Every time a child says ‘I don’t believe in Allah’, there’s a
little Allah somewhere that falls down dead”. Chapeau…
Le prime cose davvero interessanti
le ritroviamo con i Blaakyum che già
nel 2012 col debut “Lord of the night”, si erano resi protagonisti di un
buonissimo heavy metal, moderno ma non modernista e con influenze folk
mediorientaleggianti. Col più recente “Line of fear” invece i Nostri alzano il
tiro proponendo un thrash moderno (mi hanno ricordato i Nevermore) mantenendo le venature folkish e innervandoli con tribalismi ritmici (seppur a volte un po' fuori contesto).
Al di là di una voce non malaccio ma sicuramente perfettibile, la produzione è
a livelli professionali, così come la preparazione tecnica dei 4 baldi giovani.
Per chi scrive, la miglior band libanese ascoltata.
Ma spostiamoci un po' da Beirut e
vediamo cosa si dice in periferia. In periferia si dice che il black rimane il
veicolo espressivo preferito dalle metal band libanesi. Tripoli, ad esempio, è sia
la città dei Death is Painless
(bellissimo monicker e bellissimo logo old-style) che ci propongono un depressive
black di ottima fattura nei 38’ del loro EP “Beautiful nature depression”; sia degli Hatecrowned, messi sotto
contratto dai russi della Satanath Rec. Blackened death molto vario e a tratti
atmosferico, con sfuriate grind. Il cantante, Ayman, lo ritroviamo anche nei Lagrima che, nel loro recente “Gilgamesh
(The quest for immortality)”, sfoderano un’ora di validissimo melo-death che
mette in mostra la versatilità del singer.
Parlando di personalità di spicco
del metal libanese, segnaliamo il polistrumentista Anthony Kaoteon che proprio l’anno scorso se ne è uscito, con la
sua band omonima, con un full lenght “Damnatio Memoriae” (dalla copertina
strepitosa) di grandissimo pregio. Un (melo) death moderno, non debitore dei
capisaldi novantiani del genere. E soprattutto molto professionale da un punto
di vista formale. Una professionalità che continuiamo a riscontrare in tutti i
gruppi che sono arrivati a pubblicare EP/LP. Non fanno eccezione i Kimaera che con “The Harbinger of Doom”
si fanno veicolo di un goth-doom death discreto, comunque derivativo, ma che è confezionato
ancora (produzione, layout, esecuzione) in modo impeccabile.
Rimaniamo in periferia: da un paesino di 2500 abitanti,
Baabda, proviene invece il Burzum libanese, Byafra, unico titolare del progetto Moonaadem, che nel 2017 pubblica il disco omonimo. 32’ di ambient/goth
black di buona fattura con cantato in francese e inserti folkish. Non
particolarmente originale per carità, ma l’ascolto rimane piacevole.
Ok, decido di chiudere col Black
libanese e mi sposto su versanti più classici. E per questo torniamo nella
capitale. E in chi mi imbatto? In una thrash/death metal band tutta al
femminile! Le Slave to Sirens
(ottimo nome), autrici di un EP, “Terminal leeches” in cui, in 4 canzoni e 19’
di running time, le Nostre tirano fuori un sound cazzuto, articolato (diverse
le parti arpeggiate che ben si integrano con quelle serratissime) ben prodotto
e ben suonato, con chiarissimi rimandi ai Death. Ambiziose le fanciulle ma
sanno davvero il fatto loro e la cantante, Maya Khairallah, ha un timbro al
vetriolo che ricorda davvero il compianto Chuck.
Maya la preferiamo in questa
versione deathosa, perché col pulito rende meno. Infatti la giovane la
ritroviamo anche negli Zix, band di
heavy classico attiva da quasi un decennio e guidata dal chitarrista argentino
Juan Carrizo. Il loro “Tides of the Final War” (i libanesi coi titoli degli
album ci acchiappano…) si rifà, con una produzione corposa e potente, da un lato
al sound dei mostri sacri, Iron in testa (“Metal Strike” potrebbe rischiare la
denuncia di plagio), e dall’altro al power tedesco novantiano. Ma non vanno
sottaciute personalità e idee proprie. L’album scorre piacevolmente, anche se
forse manca l’acuto che ti si stampa in mente.
Cosa che invece riescono a fare i
Turbulence, ottima prog metal band il cui debut, “Disequilibrium” (2015), se
pur rivedibile nelle linee vocali, è davvero notevole da un punto di vista
strumentale. Dream Theater degli anni zero, Symphony X, Fates Warning i rimandi
più evidenti. Ma i 5 ragazzi riescono anche a smarcarsi con linee melodiche
azzeccate, innesti operistici (vedasi l’ottima “Everlasting retribution”) e
suggestivi momenti jazzistici guidati dal sax (“My darkest hour”). La title
track conclusiva poi, di 13’, è un compendio perfetto della proposta dei
Nostri, promossi a pieni voti.
Rimanendo nell’alveo della
classicità, sicuramente Zix e Turbulence fanno meglio dei The Arcane, combo formato da ben 7 musicisti che, dopo due full
lenght, non si sono più fatti sentire dal 2010. La loro ultima testimonianza,
“Rivers of endless sorrow” è una tutto sommato noiosa mescolanza di rock
melanconico, con venature goth metal e qualche indurimento chitarristico.
Trascurabili e poco emozionanti, neppure quando entrano in scena le female
vocals di Cynthia Safi.
E concludiamo con un po' di sano
thrash. Tralasciando quello new/groove (ben rappresentato dagli InnerGuilt), mi soffermo sui nostalgici Thrash Storm, che mi sarebbe
piaciuto sentire sulla lunga distanza e che invece, nonostante un periodo di
lunga attività, non sono andati oltre un paio di demo. Ma dopo tanta
professionalità e pulizia, è piacevole spararsi 15 minuti di thrash grezzo e
caotico mal registrato in stile primi-Destruction!
Insomma, se ci fossimo aspettati,
in questo viaggio libanese, di ritrovare un metal dai tratti caratteristici
mediterraneo-orientaleggianti, saremmo stati alquanto insoddisfatti. Il minimo
comun denominatore infatti, sembra essere quello della professionalità e di un
apolidicità che già il nostro Dottore aveva riscontrato nel metal petrolifero al di qua della Mesopotamia. Le band in cui ci siamo imbattuti potrebbero
essere di qualsiasi paese occidentale in quanto a stile, scrittura e capacità
esecutive.
E così, alla fine del viaggio,
abbiamo la netta sensazione di non aver conosciuto davvero un metal libanese.
Ma di essere stati in un non-luogo auge-riano: una sorta di spersonalizzante maxi centro
commerciale; o, meglio, di hub aereoportuale dove puoi ammirare e comprare
tanti begli oggetti nel Duty Free dei gate d’imbarco.
Un non-luogo, appunto, che
potrebbe trovarsi a Beirut come ad Amsterdam o Adelaide.
A cura di Morningrise